Abbandono o fede razionale? Riflessioni di un pastore unitariano
Riflessioni del reverendo Lawrence Sudbury* pubblicate sul sito della Comunione Unitariana Italiana il 10 ottobre 2018
Cari Fratelli,
vi avverto preventivamente: per qualche misteriosa ragione sulla quale preferisco non indagare troppo, ultimamente passo molto del mio pochissimo tempo libero interrogandomi sul senso dei vari ruoli che, in ambiti diversi, rivesto e, quasi sempre, arrivando a conclusioni differenti rispetto a quelle considerate socialmente consolidate.
Come insegnante, ad esempio, davanti alla sconcertante ammissione di troppi studenti, prossimi al diritto di voto, di sentirsi così liberi e comodi in questa società da non avere nessuna necessità di ribellarsi verso alcun aspetto dello status quo, e davanti alla evidente mancanza di volontà di risvegliare ed esercitare la propria ragion critica sopita, che una tale affermazione implica, alla luce del disastro politico, sociale e morale che un tale atteggiamento sottende, sempre più mi vien fatto di pensare che il mio vero ruolo come insegnante non dovrebbe essere tanto quello di fornire risposte culturalmente efficaci, ma, preventivamente, quello, a tratti ben più impegnativo, di instillare domande disturbanti su parole arcane, desuete e ormai considerate utopistiche, come giustizia, dignità umana, fratellanza universale, democrazia liberale e rivoluzione etica nelle menti e nei cuori dei giovani che ogni mattina mi ritrovo davanti, accasciati sui banchi dopo notti insonni spese ad arricchire il rumoroso e inconcludente chiacchiericcio paramediatico di fondo, che, con involontaria impudenza, qualcuno ha ancora il coraggio di definire “comunicazione” sui social network, e il cui unico scopo mi pare sempre più essere l’onanismo autoreferenziale e l’assopimento di ogni velleità espressiva nell’indigestione di una abbuffata di finta possibilità declamatoria del niente.
Come istruttore in palestra, poi, piuttosto che essere un riferimento per il mantenimento di un certo grado di tonicità fisica o un dimostratore della corretta esecuzione di esercizi atti a tale mantenimento, o, al limite, un motivatore a compiere sforzi volti a quel fine, insistendo sul legame tra mantenersi in forma e mantenersi sani, mi pare che, persino a discapito del lucro della proprietà dei centri sportivi, il mio ruolo dovrebbe diventare quello, a tratti opposto, di consolatore e consigliere dell’ozio senechiano, cercando di dimostrare ai miei corsisti e alle mie corsiste che, per quanto possa essere gratificante esibire seni tonici, addominali scolpiti e culi marmorei, la loro autostima, che cercano faticosamente di ricostruire sfiancandosi al suono dei miei comandi paramilitari, dovrebbe fondarsi su altri elementi, e dicendo loro che si può essere persone bellissime anche con un dito di pancetta in più o con un po’ di naturale caduta epiteliale su braccia e cosce o di dimostrazione della forza di gravità sulle parti prominenti del corpo.
Ma… lo ammetto, purtroppo anche i sognatori con tendenze alle elucubrazioni socio-teologiche hanno l’increscioso vizio di mangiare un paio di volte al giorno, possibilmente con un tetto sopra la testa e, conseguentemente, hanno l’ancora più incresciosa necessità di guadagnarsi il salario necessario al proprio mantenimento, cosa che, oggettivamente, diventerebbe poco probabile se esortassi i miei studenti adolescenti a fottersene allegramente dell’anno della battaglia di Waterloo o del nome dei Quadrumviri della Marcia su Roma per, piuttosto, andare a fare un bel sit-in di protesta davanti a Palazzo Chigi o all’ambasciata americana, meditando su come urlare in faccia ai potenti di turno che stanno scippando loro il futuro; se suggerissi ai miei corsisti che, invece che massacrarsi ad allenarsi come legionari prima della battaglia di Dien Bien Phu, si sentirebbero molto meglio stando sdraiati sul loro divano a leggersi un bel libro sull’autostima o i discorsi di Martin Luther King, o, giusto per toccare un altro ambito della mia sfaccettata epopea lavorativa quotidiana, se incoraggiassi molti dei miei studenti serali a studiare la differenza tra condizionale e congiuntivo nella loro lingua madre prima di addentrarsi nella grammatica dell’astruso idioma di Albione. E, dunque, lo ammetto… con un po’ di codardia, per quanto giustificata dalla necessità, mi taccio, continuo a spiegare la pazzia di re Giorgio pensando alla pazzia di chi ha scelto un suo emulo come uomo più potente al mondo, continuo a sbraitare comandi per far indurire bicipiti e deltoidi sognando di ammorbidire animi e cuori e ripeto, per la settantesima volta, la differenza tra simple present e present continous a gente che mi chiede, e vi assicuro che non sto scherzando, se “Egli andrà” sia futuro o condizionale.
