Finchè respiri. Imparare ad amare veramente il nostro figlio gay
Riflessioni di Linda Robertson pubblicate sul sito Huffingtonpost.com (USA) il 1 luglio 2013, liberamente tradotte da Silvia Lanzi
La sera del 20 novembre 2001 una chiacchierata con Instant Messenger cambiò per sempre la nostra vita.
Ryan: Devo dirti qualcosa.
Mamma: Ti ascolto
R: Non so come dirtelo, ma… non posso continuare a dirti bugie su di me. Ho nascosto questa cosa per troppo tempo e sento di dovertelo dire adesso. Probabilmente hai un’idea di ciò che sto per dirti…. Sono gay…. Non posso credere di avertelo detto.
Mamma: Stai scherzando?
Ryan: No. Credevo capissi per via di zio Don
Mamma: Certo. Ma cosa ti fa pensare di esserlo?
R: Lo so, Non mi piace Hannah. È solo una copertura
Mamma: Però non è detto che tu sia gay
R: Sono gay
Mamma: Dimmi ancora qualcosa
R: È semplicemente come sono, è qualcosa che so. Tu non sei lesbica, e lo sai. È la stessa cosa
Mamma: Cosa vuol dire?
R: Che sono solo gay. È quello che sono
Mamma: Ti voglio bene comunque.
R: Sono bianco, non nero. Lo so. Sono un ragazzo, non una ragazza. Lo sai di te e io so questo
Mamma: Grazie per avermelo detto
R: Sono molto confuso ora
Mamma: Ti voglio ancor più bene per essere stato onesto
R: Lo so, Grazie
Siamo rimasti completamente scioccati. Non è che non conoscessimo e amassimo le persone gay; il mio unico fratello fece coming out parecchi anni prima e lo adoriamo. Ma Ryan? Non aveva paura di niente, era un duro e macho. Non ne avevamo avuto sentore e l’emozione che ci sopraffece ci tenne svegli tutta la notte e, purtroppo, la paura influenzò il nostro modo di porci nei successivi sei anni.
Dicemmo tutto ciò che degli amorevoli genitori cristiani che credono nella Bibbia, la Parola di Dio, dovrebbero dire: “Noi ti amiamo. Ti ameremo sempre. Ed è duro. Ma sappiamo cosa ha detto Dio sull’omosessualità, così devi fare delle scelte davvero difficili. Ti amiamo. Non potremmo amarti di più.
Ma ci sono altre persone che hanno affrontato questa lotta, e Dio ha operato in loro per cambiarne i desideri. Ti daremo dei libri; potrei sentire le loro testimonianze. E avremo fiducia in Dio.
Ti amiamo. Siamo orgogliosi che tu sia nostro figlio. Ma sei giovane. I sentimenti che provi per gli altri ragazzi non fanno di te un gay. Per cui, non dire a tutti che sei gay. Non sai ancora chi sei. La tua identità non è la tua omosessualità; è piuttosto che tu sei figlio di Dio.
Ti amiamo. Nulla potrà cambiarlo. Ma se hai intenzione di seguire Gesù, la santità è la tua sola possibilità. Devi solo cercare il modo in cui scegliere Gesù, non importa quale sia. E, siccome sai cosa ne dice la Bibbia, assecondare la tua sessualià non è un’opzione”.
Pensavamo di conoscere la grandezza del sacrificio che noi – e Dio – gli stavamo chiedendo. E questo sacrificio, lo sapevamo, avrebbe portato ad un’abbondanza di vita, ad una pace perfetta e alla ricompensa eterna. Ryan si era sempre sentito profondamente attratto dalla spiritualità, desiderava, soprattutto, compiacere Dio. Così, per i primi sei anni, cercò di scegliere Gesù.
Come parecchi altri prima di lui, pregò Dio di aiutarlo a sentirsi attratto dalle ragazze. Imparò a memoria le Scritture, si incontrava settimanalmente con il suo direttore spirituale, partecipava con entusiasmo agli eventi del gruppo parrocchiale giovanile e agli studi biblici. E infine venne battezzato.
