Abbiate fiducia nella vita, abbiate fiducia in Dio. La mia identità musulmana e queer
Testimonianza di Fariha Róisín pubblicata sul sito del mensile Teen Vogue (Stati Uniti) il 1 marzo 2016, liberamente tradotta da Giacomo Tessaro
Quando ero molto piccola non capivo perché mi sentissi attratta da tutti i sessi, non solo dal sesso opposto. Frequentavo una scuola di sole femmine e vedevo i corpi attorno a me che fiorivano, così intriganti. Il sesso era una cosa vuota e senza forma che nessuno aveva intenzione di togliere dall’involucro. Era come un elefante nella stanza o un osso incastrato in gola. Volevo sapere come fosse questo sesso. Volevo sapere come fosse farlo con chiunque. Provenendo da una famiglia musulmana, non ho mai sentito particolari pressioni per essere qualcosa, ma sentivo, questa sì, la pressione per essere asessuata. Sentivo il desiderio come una vampa che mi saliva in corpo. Non sapevo perché mi sentissi attratta da tutti e tutte, perché tutto mi attraesse.
Poi le cose cambiarono.
Quando avevo 14 o 15 anni lessi un articolo nella sezione libraria del Sydney Morning Herald, un quotidiano australiano che mio padre non leggeva mai ma che per caso cominciammo a ricevere ogni giorno. L’articolo parlava dell’identità queer nell’Islam: forse finalmente avrei saputo quello che volevo sapere. L’articolo parlava, in particolare, dell’identità queer dei monarchi musulmani, come Abu Nuwas, che regnava su quello che oggi è l’Iran, Al-Amin, il sesto califfo abbaside, Mahmud di Ghazna, che regno sull’impero ghaznavide, persino il famoso Mehmet il Conquistatore (celebre sultano ottomano vissuto nel XV secolo). È noto che tutti questi uomini ebbero dei favoriti, vale a dire che intrattenevano relazioni omosessuali. Accanto all’articolo c’era un disegno raffigurante due uomini, nel quale riconobbi lo stile tradizionale Moghul. I due si stavano abbracciando in un connubio candido e famigliare, come due usignoli, curvi l’uno sull’altro con delle labbra meditabonde, occhi melliflui e sopracciglia cespugliose. Mi assomigliavano. Ero rimasta inchiodata, sedotta e commossa da quell’immagine. Quando sei giovane aneli a qualsiasi cosa possa spiegarti chi sei e lo cerchi a destra e a sinistra come fosse un’oscura minaccia.
Le opere poetiche e artistiche sull’amore tra due uomini erano considerate naturali e normali nel mondo islamico. Anche le poesie di colui che è forse il più noto poeta musulmano, Rumi, parlano dell’amore per il suo migliore amico Shams di Tabriz. L’amore tra i due fa parte dell’agiografia e fu profetico. Ecco cosa dice l’Enciclopedia dell’Islam e del mondo islamico: “Per quanto esistessero limiti legali all’attività sessuale, nella letteratura l’espressione positiva del sentimento omoerotico maschile fu accettato e assiduamente coltivato dalla fine dell’ottavo secolo fino ai tempi moderni. La poesia amorosa (prima quella in lingua araba, poi anche in lingua persiana, turca e urdu) scritta da uomini per giovani ragazzi non aveva nulla da invidiare a quella dedicata alle donne, anzi la sorpassava. La letteratura aneddotica rafforza l’impressione della generale accettazione, da parte della società, della pubblica celebrazione dell’amore tra due uomini (esagerata dalle caricature ostili della cultura occidentale nel Medioevo fino all’inizio dell’era moderna)”. Quando lessi questo, per alcuni meravigliosi secondi capii di non essere un’anomalia. Verso tutto ciò che non viene capito vengono normalmente proiettati sentimenti malvagi e anche se non mi sono mai sentita intensamente perseguitata per la mia sessualità, essa mi ha sempre fatto soffrire. Ogni volta che una donna mi fissava sentivo un fremito profondissimo e oscuro e, pur essendo ossessionata dai ragazzi, i miei pensieri sulle donne erano di gran lunga più intensi, come toccare una ferita: dolorosi e al tempo stesso piacevoli.
