Dall’istituzione alla vita. Il cammino pastorale di una parrocchia con le persone LGBT
Riflessioni di David Koussens (Universita di Sherbrooke, Canada) pubblicate sul sito del Centre Interdisciplinaire d’Etude des Religions et de la Laïcité (Belgio) il 18 gennaio 2013, liberamente tradotte da Rita
Il dibattito che anima la società francese sulla ridefinizione di matrimonio e sulla sua apertura alle persone dello stesso sesso, suscita numerose prese di posizione pubbliche nella Chiesa cattolica.
Per la maggior parte non sono considerazioni ma caricature («non ci sono riproduzioni di ermafroditi tra gli uomini », dichiara l’Arcivescovo Vingt-Trois) e le minacce paventate di ridefinizione del matrimonio sono in larga parte voli pindarici (monsignor Barbarin evoca addirittura una distruzione della società e ad una apertura alla legalizzazione dell’incesto e della poligamia).
È giusto e logico che su questo dibattito la Chiesa prenda le sue posizioni ma, non si può fare appello ai fondamenti antropologici della società, per nascondere che le considerazioni fatte hanno come unico e ultimo fine la stigmatizzazione degli omosessuali, ai quali loro rifiutano ogni diritto.
Queste prese di posizione provenienti dalla chiesa in veste di emanatrice di dogmi e autoritarismi, sono a tutt’oggi il punto di riferimento di numerosi cattolici.
Attenzione però, numerosi ma… non tutti. Questo perché una cosa è il discorso cattolico, altra cosa la realtà del cattolicesimo, e quest’ultimo non può essere relegato solo ad una vacua parola, per quanto legittima e simbolica sia, da parte della istituzione ecclesiastica.
In effetti, con la secolarizzazione della società, la chiesa-istituzione non ha più il monopolio sulla verità. Essa può solo offrire degli spunti di verità tra i quali una scelta sarà poi fatta individualmente perché, citando le parole di Danièle Hervieu-Léger, non ci sono dei « veri credi » se non quelli dei quali ci siamo personalmente appropriati.
In questa prospettiva, le cifre di un sondaggio della Ifop fatto in Francia tra il 9 e il 13 agosto 2012 secondo il quale il 45% dei cattolici praticanti e il 61% dei non praticanti sarebbero favorevoli alla ridefinizione del matrimonio, non sono affatto sorprendenti. Segno di una grande accettazione e pertanto fermamente condannati dalla chiesa, queste cifre dimostrano un enorme divario tra le istituzioni e la vita reale e vissuta.
E mostrano anche un evidente dilemma davanti al quale oggi, il cattolicesimo si trova: conciliare il ferreo dogma e i nuovi valori sociali che certi cattolici – di un certo cattolicesimo- hanno integrato.
Ci sono realtà parrocchiali dove, pur senza contravvenire la norma cattolica, se ne distanziano quanto meno per proporre una rilettura dei testi che possa avvicinarsi alla realtà contemporanea.
È il caso della pastorale messa in opera dopo venti anni nella parrocchia di Saint-Pierre-Apôtre de Montréal, in Québec (Canada).
Questa parrocchia diretta dagli oblati di Maria immacolata, è situata nel quartiere Centro-Sud de Montréal, noto come « village gay ». Quando, agli inizi degli anni ’90 l’AIDS devastava la nostra comunità gay, gli omosessuali hanno chiesto alla chiesa per i loro congiunti o per i loro familiari o amici.
Gli oblati a poco a poco hanno accettato questo e, poi, l’arrivo del nuovo curato, nel ’95, ha aperto la via all’adozione di una pastorale specifica sull’ «accoglienza incondizionata».
Il 22 luglio del ’96 una «Chapelle de l’Espoir», dedicata alle vittime dell’AIDS, è stata donata alla chiesa, aprendo così definitivamente la parrocchia alla realtà del quartiere.
In questo contesto, è necessario spiegare coerentemente le norme istituzionali della chiesa, i modi, le modalità e la moralità individuale dei parrocchiani, che non vogliono quello che questa chiesa ha da offrire.
Per questa ragione, la pastorale messa in opera non ha avuto altre possibilità se non quella di distanziarsi dalle posizioni teologiche della chiesa sull’omosessualità e dalle posizioni politiche che i vescovi del Quebec hanno formulato durante il dibattito sul matrimonio gay nel 2004 e nel 2005 — al fine di proporre un nuovo punto di vista sull’omosessualità.
