Il postulate. Un ragazzo e l’eterno conflitto tra anima e corpo

Ho cominciato a leggere Il postulante (WLM edizioni, 2009, pp.155), opera prima dell’esordiente Antonio Selmi, incuriosito da questa storia ambientata in un noviziato conventuale del nord Italia negli anni precedenti il Concilio.
Un romanzo dove s’incrociano senza malizia, innocenza e turbamento, desideri celati ed “amicizie particolari”, lungo quel cammino che porta “il credente a donarsi interamente a Dio”.
Invece proprio il microcosmo del convento, con le sue ricchezze spirituali e le sue miserie umane, lo aiuteranno a superare le sue paure e a fare i conti definitivamente con se stesso e la sua omosessualità attraverso la scoperta dell’amore di Luca, un novizio che per Fabio lascerà il convento, ponendolo così davanti a un bivio perché, come gli dirà chiaramente il padre maestro “entrando in convento noi religiosi dedichiamo con i voti tutta la nostra affettività a Dio e gli offriamo la nostra rinuncia al mondo, amore e sesso compresi.
Credo che a lui poco importa se rinunciamo all’amore verso un uomo o verso una donna, al sesso con l’uno o con l’altra. Credo che a lui interessi solo la volontà di dedizione totale, che con la nostra rinuncia esprimiamo”.
E proprio sulla scelta “se vivere quell’amore o rinunciare a esso per seguire Cristo” si apre il finale de Il Postulante che, con uno stile semplice e lineare, sa addentrarsi nell’eterno e sempre nuovo “conflitto agostiniano tra anima corpo”.
Ma chi è il modenese Antonio Selmi, autore esordiente de Il postulante?
Domanda difficile. Credo che un tentativo di risposta articolata annoierebbe molto i vostri lettori. Lascia allora che ti risponda giocando un po’ con i personaggi del romanzo.
La figura de “Il Postulante” che mi somiglia di più in questa fase della mia vita è quella di Padre Donati, l’”eremita”. Anch’io, come lui, sono vecchio (io meno di lui, a onor del vero), come lui abito in una casetta isolata sulla collina, amo gli animali e la natura, sono appassionato di giardinaggio, ho bisogno di silenzio e di stare da solo, ma , come lui, non considero il mio isolamento una chiusura al mondo e resto quindi aperto agli affetti , soprattutto all’amicizia; come lui, provo interesse e (quasi sempre) una spontanea simpatia per la gente, in particolar modo per i giovani.
Credo che quest’ultima sia una delle ragioni per cui ritengo di essere stato un insegnante accettabile. Adesso che sono in pensione, con la fortuna di non avere grandi bisogni, posso dedicarmi di più a quello che padre Donati, libero da incombenze pratiche e da preoccupazioni economiche, ha potuto fare per tutta la vita: leggere e studiare.
Dopo averle trascurate per anni, ho ripreso con interesse le mie letture su Cristo e le origini del Cristianesimo. Non cerco risposte definitive, né sarò mai un esperto della materia, ma non sono questi i miei obbiettivi. E poi, da un paio d’anni, c’è la scrittura.
Come è nata l’idea da cui è scaturita la scrittura de Il postulante?
Più che da un’idea, è nata da una necessità, quella di comunicare con gli altri. Sono un divulgatore per vocazione, non mi passerebbe mai per la mente di scrivere un diario segreto: ho bisogno di trasmettere agli altri quanto ho imparato, quanto so o credo di sapere e di confrontarmi con loro. Come insegnante avevo il “pubblico” dei mie allievi; come scrittore mi rivolgo a chi avrà la pazienza di leggermi.
Certo, non è un rapporto così immediato come quello con gli studenti, ma già mi arrivano i primi riscontri, e mi piace sentire le diverse reazioni dei lettori: c’è chi ha apprezzato la favola d’amore, chi ha visto altro e oltre a quella. E’ un bello scambio, mi sembra.
Devo aggiungere che, come molte passioni senili, la scrittura sta diventando quasi un’ossessione : ho già scritto due romanzi brevi, di cui l’unico finora pubblicato è appunto Il postulante, e sto per completarne un terzo, a cui tengo molto perché è il primo in cui lavoro quasi solo di fantasia.
Ogni romanzo, anche se di fantasia, racchiude in sé delle parti autobiografiche. Quale parte de Il postulante senti più vicina a te. E perché?