Non credo che capissi di essere lesbica, bisessuale o queer, nessuna di queste cose. Mi ero sempre sentita me stessa, un’adolescente. Frequentavo una scuola femminile, indossavo un’uniforme rosa e avevo cotte per chiunque. Una ragazza di nome Cynthia, che aveva un paio di anni più di me, sembrava Chris Martin quando mi piaceva Chris Martin. Avevo 13 anni e i Coldplay non facevano ancora quelle terribili canzoni rock/pop.
In seguito mi sono piaciute le mie insegnanti di storia: la signorina O, la mia ex insegnante, non sposata, la mia insegnante di storia moderna, la signora C, sposata, che a un certo punto è rimasta incinta, poi una ragazza di nome Lauren, più anziana di me di cinque anni buoni. Poi mi innamorai profondamente della mia migliore amica, il cui nome significa “colore” in giapponese: era perfetta. Ecco tutto.
Poi, contemporaneamente, mentre esploravo la mia sessualità e facevo la volontaria per Oxfam e Amnesty (dato che volevo salvare il mondo), ero anche una normale ragazza musulmana. Digiunavo, imparavo le surat, leggevo il Corano, imparavo l’arabo, avevo una prepotente fede in Dio (aggiornamento: ce l’ho ancora). Il forte interesse nel funzionamento della mia sessualità non mi sembrava l’antitesi della mia religione, percepivo invece il mio amore per Dio, per l’Islam, per il Profeta come un appoggio al mio amore per l’esplorazione di me stessa e del mondo attorno a me. Non credevo che le due cose si escludessero a vicenda: sapevo soltanto che la gente non capiva.
Non parlavo della mia sessualità con nessuno. Sapevo che mi piacevano gli uomini, ma mi piacevano anche le donne. Com’era possibile? A 14 anni dissi a un’amica dalla pelle bianca “Penso di essere bisessuale” ma la mia franchezza su un argomento così controverso venne scambiata per insensibilità. Non avevo in realtà niente da dire a proposito, ma certamente sentivo l’esigenza di saperne di più su quella parte di me: in quanto musulmana di pelle scura ero già diversa di mio e non volevo essere diversa anche per la mia sessualità. Stavo comunque abbottonata. Capivo che era un tabù, ma pensavo che, forse, come tutte le cose della mia vita, un giorno la società – la gente – sarebbe giunta a pensarla come me. Ero una ragazzina stranamente molto speranzosa. In qualche modo sapevo che a un certo punto sarei arrivata a dare voce a quelle sensazioni.
La mia amica non mi chiese più nulla sulla bisessualità.
In un’epoca in cui i musulmani sono controllati a vista, l’opinione pubblica perde il suo aggancio razionale con l’Islam e confonde i musulmani (giovani e anziani), che arrivano a pensare che ci sia qualcosa di vero in certe dichiarazioni; essi giungono poi a mettere in discussione l’Islam nel tentativo di allinearlo alla “modernità” (è il caso di molti giovani musulmani) oppure ad accogliere certe interpretazioni, credendo per esempio che se Dio dice che le donne sono inferiori, allora dev’essere così (come molti musulmani più anziani). Nessuna delle due parti decide di ricercare autonomamente, decidono invece di non pensare e di credere a quello che dicono gli altri. Evviva l’ignoranza! Se non possiamo esprimere apertamente la nostra fede, se ci viene detto che siamo nel torto, come possiamo apprezzare sinceramente noi stessi e accettarci integralmente così come siamo? Per troppo tempo ho diluito la mia esistenza a causa della vergogna. Era assolutamente terrificante essere tutto quello che ero, così scelsi alcune parti di me stessa da esprimere liberamente e il resto lo nascosi.
Quello che è accaduto ai musulmani dopo l’undici settembre ha fatto più danno alla psiche musulmana di qualsiasi altra cosa. I sentimenti di rabbia che avevo per me stessa sono legati a doppio filo alla sensazione di essere indesiderata. Tutte le persone di colore hanno provato questo, tanto o poco che sia: la sensazione di essere considerate completamente sbagliate, il terrore che in qualsiasi momento qualcuno possa rivelarti quanto sei brutta o senza valore. In circostanze simili ci fingiamo bianche nella speranza di essere accettate. In maniera subliminale (e talvolta priva di pudore) ci viene insegnato che bianco è buono, bianco è bello, bianco è meglio, così ci adattiamo per placare l’oppressore. Crediamo nel linguaggio dell’oppressore (usato contro di noi) con tutto il cuore e sì, vogliamo cambiare, vogliamo essere come loro.
