Come posso io, gay, credere in un Dio che mi disprezza?
Riflessione di Paolo Spina del Progetto Giovani Cristiani LGBT
Come posso io, gay, credere in un Dio che mi disprezza? È la domanda di un amico, è la provocazione di molti a farsi strada in me, anche e soprattutto mentre leggo un brano che mai avevo incorniciato in questo sfondo: quanto accade, cioè, a Pentecoste (Atti 2,1-11).
C’è un gruppo di uomini (e, perché no, di donne) impauriti e chiusi in una stanza e nelle loro certezze. E poi c’è lo Spirito Santo: che non è una colomba, non è una fiammella sulla testa. È un dono. Quale? Lo dicono proprio quelle righe: “…e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi”.
No, lo Spirito Santo non è nemmeno un traduttore simultaneo, né un corso avanzato di lingue, e nemmeno può mettere in comunicazione un greco e un ebreo che ignorano i rispettivi dialetti. E, allora, che succede? Succede che proviamo a radunare una platea di persone che non si siano mai innamorate per una conferenza dal titolo “L’amore è”. Impossibile che antropologi, psicologi, teologi o artisti possano trovare spiegazioni adeguate.
Così è per alcuni che provino ad accostare fede e omosessualità: gli uni accuseranno gli altri di essere retrogradi o invertiti, bigotti o disordinati. Non così per il Dio di Gesù: un Dio il cui respiro – il respiro che è la vita stessa di Dio, proprio lo Spirito Santo – concede a tutti, nessuno escluso, il potere di esprimersi.
Non vivo nel paese degli unicorni e, per questo, conosco le difficoltà che si possano incontrare quando si vivano con trasparenza i propri affetti e il proprio orientamento nella propria comunità cristiana di appartenenza; non vivo nemmeno nella desolata landa del pessimismo, per cui non mi va di dire che la Chiesa cattolica punti sempre il dito contro di noi (anche se la strada da percorrere per una completa accettazione sia ancora molto lunga).
So di essere gay e, con altrettanta certezza, so che Dio non mi disprezza. Non potrebbe odiarmi chi mi ha creato, chiamato, desiderato e guardato così come sono, chi mi ha amato fino a darmi il dono più grande: il potere di esprimersi, che è vivere di libertà, che è vivere di verità.
Facile? No – perché, allora, sarebbe un superpotere, e non un potere! – soprattutto quando le reazioni di molti saranno le più diverse possibili, proprio come la gente di Gerusalemme nel giorno di Pentecoste: alcuni saranno entusiasti, altri rancorosi, altri ammirati e altri increduli. Alcuni ameranno e saranno amati, altri preferiranno tornare ai loro pregiudizi. Accogliere Dio, nella fede, è come accogliere il proprio orientamento affettivo: lo si può fare solo con stupore, cercando ogni giorno di andare alla sua scuola e imparare il linguaggio con cui si può raccontare la propria vita al meglio, certi che un Dio che accorda il potere di esprimersi non disprezzerà mai ciò che esce dal proprio cuore.