Anni 60. La rivoluzione gay contro i media omofobi di San Francisco
Articolo di Sarah Hotchkiss* pubblicato sul sito KQED (Stati Uniti) il 13 giugno 2019, liberamente tradotto da Silvia Lanzi, parte seconda
Unirsi alla rivoluzione gay. Prima degli eventi della Purple Hand e prima della creazione del Comitato per la libertà omosessuale, la più grande organizzazione gay di San Francisco (Stati Uniti) era la Society for Individual Rights (Società per i diritti individuali), una società omofila (per usare il linguaggio del tempo) fondata nel 1964.
Mentre il movimento per i diritti delle donne, quello contro la guerra e il Black Power (per i diritti dei neri) trascinavano la nazione, alcuni dei membri più giovani della comunità LGBTQ+ pensavo che la Society fosse troppo conservatrice. In un editoriale dell’aprile 1969, Leo Laurence, redattore di Vector, il mensile della Society, provocò alcuni appartenenti dell’associazione, molti dei quali bianchi, borghesi e non disposti al confronto attivo, chiamandoli “timidi, rigidi, conservatori, e timorosi di agire per il bene dell’intera comunità omosessuale”.
Laurence sosteneva che per tutti era arrivato il momento di fare coming out con i propri amici, la famiglia e i colleghi di lavoro, e di essere orgogliosi della propria sessualità. Avrebbero dovuto unire le forze con i sostenitori delle altre cause sociali, come le Pantere Nere e i sindacati, e combattere per i diritti di tutti.
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Per illustrare la sua idea di libertà LGBTQ+, in una successiva intervista su Berkeley Barb Laurence fornì alla stampa alternativa la foto di due uomini sorridenti: lo stesso Laurence che abbracciava da dietro il suo amico Gale Whittington. Subito la Society chiese a Laurence di dimettersi, e Whittington venne licenziato dalla States Steamship Company.
Il Committe for Homosexual Feeedom, cofondato da Laurence, Whittington e pochi altri, fu una reazione diretta a questo doppio rifiuto sia della società “etero” che dell’esistente establishment gay. E con questo sforzo, si sarebbero dedicati alla costruzione della coalizione.
Gli eventi della Purple Hand vennero organizzati da almeno tre gruppi affini, inclusi il Gay Guerrilla Theater (Teatro della guerriglia gay) e il Gay Liberation Front (Fronte di liberazione gay). Ma nonostante la frattura tra Laurence e la Society for Individual Rights, che affrettò la creazione del Committee, anche la vecchia guardia, sorprendentemente, sostenne i dimostranti più giovani.
In un pezzo del 7 novembre sul Berkeley Tribe, riflettendo sulla protesta e le sue conseguenze, Laurence scrive “Prima di sentire della mobilitazione ‘di fuori’, in prigione, ero solo e mi sentivo impaurito”. Il (giornale) Red Mountain Tribe raccolse i soldi della cauzione, il presidente della Society riuscì a salvare un filmato fatto da Laurence prima che quest’ultimo fosse gettato nel cellulare (della polizia), Del Martin (cofondatrice in 1955 del gruppo lesbico Daughters of Bilitis) aiutò il Committee a trovare avvocati, scrivendo, nei mesi seguenti, parecchi articoli pro-gay sul Vector.
“Quando Gale Whittington e io, la primavera precedente, fondammo il Committe for Homosexual Freedom sognavamo un movimento su scala nazionale. Ed ora non era più un sogno”, scrisse Laurence sul Tribe.
Dopo la Purple Hand
Negli anni successivi, continuarono le proteste contro la rappresentazione della comunità LGBTQ+ nei principali media. Gli avvenimenti della Purple Hand, afferma Stein, sono solo uno degli esempi di protesta nazionale contro giornali e riviste nel ’69 e nel ’70, insieme alla seconda ondata di proteste contro televisione e spettacoli TV nel ’73.
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Tommi Avicolli Mecca, che si unì al Gay Liberation Front di Philadelphia quando era uno studente diciannovenne alla Temple University, ricorda bene quel periodo: “Specialmente negli anni ’70, praticamente tutte le volte che [i giornalisti] parlavano della comunità (LGBT) lo facevano in modo molto negativo”. Il Gay Liberation Front avrebbe voluto protestare o entrare davvero negli uffici dei giornali, confrontandosi con gli editori e gli scrittori delle diverse storie.
Attraverso una combinazione di azione diretta, conversazioni faccia a faccia e grandi cambiamenti nella società, dice Mecca, le cose cambiarono gradualmente, realizzando, in qualche modo, la chiamata alle armi auspicata da Laurence all’inizio del 1969: “Credo che una delle cose più grandi che abbiamo fatto come comunità sia stato uscire allo scoperto. Essendo visibili, abbiamo spazzato via tutti gli stereotipi. Abbiamo costretto le persone a impegnarsi con noi, abbiamo costretto le nostre famiglie a interagire con noi, abbiamo costretto le persone a vedere che eravamo proprio come loro”.
* Sarah Hotchkiss vive a San Francisco, è un’artista e scrive di arte. È coproprietaria dello spazio espositivo Premiere Jr. a San Francisco. Nel 2019 è stata premiata per il suo giornalismo d’arte. È un’appassionata di fantascienza, di cui scrive in un periodico semiregolare chiamato Sci-Fi Sundays. Email: shotchkiss@kqed.org Twitter: @sahotchkiss
Testo originale: Armed with Ink, 1960s Activists ‘Struck Back’ Against Homophobic Media