Fino a che non ci crediamo più. Fino a che capiamo che nella nostra esistenza, nell’essere così come siamo, c’è una grande bellezza.
Certo, è una mia scelta vivere l’Islam in modo da sottolineare quello che credo sia il suo punto centrale: l’umanità, la nostra umanità. Credo che Dio sia l’unico giudice e che la nostra responsabilità di esseri umani non consiste nello spargere odio ma nell’amarci a vicenda, olisticamente e profondamente. Sono musulmana perché credo in Dio e perciò credo nella sua misericordia e nella sua compassione. Non credo che la religione sia puritana o dogmatica: secondo me non è mai stata concepita per essere tale. Anche quando ero bambina e davanti a me venivano letti sermoni mortiferi che parlavano di paura e fiamme dell’inferno, non ci ho mai creduto. Dio per me ha sempre significato il meglio dell’umanità, il meglio della nostra meschina e sciocca bontà umana. Dio è migliore di tutti noi.
Poco tempo fa una mia buona amica musulmana mi scrisse: “Faccio molta fatica a credere in una divinità che ci ha creati difettosi e dominati dagli istinti, e che poi ci punisce perché agiamo da creature difettose e dominate dagli istinti. Mi sembra estremamente crudele. Deve esserci più amore. Mi colpisce e mi sembra importante, allora, che nel Corano Dio è definito molto spesso il Misericordioso. Penso alla capacità di provare misericordia che abbiamo noi esseri umani, il numero di persone che giornalmente perdoniamo: i nostri genitori, perché non sono come noi li vorremmo, i nostri fratelli e sorelle, i nostri amici pazzoidi, i nostri amanti smemorati, i nostri terribili vicini, le nostre anime corrotte. Se questa è la nostra umile misericordia umana, allora una misericordia degna di Dio deve essere molto, molto più grande”.
La cosa più intelligente che ha detto Nietzsche è “Non esistono fatti, solo interpretazioni”.
Questa è la mia interpretazione dell’Islam. Credo che sia forte abbastanza per resistere all’odio ed evitare così di annegarci dentro e soccombere. Credo che sia forte abbastanza per amare o comprendere quello che non conosciamo ed evitare di disprezzarlo. Ho sempre pensato alla fede come una pratica volta a dimenticare noi stessi. Amare gli altri senza sperare di essere ricompensati: questo è il nirvana. Per molti anni ho creduto nel mio disgusto. Provavo vergogna per me stessa, per la mia sessualità, credendo che fosse giusto vergognarmi. Essere me stessa, pienamente me stessa, era demoniaco, e mi odiavo per questo. Ero perduta, ero terrorizzata, ero infelice nel perpetuo ciclo dell’autolesionismo.
Guardando indietro, vorrei che qualcuno mi avesse detto: Dio ti ha fatta così, amati. Se insegniamo alle persone ad amare ciò che sono, come cosa naturale, allora ameranno anche gli altri. Quando impari a guarire ciò che dentro di te è spezzato, quando arrivi a fare pace con te stessa, con il tuo posto nel mondo, puoi vivere un’esistenza più profonda. Odiare ti esaurisce. Tenete a mente la vostra mortalità e l’importanza di perdonare voi stessi: il resto verrà da sé.
Essere queer, accettare questa etichetta, vuol dire sopravvivere, vuol dire la forza che riceviamo quando le parole ci vengono assegnate per nostra propria scelta. Quando il termine corretto arriva fino a te è una liberazione, è un grande singhiozzo di sollievo. Se gli altri non vi capiscono, probabilmente è perché non ne hanno bisogno. Non hanno mai dovuto esplorare se stessi come avete dovuto fare voi (o forse sì, ma hanno rifiutato ciò che hanno trovato), cose belle e luminose. Come dice Barthes: “Dobbiamo continuamente pluralizzare e rifinire”. Non abbiate paura di ciò che sta dentro di voi. Abbiate fiducia nel processo della vita. Abbiate fiducia in Dio.
Testo originale: How I Learned to Accept My Queerness as a Muslim Woman