Tutti i lettori con cui ho avuto modo di parlare, anche quelli che di me non sapevano assortamente nulla, hanno capito che Il Postulante ha chiare radici autobiografiche. Mi è dunque difficile scegliere una parte piuttosto che un’altra, perché tutta la vicenda fa riferimento in qualche modo alla mia vita.
E’ d’obbligo però a questo punto una precisazione, che ritengo fondamentale: non si tratta affatto della mia autobiografia, che potrebbe interessare solo amici e parenti: Fabio ha una sua vita propria, segue un suo percorso di crescita umana e spirituale che non corrisponde necessariamente al mio: io ho semplicemente scelto per lui alcuni episodi della mia giovinezza, gli ho attribuito sentimenti che sono stati i miei, l’ho fatto incontrare con alcune persone che anche che per me hanno significato molto, dopo di che l’ho lasciato andare per la sua strada, con la speranza che queste esperienze, episodi, persone potessero assumere un significato non privato, bensì di interesse più generale .
Un esempio: che Antonio Selmi adolescente si sia scoperto omosessuale e che il senso di colpa e di peccato non gli fossero spontanei bensì traumaticamente indotti dall’esterno è un fatto che , al limite, potrebbe interessare i suoi amici e parenti: nell’economia del racconto, questo episodio diventa invece una chiave indispensabile per la comprensione della crescita umana del personaggio Fabio, (liberazione dal senso di colpa, graduale uscita da sé per aprirsi agli altri ecc.)
Su un altro livello di lettura lo stesso episodio – almeno nelle mie intenzioni – diventa paradigmatico dell’atteggiamento di crudele colpevolizzazione che la società e la chiesa hanno tradizionalmente nei confronti degli omosessuali.
Altro esempio: io non ricordo affatto che cosa ho provato dopo la confessione dei miei primi “atti impuri con un uomo”, ma è importante che Fabio, assieme alla gioia per essere stato assolto dai suoi peccati, senta, sia pur confusamente, la delusione per non essere stato accettato dalla chiesa per quello che sa di essere, perché quell’inclinazione “non sarebbe scomparsa mai, perché faceva parte della sua natura, era per lui l’unico modo possibile di desidera l’amore, il sesso, era il suo unico modo di essere, era lui stesso”.
Se Cristo l’ha accolto per quello che è, Fabio si aspetta che anche la Sua chiesa lo faccia. Credo che, in questa chiave di lettura, i suoi sentimenti e i suoi pensieri dopo la confessione assumano una valenza di interesse generale. Potrei continuare con altre esemplicazioni, ma preferisco chiudere qui con una battuta: che Il Postulante non sia la mia autobiografia lo dimostra il fatto che quello che il protagonista del romanzo capisce in un paio di mesi, Antonio Selmi lo ha capito (e forse non ancora del tutto) nel corso di una vita.
C’è un messaggio che vorresti che questo romanzo trasmetta ai tuoi lettori?
Se sono riuscito almeno in parte nel mio intento, posso sperare che di messaggi (preferirei chiamarli spunti per una qualche riflessione) Il Postulante ne offra più di uno.
Mi piacerebbe, ad esempio se un lettore eterosessuale, magari un genitore, capisse meglio (e compatisse, nel senso etimologico della parola) le pene che molti ragazzi e ragazze ancora oggi soffrono in solitudine, prima di trovare il coraggio di liberarsi del loro “segreto” ; sarei anche molto contento se qualcuno trovasse nel racconto uno sprone per proseguire nel suo cammino di ricerca di Dio.
Se di un “messaggio” vogliamo parlare, allora vorrei che fosse un messaggio di ottimismo, il mio “Yes, we can”: un invito rivolto a tutti a guardare senza paura dentro se stessi, a sapersi accettare e a impegnarsi (direi a pretendere, dato che la giustizia va pretesa) perché anche gli altri lo accettino, nella convinzione che prima o poi questo inevitabilmente succederà.
Un assaggio da ‘Il Postulante’, pp.41-44
(…) Anche Fabio si alzò e lo seguì fuori dal cinema. Voleva parlagli, aveva tanto da chiedergli e non poteva credere che la cosa fosse finita così, senza una parola.
Vedendosi seguito, l’uomo accelerò il passo. Anche Fabio lo fece. Prima di raggiungere il corso affollato dal passeggio della domenica pomeriggio, l’uomo si voltò di scatto.
