Bibbia e omosessualità. Riprendiamoci la Parola per assaporare l’amore liberante di Dio
Dialogo di Katya Parente con Laura Scarmoncin
Per molto tempo la Scrittura è stata un’arma, con cui la Chiesa ha soggiogato credenti e non, con un’interpretazione letterale e molto spesso avulsa dai contesti socioculturali in cui è stata scritta e con traduzioni molto spesso abborracciate.E anche se molto è cambiato – per fortuna – secoli e secoli di incrostazioni lavorano ancora nell’immaginario collettivo con la forza di un pensiero semplicistico ma allettante che sembra inamovibile.
Per combattere questo “pensiero unico” ben vengano iniziative come “Riprendiamoci la Parola. Bibbia e omosessualità: per una riflessione che liberi“, sei incontri online da febbraio a maggio 2022 volute da La Tenda di Gionata, il Progetto Ruah e il Coordinamento Teologhe Italiane. A parlarcene una delle organizzatrici: Laura Scarmoncin. Storica di formazione ed esperta di studi sul genere e la sessualità.
Cos’è, in breve, la teologia queer e cosa ti ha fatto avvicinare ad essa?
Bisogna anzitutto parlare di “teologie queer”, al plurale. Ci sono teologie queer che lavorano in ambito sistematico, altre apologetico, altre ancora morale, eccetera, e poi ci sono le teologie queer cosiddette “radicali” o “indecenti” – dal titolo di un libro di Marcella Althaus-Reid, considerata la fondatrice di questo filone. Ciò che hanno in comune è il fatto di essere nate mettendo al centro del discorso teologico la sessualità e i soggetti emarginati per via della loro sessualità e del loro genere, smascherando la teologia tradizionale istituita come un discorso eterosessuale ed eteronormativo, ovvero che non solo presume ma soprattutto consolida e contribuisce a imporre l’eterosessualità quale unica sessualità legittima e naturale.
Le teologie queer minano e destabilizzano – due possibili traduzioni del verbo “to queer” – questo discorso, dimostrando come possa essere escludente e soprattutto venir usato per escludere, diventando un vero e proprio sistema di potere oppressivo. In questo senso le teologie queer sono un progetto di giustizia sia spirituale che sociale e politica. E da molto tempo ormai hanno trasceso la sessualità e il genere per aprirsi all’analisi di altre linee di oppressione, seguendo la prassi femminista dell’intersezionalità: razza, etnia, nazionalità, classe, dis/abilità e così via.
In sintesi direi che le teologie queer sono un altro grande campo aperto di pensiero in cui il “parlare di Dio” si intesse con la ricerca della giustizia per tutti quei soggetti che sono stati e sono tutt’oggi esclusi – se non addirittura perseguitati – dalle teologie mainstream e istituite, in primis, per la loro sessualità e il loro genere. È questo che mi attrae più di ogni altra cosa delle teologie queer, il loro mettere al centro della spiritualità e del discorso teologico la sessualità e il genere facendone una questione di giustizia, che per me è il primo sinonimo mondano di ciò che chi crede chiama il “regno di Dio”.
Da dove nasce l’idea di questa serie di incontri?
Da una notte insonne. Un giorno, mentre in Parlamento si dibatteva malamente sul ddl Zan, ho visto un post sulla pagina Facebook di Pro Vita & Famiglia che recitava: «Allora citare san Paolo sarebbe omofobo?». Mi ha colpito la semplicità di quella domanda, che faceva piazza pulita di qualsiasi questione esegetica ed ermeneutica, e mi sono resa conto che, se mi fosse stata posta a bruciapelo, in realtà non avrei saputo cosa rispondere.
Così, ruminando al buio, è nata l’idea di un progetto che recuperasse uno sguardo complesso sulle Scritture e soprattutto sui passi biblici ritenuti (e usati) contro l’omosessualità, i cosiddetti “testi del massacro”. Poi discutendo con Progetto Ruah, La Tenda di Gionata e il Coordinamento Teologhe Italiane mentre elaboravamo il progetto, abbiamo capito che limitarsi a decostruire i “testi del massacro” non era sufficiente.
Serviva anche dimostrare come la grande narrazione biblica sull’umano contiene episodi e personaggi sovversivi, non conformi, “eccentrici”, che sono esempi di libertà e giustizia in cui le persone emarginate e oppresse possono riconoscersi, comprese quelle LGBTQ+.
