Che lingua parliamo? La fatica di scoprire la propria identità
Riflessioni di Roberta Rosin* e Chiara Dalle Luche**, autrici di “Sconvolti. Viaggio nella realtà transgender” (Alpes Italia, 2017, 110 pagine)
Ci sono molti modi di trattare l’identità, la situazione di Marko*** apre la discussione.
Marko ha 27 anni lavora come assicuratore e vive in un paesino vicino a Gorizia. Il papà è bosniaco, la mamma slovena, due mondi un tempo uniti; ora due mondi ancora rovesciati dalla guerra che li ha visti tragicamente protagonisti. Ecco le sue prime parole appena entrato nel mio studio: “sento disagio, ho voglio di scappare, ma mi sento ovunque un pesce fuori dall’acqua, un pesce grande e diverso”.
La sua infanzia travagliata l’ha vissuta tra città, paesini con lingue, culture, rabbie e odori contrastanti, un po’ come “se mi avessero buttato in una giungla”, la guerra infatti era in corso e si parlava di “pulizia etnica”. Il sogno paterno di vederlo calciatore, svanisce quando preadolescente, gli viene diagnosticata una leggera sintomatologia epilettica. Gli allenamenti erano importanti perché da un lato lo tenevano legato per un certo periodo ad un luogo e dall’altro essere tesserato in una squadra amplificava il senso di appartenenza. Il sopraggiungere della malattia accelera il suo peregrinare.
I genitori per questioni politiche vivevano nei loro stati (bosnia e Slovenia) e ciascuno richiedeva la presenza di Marko. Passava mesi con mamma, altri con papà, un po’ coi nonni, insomma ovunque e in nessun luogo. Lui si adattava, ma non abbastanza da sentire la propria “forma identitaria crescere e svilupparsi”.
Si apre una confusione interiore dettata soprattutto dall’apprendimento di lingue differenti. Non si vantava dell’essere poliglotta, anzi soffriva della privazione di una identità specifica che la lingua, come strumento di riconoscimento ufficiale, detta.
I nostri primi incontri, oltre all’essere accompagnati da un senso di agitazione e dolore al torace non facile da lenire, risultavano essere un perenne tentativo di tirare un filo di continuità che sembrava invisibile. C’era troppa velocità, cambi improvvisi di discorso, uno sballottarmi tra epoche, persone, luoghi in cui anch’io non trovavo pace.
Il mio sentimento rifletteva il suo: un giovane uomo privo di pace e di identità. Il suo malessere nel tempo aveva preso una forma di alta visibilità, diventando una dermatite preceduta in adolescenza da una vistosa acne che sembrava gridare “mi vedete, io sto maleeeee!”.
Sapevo e so di volerlo tenere vicino a me, in quanto gli è necessario vivere una relazione forte, salda, sicura e amorevole; una relazione che parla la sola lingua in cui lui si possa riconoscere, quella del rispetto della sua unicità.
Ora non parlerò del nostro percorso psicoterapeutico, magari in un secondo momento scriverò alcuni sogni indicativi del suo subbuglio interiore, ma è inevitabile associare la sua preziosa presenza nella mia vita a quella che mi travolge quando seguo i percorsi di transizione. Si tratta della difficile ricerca della propria identità.
In Marko il non identificarsi poiché in possesso di troppi idiomi per lui aspecifici, nelle persone trans riconoscere la propria lingua e non sentirsi nel diritto di rivelarla.
* Roberta Rosin. Psicoterapeuta Funzionale, socia ONIG (Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere), docente-supervisore Scuola di specializzazione in Psicoterapia Funzionale. roberta@robertarosin.com
** Chiara Dalle Luche. Psicologa, Psicoterapeuta Funzionale, socia ONIG, vicepresidente Associazione Consultorio Transgenere di Torre del Lago (LU) chiara.dalleluche@consultoriotransgenere.it
*** Le autrici ringraziano Marko (nome di fantasia) per averle autorizzate a parlare della sua storia personale.