Perche’ voglio sposarmi con il mio compagno? Perché lo amo
Riflessione di Andrew Sullivan* tratta da Internazionale.it del 26 febbraio 2004
Un giornalista credente e omosessuale spiega perché vuole avere il diritto di sposarsi con il suo compagno, perché: "Quando la gente parla di matrimonio (gay), perde di vista il punto essenziale: non si tratta del matrimonio tra omosessuali". Perché l'amore ha sempre una piena dignità, che solo il matrimonio può garantire.
Da bambino non avevo la minima idea di cosa fosse l'omosessualità. Sono cresciuto in una famiglia tradizionale della classe media, cattolica e conservatrice. La vita era semplice: scuola, lavoro, famiglia. Mi hanno insegnato a pormi grandi obiettivi nella vita, anche se i miei genitori non avevano studiato all'università.
Ma mi è stata anche insegnata un'altra cosa: ciò che contava veramente non era la carriera, i soldi o la fama, bensì la famiglia e l'amore del proprio partner. Il giorno più importante della mia vita non era quello della laurea, del primo posto di lavoro o dell'acquisto della prima casa.
Era quello del mio matrimonio: quello in cui la mia famiglia e i miei amici si sarebbero riuniti per festeggiare la cosa più importante della vita, la mia felicità per aver saputo formare una nuova famiglia.
Crescendo ho scoperto che, in qualche modo, tutto questo mi era precluso. Non provavo per le ragazze le stesse cose che provavano i miei coetanei. Tutte le emozioni, i riti sociali e i rapporti normali di un ragazzo eterosessuale erano completamente assenti dalla mia vita. Non sapevo perché. Nessuno me lo spiegava.
I miei legami emotivi con altri ragazzi non erano corrisposti; ogni volta che mi sentivo innamorato, loro se ne accorgevano e mi respingevano. Non potevo certo fargliene una colpa. Normalmente andavo d'accordo con i miei amici e tutto filava liscio, ma rimaneva qualcosa di strano, di non giusto.
Ho capito quasi istintivamente che non sarei mai stato parte della mia famiglia nello stesso modo in cui un giorno avrebbero potuto esserlo i miei fratelli. L'amore che provavo non poteva essere comunicato. Era tabù.
Quando pensavo alla mia vita, non riuscivo a vedere un futuro: c'era solo un vuoto. Sarei rimasto solo per sempre? Avrei mai avuto l'occasione di festeggiare il giorno più importante della mia vita? Sembrava impossibile; una contraddizione, un disastro.
Per essere parte integrante della mia famiglia dovevo in qualche modo rinunciare a essere me stesso. Così, come molti altri ragazzi omosessuali, mi sono chiuso in me, diventando nevrotico, depresso, e a volte ho avuto persino tentazioni suicide.
Mi sono barricato nella mia stanza, passando le notti a leggere e studiare, mentre i miei coetanei facevano le prime esperienze, imparando a costruire relazioni e rapporti d'amore. Ferito nell'orgoglio, ho dichiarato persino il mio rifiuto della famiglia e del matrimonio. Era il solo modo in cui potevo spiegare il mio isolamento.
"Allora, quando ti sposi?"
Mi ci sono voluti molti anni per capire che ero omosessuale, altri per esprimerlo apertamente, e ancor di più per creare un qualche rapporto sentimentale con un altro uomo. Dato che la mia sessualità si era sviluppata in solitudine, e senza riferimenti all'idea di un'autentica relazione, mi è stato difficile creare un collegamento tra sesso, amore e autostima. Lo è tuttora.
Ma ho sempre insistito, e ogni nuova relazione è stata più stabile della precedente; ho imparato a trent'anni ciò che i miei amici eterosessuali avevano scoperto quando ne avevano venti. Comunque genitori e amici non mi hanno mai fatto la domanda che mi avrebbero automaticamente rivolto se non fossi stato omosessuale: "Allora, quando ti sposi? Quando festeggeremo il tuo matrimonio?".
Anzi, nessuno, proprio nessuno, mi ha ancora fatto questa domanda. Quando la gente parla di matrimonio, perde di vista il punto essenziale: non si tratta del matrimonio tra omosessuali. Si tratta della famiglia e dell'amore, non della religione.
Si tratta del diritto a un autentico matrimonio civile. Ogni chiesa può e deve avere il diritto di rifiutare il matrimonio gay all'interno della propria congregazione, così come i cattolici non ammettono il divorzio; però, il divorzio è anche una libertà civile.
Questi valori familiari non sono accessori per una vita felice e stabile, sono necessità assolute. Classificare le relazioni gay in qualche altra categoria – unioni civili, convivenza, qualsiasi cosa – può servire a risolvere dei bisogni concreti; ma l'eufemismo di queste definizioni, dietro cui si nasconde una forma di emarginazione, non fa che erigere un muro tra le persone omosessuali e le loro famiglie. Un muro che molti di noi hanno impiegato quasi tutta la vita per abbattere.
Ormai è troppo tardi per cancellare il mio passato. Ma più di ogni altra cosa voglio rivolgermi a qualche giovane che leggerà queste righe. Voglio che quel giovane sappia che non deve più scegliere tra se stesso e la sua famiglia. Voglio che sappia che il suo amore ha piena dignità, e che lui stesso ha un futuro come parte integrante del genere umano. Solo il matrimonio può garantire questo. Solo il matrimonio può ricondurlo a casa.
* Andrew Sullivan è un giornalista britannico. È stato direttore della rivista statunitense New Republic. Conservatore, cattolico e omosessuale. Il suo sito è www.andrewsullivan.com