Da qui il titolo “Riprendiamoci la Parola”, ovvero sottraiamola alle letture fondamentaliste e letteraliste come quella di Pro Vita & Famiglia che rendono la Bibbia un’arma per escludere e perseguitare, e interroghiamola invece a partire da uno sguardo queer, ovvero uno sguardo che anela prima di tutto alla giustizia. Perché le Scritture non possono essere usate come armi. Sono spazi di libertà, che parlano dell’amore liberante di Dio per il suo popolo, un popolo di cui fanno parte anche le persone LGBTQ+.
I titoli degli incontri sono spiazzanti e ironici. Richiamano la maieutica socratica…
Sì, non vogliamo dare risposte irreprensibili o “insegnare” il modo “giusto” di leggere la Bibbia. Ciò sarebbe normativo e così, tra l’altro, faremmo lo stesso gioco delle letture fondamentaliste e letteraliste che contestiamo, che pretendono di indottrinare a quella che a loro dire è l’unica “Verità” della tradizione biblica. Quel che vogliamo fare, invece, è aiutare le persone a interrogare da sé le Scritture a partire da uno sguardo complesso, consapevole, sensibile all’alterità e alla meraviglia del testo biblico, uno sguardo che non escluda nessuna persona. Penso che chi parteciperà agli incontri ne uscirà non con delle risposte, ma con una “cassetta degli attrezzi” utile a porre nuovi quesiti, più attenti, creativi e inclusivi, rispetto ai testi sacri e alla loro tradizione.
L’ironia dei titoli è venuta da sé mentre lavoravamo insieme al progetto anche con i relatori e le relatrici, ma da storica delle omosessualità confermo che il ricorso all’ironia, al sarcasmo, alla parodia è un tratto tipico delle subculture LGBTQ+, che in questo modo capovolgono il trauma subìto dell’oppressione e dell’emarginazione per “guarire ridendo”. Come canta Ani di Franco: «Siamo fatti/e per trasformare ogni ferita in una barzelletta». Il potere dell’ironia può essere terapeutico e quindi, per chi patisce il dolore di un’ingiustizia, politico.
Le teologie particolari (femminista, della liberazione, queer) sono modalità di riflessione religiosa di gruppi marginali ed emarginati – da società civile e Chiesa. Se nella società ci dobbiamo vivere per forza e questi elaborati aiutano a farlo, perché cercare di stare per forza in una struttura chiaramente maschilista, che si osserva spesso l’ombelico ed è refrattaria allo sviluppo tecnico-scientifico?
Rispondo con le parole di Mary Dobrovolny, una delle ventitré suore statunitensi autrici del libro “Love Tenderly: Sacred Stories of Lesbian and Queer Religious” (Nella giustizia e nella tenerezza. Storie sacre di religiose lesbiche e queer) che ho tradotto e curato con Cristina Simonelli e che uscirà a breve per Effatà: «Se me ne andassi dalla Chiesa mi arrenderei alla definizione altrui di che cosa significa essere cattolici».
Appartenere a una Chiesa non è – o non dovrebbe essere – un posizionamento identitario, che è per sua natura divisivo ed escludente, ma piuttosto una vocazione a farsi partecipi di una comunità di fede composta da tante soggettività e quindi da tanti vissuti, istanze, desideri e speranze diversi, tutti accomunati, per dirla con san Paolo, dall’essere «uno in Cristo Gesù», dal sapersi creature amate da Dio che di questo amore vogliono essere testimoni nel mondo.
La Chiesa cattolica è un’istituzione radicata nella storia e come tale con la storia evolve e muta, per quanto in modo lento.
Indubbiamente oggi il tema delle omo/transessualità e della sessualità più in generale è una delle “patate bollenti” sul piatto di una comunità in cerca di rinnovamento, come dimostra il processo sinodale in corso. Siamo e restiamo qui per contribuire a questo rinnovamento. Forse non ne vedremo noi i frutti, ma l’impegno ad avverare il regno di Dio su questa terra ci trascende, è una chiamata a cui dobbiamo rispondere a prescindere dalla possibilità di veder venire quel regno di persona o meno.
Vi aspettiamo numerosi, per scoprire un lato (mis)sconosciuto delle Scritture – che sono liberanti e non costrittive. Ringraziamo Laura per averci dato nuovi spunti di riflessione che sicuramente i sei incontri in programma approfondiranno ulteriormente.