Ma, mi dico, non mi devo vergognare: alla fine, come essere umano, devo fare di necessità virtù, chi più chi meno così devono far tutti ed esiste un confine piuttosto netto tra fantasia utopica e senso della realtà. C’è, però, un ambito in cui i dubbi sul mio ruolo abbondano persino più che negli altri, e in cui, quantomeno per evidenti ragioni salariali, se non per più profonde motivazioni legate a giuramenti fatti, mi sento più libero di esternare le mie personali paranoie. Naturalmente mi riferisco all’ambito pastorale.
Tra le molte, moltissime perplessità, che quotidianamente mi tormentano riguardo al mio ruolo in seno alla Chiesa, una in particolare si affaccia, negli ultimi tempi, con particolare frequenza. Vedete, per quanto all’interno dello U*Uismo il pastorato assuma aspetti che si differenziano notevolmente rispetto a quelli di ruoli analoghi in altre denominazioni, vuoi per il divieto di proselitismo che ci viene inculcato sin dai primi passi del cammino religioso, vuoi per la, in fondo giusta per quanto non particolarmente gratificante, prospettiva del pastorato universale di ogni membro della comunità, direi che, in quanto più o meno emuli dei famosi “pescatori di uomini”, una richiesta ai consacrati risulta, nelle nostre comunità, uguale a quella di ogni altra comunità religiosa del mondo: un predicatore che si rispetti dovrebbe cercare di avvicinare chi lo ascolta alle basi della fede e non, al contrario, allontanarlo, cercando di fargli assumere una prospettiva critica. Ecco, è proprio su questo che mi interrogo, perché non sono così sicuro che le cose debbano andare proprio così. Forse, mi dico, sarebbe più onesto mostrare oggettivamente i pro e i contro del cammino che qualcuno sta intraprendendo, non fosse altro che per onestà intellettuale, se non per una ben più importante onestà spirituale.
In questo quadro, probabilmente, nei cinque minuti in cui, ipoteticamente, mi lascerebbero rivestire quei ruoli, se fossi un prete cattolico credo che chiederei ai miei fedeli di rileggersi storia e contesto della nascita dei vari dogmi, se fossi un pope chiederei loro di farsi un paio di domande sulla sensatezza del pensare che una iconostasi possa essere un elemento di presenza salvifica e tangibile del Divino, se fossi un rabbino porrei domande sulla logica da parte di un Dio Padre universale di eleggere un popolo, se fossi un imam imporrei di meditare sulla gesta belliche di Maometto in relazione all’idea di religione della pace, se fossi un monaco buddhista metterei in dubbio che una religione basata sulla fuga dalla sofferenza possa essere poi così gioiosa…. e così via.
Ma sono un reverendo unitariano universalista e, dunque, vi chiederete, quale è il mio problema?
Il mio problema si chiama “Islam”! Non vi preoccupate: non sono improvvisamente impazzito, diventando un seguace dei troppi, assolutamente troppi leader razzisti, xenofobi, populisti e parafascisti che ammorbano il nostro continente e il mondo intero, né, al contrario, questo mio problema è legato alle mie mai nascoste propensioni verso alcuni rami della religione islamica, in termini di un richiamo irresistibile che mi potrebbe portare a lasciare lo U*Uismo… No, assolutamente nulla di tutto questo!
Per capire quello che intendo, dobbiamo fare, innanzitutto, un po’ di chiarezza sul senso della parola “Islam”, non nella mia concezione ma nella interpretazione della Università coranica per eccellenza, quella di Al-Azhar, così lontana dalle ignoranti follie fanatiche e jihadiste di pseudo-califfi e mujaheddin wahhabiti e salafiti vari.