– Perché mi segui? Che cosa vuoi? – gli chiese con un tono di voce più spaventato che minaccioso. Poi afferrò una mano del ragazzo e gli premette con forza sul palmo un moneta da cento lire.
Fabio notò la fede al suo anulare. Mentre l’altro si allontanava rapidamente, lui rimase lì fermo, guardando a lungo la moneta nella mano impiastricciata.
Finalmente riuscì a muoversi, e si mise a correre verso casa. Corse a lungo, per un tempo che parve interminabile, poi a un tratto si fermò per riprendere fiato.
— Non posso andare a casa. Come faccio adesso a guardare in faccia mio padre e mia madre? —, pensò.
Lì vicino c’era una fontanella. Si lavò le mani e il viso e poi si sedette sui gradini di accesso a una chiesa. Il portone era aperto e lui d’impulso entrò.
Dentro non c’era nessuno, nell’aria si sentiva il profumo dell’incenso di una funzione ormai finita. Si sedette su una panca, in un angolo sul fondo della navata. Non entrava da anni in una chiesa: nessuno in famiglia lo faceva.
D’un tratto sentì il bisogno di inginocchiarsi. Desiderò anche per sé un po’ di quella pace che regnava lì dentro. Di preghiere non ne sapeva.
E gli sembrò che il Signore lo avesse perdonato, perché una gran pace gli scese dentro. Quella pace gli diceva che Dio, che lo aveva creato così, non lo respingeva come un mostro, anzi lo accettava per quello che era e lo stava salvando.
Fu l’inizio della sua conversione.
Nei giorni successivi tornò spesso in quella chiesa a pregare, a godere di quella pace che solo lì provava. Poi conobbe padre Martini. Fu il religioso a rivolgergli la parola. Gli chiese chi fosse, dato che lo vedeva frequentare con tanta assiduità la chiesa, senza essere della parrocchia.
Fabio gli raccontò che stava avvicinandosi alla fede, gli chiese di aiutarlo. Il padre non cercò in alcun modo di forzargli la mano, di imporgli comportamenti devozionali, di impartirgli insegnamenti dottrinali.
Diceva che l’unica cosa importante era che lui amasse Dio e lo pregasse. Fu così che conquistò la sua fiducia, e Fabio decise che gli avrebbe detto la verità.
Dopo qualche mese gli chiese di confessarlo, perché voleva fare la comunione. Non aveva molti peccati da confessare, salvo quello.
– Hai commesso atti impuri?
– Sì.
– Da solo o in compagnia?
– Da solo e in compagnia.
– Con donne?
– No
– Con uomini?
-Sì.
Fabio restò a questo punto con il fiato sospeso, in attesa che il confessore gli chiedesse spiegazioni. Ma l’altro continuò:
Ti penti con tutto il cuore dei tuoi peccati e prometti che cercherai di non commetterne più in futuro?
– Sì, padre.
Dopo l’assoluzione il ragazzo si era sentito per la prima volta dopo tanto tempo di nuovo uguale a tutti gli altri, come da bambino: la sua anima adesso era una pagina bianca, non più macchiata dal peccato, da quel peccato.
D’un tratto però sentì svanire quella sensazione di pace: si disse che neanche durante la confessione era emersa la verità. Padre Martini aveva sicuramente considerato i suoi atti impuri delle ragazzate, episodi legati a una fase della vita in cui la sessualità non è ancora ben definita, che non lasciano tracce, che si dimenticano appena usciti dall’adolescenza.
Lui invece non poteva dimenticare: quella inclinazione colpevole l’aveva sempre dentro di sé, anche in quel momento. Non era scomparsa dopo la sua contrizione né dopo i tre pateravegloria; non sarebbe scomparsa mai, perché faceva parte della sua natura, era per lui l’unico modo possibile di desiderare l’amore, il sesso. Era il suo unico modo di essere, era lui stesso.
Si sentì di nuovo diverso dagli altri che camminavano in fila con lui verso l’altare. Mentre si inginocchiava alla balaustra, rivolse una preghiera a quel Padre che era il solo a conoscere la verità e che lo aveva accolto nonostante la sua colpa. Gli promise che in cambio lo avrebbe servito per tutta la vita, se Lui avesse voluto. Poi aprì la bocca e ricevette l’ostia consacrata. (…)
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