Lesse tutti i libri che tentavano di spiegare da dove venivano i suoi sentimenti omoerotici, iniziò una psicoterapia per scoprire le ulteriori ragioni della sua non voluta attrazione per i ragazzi, lavorò alla risoluzione di penosi conflitti con me e mio marito, costruì forti amicizie con altri ragazzi – ragazzi etero – proprio come consigliavano gli esperti di terapie riparative.
Testimoniò anche a tutto il suo gruppo giovanile, raccontando di come Dio lo avesse salvato dalle trappole del nemico, ricordando e condividendo il modo in cui Dio lo aveva riportato a sé.
Ma nulla cambiò. Dio non rispose alle sue preghiere, o alle nostre, sebbene noi tutti credessimo con fede che il Dio dell’Universo, il Dio al quale nulla è impossibile, potesse facilmente far diventare Ryan etero. Ma non fu così.
Sebbene i nostri cuori fossero in pace (credevamo davvero che quello che facevamo fosse giusto), non demmo a Ryan nemmeno una possibilità di lottare con Dio, per cercare di capire cosa Dio gli diceva della sua sessualità attraverso la Scrittura.
Credevamo fortemente di dare ai nostri quattro figli tempo e modo di interrogarsi sul cristianesimo, perché decidessero loro stessi se volevano seguire Gesù, e per dare loro una vera fede. Ma eravamo troppo spaventati per dare a Ryan quest’opportunità quando saltò fuori la questione della sua sessualità, per paura che facesse la scelta sbagliata.
Sostanzialmente, dicemmo a nostro figlio che doveva scegliere tra Gesù e la sua sessualità. Lo obbligammo a fare una scelta tra Dio e il suo essere sessuato. Scegliere Dio, praticamente, significava vivere tutta una vita condannato ad essere solo.
Non avrebbe mai avuto la possibilità di innamorarsi, non ci sarebbe mai stato un primo bacio, delle dita che si intrecciano; non avrebbe mai condiviso la sua intimità con nessuno, non avrebbe avuto un compagno o vissuto situazioni romantiche.
E così, proprio prima del suo diciottesimo compleanno, Ryan, talmente depresso da pensare al suicidio, disilluso e convinto che non sarebbe mai riuscito a farsi amare da Dio, prese una decisione. Decise di sbarazzarsi della sua Bibbia e della sua fede e di cercare ciò che voleva disperatamente – la pace – in un altro modo. E la prima via che provò fu quella delle droghe.
Non abbiamo insegnato coscientemente a Ryan di odiare la sua sessualità. E poiché la sessualità non può essere separata dall’essere, abbiamo insegnato a Ryan a odiare se stesso. Così ha iniziato ad usare droghe, e lo fece in un modo così sfrenato e privo di precauzioni per la sua sicurezza, da allarmare tutti quelli che lo conoscevano.
Improvvisamente la paura che Ryan avesse un ragazzo (una possibilità che onestamente mi aveva terrorizzato) mi sembrò insignificante di fronte alla paura della sua morte, specialmente tenendo conto del suo recente rifiuto del cristianesimo e della sua crescente rabbia nei confronti di Dio.
Ryan iniziò con marijuana e birra, ma sei mesi dopo già usava cocaina, crack ed eroina. Era già stato tirato dentro fin dall’inizio e il disgusto di sé e la rabbia nei confronti di Dio non fece altro che alimentare la sua dipendenza. Poco più tardi non avemmo più contatti con lui. Per il seguente anno e mezzo, non sapemmo dove fosse, né se fosse vivo o morto.
Durante quel periodo orribile, Dio ebbe la nostra piena attenzione. Smettemmo di pregare perché Ryan diventasse eterosessuale. Iniziammo invece a pregare che sentisse che Dio lo amava.
Smettemmo di pregare perché non avesse mai un ragazzo. Iniziammo a pregare per conoscere, un giorno o l’altro, il suo fidanzato. Smettemmo anche di pregare per farlo ritornare; volevamo solo che stesse bene.