Lo sappiamo tutti: “islam”, per quanto vi sia chi lega il termine alla stessa radice di “pace”, significa “sottomissione”. “Ecco”, direbbe uno di quelli che vedono terroristi e stupratori seriali in ogni frequentatore di moschee, “un religione di servi sottomessi e sanguinari disposti a fare qualsiasi cosa per esaudire i comandi di una divinità persino più sanguinaria di loro!”. No, direi di no: anche lasciando da parte che non sarebbero più o meno servi sanguinari dei vari crociati e neo-crociati di ogni epoca, e che parliamo di una divinità, quella dei Popoli del Libro, che è la stessa di un miliardo di cristiani e di tutti gli ebrei del mondo, intendere il termine “islam” in questo modo significa leggerlo esattamente come Osama bin Laden e Al-Baghdadi! Molto più logicamente, e forse più semplicemente, quella “sottomissione” significa rendersi conto del fatto, direi ineccepibile da parte di qualsiasi religione del mondo, che esiste un divario incolmabile tra umano e Divino, sotto qualsiasi punto di vista, farsi una ragione della incommensurabilità tra due entità, accettare che, comunque si intenda Dio (e sta parlando uno che, più di una volta, ha affermato di avere seri dubbi su attributi tradizionalmente divini quali onniscienza e onnipotenza!), o chi per Esso, l’Essere umano non sarà mai in grado di comprendere la vastità del potere trascendente, di raggiungere la piena chiarezza sul quadro complessivo del Divino, ma semmai solo di avere una fugace intuizione mistica, di percepire “l’ombra della Luce” attraverso la grazia del dono divino di adagiarsi nel nostro animo e di cercare di seguire, per quanto possibile e per quanto le circostanze lo permettano, l’ispirazione che da tale intuizione può sorgere, senza per questo sviluppare ansie da martirio, fanatismi estemporanei o visioni fuori dal mondo da comunità hippy stile anni ’70 .
Ebbene, è esattamente questa concezione di “islam”, che non posso che condividere, a fare problema nella mia visione della predicazione U*U. Perché? Perché lo U*Uismo significa, persino nella statuizione di uno dei Sette Principî, ricerca costante, infinita, basata sullo studio, sulla logica, addirittura direi, per alcuni, sulla speranza di essere illuminati sul senso delle cose. Perché così deve essere nella sottolineatura orgogliosa della centralità e della dignità umana e del nostro “essere diversi”… Ma… ma anche la ricerca, anche l’orgoglio devono avere un limite, una confine, un “non plus ultra” ,e troppo spesso ho l’impressione che gran parte dello U*Uismo internazionale se lo dimentichi. L’uomo è al centro della creazione, ma… ma il Divino è la creazione stessa e tutta la creazione non potrà mai stare nella testa di un solo uomo, né alcun uomo potrà vivere completamente secondo il progetto divino, almeno fino a che risiede in questo mondo!
Ecco, questo vorrei dirvi, questo vorrei dire a voi che seguite, ciascuno per il suo viottolo, il mio stesso cammino: ogni religione è creazione d’uomo, e in quanto tale è imperfetta, e se penso alla nostra religione, credo che troppo spesso la sua imperfezione risieda nella mancanza di umiltà intellettuale e spirituale, nella fredda esaltazione della ragione e dell’etica perfetta, che ci fa sentire sempre liberi da “stupidi vincoli” e pronti a ridisegnarci ogni regola, a scapito dell’unico vero legame che possiamo avere con il Sacro, e che è dato dalla meditazione mistica, dall’abbandono al caldo abbraccio dell’Inviolato, dal comprendere che non tutto può essere compreso, che fede è anche fiducia, persino un po’ cieca, persino un po’ illogica (solo un po’!), che non risolveremo ogni problema del mondo predicando ciò che è logicamente e filosoficamente giusto e ovvio, ma che, al massimo, questo ci aiuterà a piantare un pezzettino di prato nel deserto, per poterci provare a stare il più possibile noi e chi amiamo, che esiste, forse, una verità oltre il velo dell’apparente, ma non dobbiamo illuderci di strappare noi U*U quel velo che ci avviluppa tutti, perché anche questa certezza non sarebbe che un altro strato di velo che ci renderebbe solo dei sognatori fuori dal mondo, come già appariamo a molti. E questo non significa darla vinta a degli ipotetici “loro”, a degli ipotetici “poteri forti”, o piegarci alla disperazione: significa un minimo di realismo, che nasce dall’umiltà di riconoscere la nostra condizione di limitatezza e agire con obiettivi che, conseguentemente, sono limitati, lontani dai massimi sistemi troppo utopici, ma forse, proprio nella “sottomissione” ai nostri limiti umani, ai limiti della nostra ricerca, più vicini alla meta di quanto possiamo credere.
Adonai echad [Dio è Uno]
Amen
* Lawrence Sudbury è ministro anglo-italiano, storico e saggista, autore di 18 libri e oltre 200 saggi brevi. Sito: http://lawrencesudbury.altervista.org