Comunque nostro figlio ci chiamò, dopo diciotto mesi di silenzio. Dio aveva cambiato completamente la nostra prospettiva. Dal momento che aveva fatto cose terribili mentre assumeva droghe, la prima cosa che mi disse fu:
- Pensate di potermi perdonare? (Gli dissi che l’avrei certamente. Sarebbe sempre stato perdonato)
- Credete di potermi amare ancora? (Gli dissi che non avremmo mai smesso di farlo, nemmeno per un secondo. Lo amavamo più di quanto l’avessimo mai fatto prima)
- Pensate di potermi volere bene se avessi un ragazzo? (piangendo, gli dissi che lo avremmo amato anche con 15 ragazzi. Lo volevamo soltanto di nuovo nelle nostre vite. Volevamo stare con lui… e anche con il suo ragazzo)
Iniziò un nuovo viaggio, fatto di ferite che si rimarginano, di comunicazione reciproca e di grazia. Molta grazia. E Dio era presente ad ogni passo del nostro cammino, guidandoci, ricordandoci semplicemente di amare nostro figlio e lasciare il resto a Lui.
Per i dieci mesi successive, imparammo ad amare veramente nostro figlio. Giorno per giorno. Senza “ma”. Senza condizioni. Solo perché respirava. Imparammo ad amare nostro figlio chiunque lui amasse.
E fu facile. La cosa di cui ero più dispiaciuta divenne una benedizione. Il cammino non fu privo di errori, ma chi rispettavamo e le parole di scusa e di perdono divennero parte naturale del nostro vivere insieme.
Come nostro figlio lottò contro alcool e droga, noi lottammo per lui. Dio ci insegnò come amarlo, come gioire per e di lui, come essere orgogliosi dell’uomo che stava diventando. Tutti noi stavamo guarendo e, cosa più importante, Ryan iniziò a pensare che se noi lo potevamo perdonare anche Dio avrebbe potuto farlo.
E poi Ryan fece il classico errore del tossico in recupero: tornò insieme ai suoi soliti vecchi amici. E una sera, che avrebbe dovuto essere una semplice serata al cinema, si trasformò nella prima ricaduta in dieci mesi.
La prima e l’ultima. Ryan morì il 16 luglio 2009. E noi perdemmo la possibilità di amare il nostro figlio gay, perché non avevamo più un figlio gay. Ciò che avevamo sperato, per cui avevamo pregato – di non avere un figlio gay – si era avverato. Ma non nel modo che avevamo immaginato.
Ora, quando ripenso alla paura che dominava tutte le mie reazioni durante i sei anni dopo il coming out di Ryan, sono letteralmente imbarazzata dalla mia stupidità. Avevo paura delle cose sbagliate. E soffro, non solo per mio figlio maggiore, per gli errori che ho fatto.
Soffro per ciò che avrebbe potuto essere, avremmo potuto parlare con fiducia e non con paura. Ora, quando Rob e io passiamo una serata con i nostri amici gay, penso a quanto mi sarebbe piaciuto che Ryan e il suo compagno facessero un giro da noi per cena. Invece visitiamo la sua tomba.
Celebriamo gli anniversari: i compleanni che avrebbero potuto esserci, il giorno indimenticabile della sua morte. Indossiamo l’arancione: il suo colore. Teniamo ricordi: foto, vestiti che ha indossato, appunto, liste di cose che gli piacevano, le canzoni buffe che inventava, il suo pupazzo di Curious George, insomma, tutto ciò che ci ricorda il nostro splendido ragazzo, perché è tutto ciò che ci ha lasciato, e non ci saranno ricordi nuovi.
Siamo felici dei nostri figli grandi, e della famiglia che si allarga quando loro si sposano, ma soffriamo per quello della “gang dei quattro” che abbiamo perso.
Datiamo la nostra vita dai giorni “prima del coma” a quelli “dopo la morte”, ed è uno spartiacque, perché ora siamo persone differenti. La nostra vita è cambiata indelebilmente dopo la sua morte, e in un milione di modi. Facciamo tesoro delle amicizie con gli altri che “ci sono dentro”, perché anche loro hanno perso un figlio.
Piangiamo. Chiediamo al Cielo grazia, perdono e redenzione non per cercare di stare meglio, ma di essere migliori. E preghiamo perché Dio usi in qualche modo la nostra storia per aiutare altri genitori ad amare davvero i loro figli. Solo perché respirano.
Testo originale: Just Because He Breathes: Learning to Truly Love Our Gay Son