A Saint-Pierre-Apôtre, le prese di posizione più esplicite emergono dall’omelia domenicale. Si tratta di un discorso evangelico che si inscrive in una realtà locale (Outgames, Gay Pride, Giornata mondiale della lotta contro l’AIDS) e usa riferimenti culturali gay intelligibili ai parrocchiani. L’omelia diventa, così, un vero esercizio pedagogico tramite il quale il celebrante sostituisce, fino a dissociarsene totalmente, le posizioni ufficiali dei vescovi e della chiesa, il tutto in una visione globale di una comunità di credenti, disciplinata da un testo e dalle istituzioni.
Inserendo le posizioni vaticane ed episcopali nel loro contesto culturale, il celebrante ha poi proceduto a spiegarle per poi ad allontanarsene e quindi fare una riflessione evangelica che avesse un senso sul piano sociale reale.
Il succo dell’omelia è che l’evangelo stesso autorizza un allontanamento con degli enunciati dottrinali che sono però percepiti come stigmatizzanti. In questa ottica un anziano curato della parrocchia indica in un intervista che « bisogna uscire dal contesto dei documenti romani firmati dal Santo Padre.
Noi, in rapporto a questo, abbiamo la possibilità – tra l’altro molto attesa dalla comunità cristiana domenicale- di essere più veloci e nonostante tutto evangelici ».
Ed è infatti rapidamente che i celebranti reagiscono per meglio essere evangelicamente e localmente, di fronte alle posizioni ecclesiastiche.
Così a settembre 2006, solo qualche giorno dopo che il Papa aveva ricevuto a Roma i vescovi canadesi per esporre loro il suo malcontento verso le loro politiche circa il matrimonio gay, un prete diocesano durante la messa si è apertamente riferito al testo evangelico domenicale ove Gesù permette ai sordo-muti di «parlare correttamente».
Egli ha ricordato ai parrocchiani come non ci fosse affatto bisogno di sottolineare che è sempre e solo la Chiesa che può dare ai sui fedeli la «corretta» via da seguire.
I «sordo-muti» non sono solo quelli che si crede e la chiesa stessa può spesso fare prove di sordità per sapere ciò che viene più o meno eseguito.
La critica alla posizione romana è forte quando condanna gli omosessuali. Molti anziani curati della parrocchia non hanno esitato a prendere posizioni pubbliche per denunciare i pregiudizi sull’omosessualità nel corso di omelie o nei media destinati a omosessuali e cattolici.
Nel corso di un’intervista, uno di loro spiega che « finché la chiesa continua su quella linea, che non è certo rinnovata in funzione della concezione attuale della omosessualità (…) si verrà sempre ingiuriati ».
Egli giustifica le sue asserzioni precisando che« è d’incoraggiamento a restare membri. Si deve lottare dall’interno. Bisogna essere reattivi (…) e pronti, oggi, per parlare con una visione contemporanea e aperta dell’omosessualità ».
Questa visione posa su una lettura contestualizzata del vangelo e permette, senza invalidare le norme di riferimento, di liberare i parrocchiani da un’impostazione discriminante. Incitando i fedeli a non condannare, il discorso si sposta sull’individuo e sulla sua fede e così si stimola tutti ad agire collettivamente in nome di esse.
In occasione di una messa speciale di agosto del 2007 per celebrare la Fierté gay (settimana di festività per il Gay Pride), esortando i fedeli a festeggiare la loro identità, il celebrante si è rifatto al vangelo per invitarli a non festeggiare la settimana egoisticamente ma, al contrario, a mobilitarsi ed ad impegnarsi, proprio in quanto omosessuali, nella difesa di coloro i quali ancora vedono i loro diritti violati nelle altre società.
Questa pastorale ha permesso alla parrocchia di divenire un luogo di mediazione tra omosessuali e chiesa cattolica.
Inoltre, giocando sulla indefinitezza della normatività cattolica, essa favorisce il riconoscimento, tramite l’organizzazione di alcuni riti cattolici, delle realtà di coppia o delle famiglie omosessuali in seno alla parrocchia (la benedizione delle coppie omosessuali sposate con rito civile, riconoscimento simbolico dei padrini o madrine in occasione di un battesimo).
Ma non superando mai queste frontiere, si ritrova di conseguenza ella stessa portatrice dei conflitti propri alla chiesa della quale fa parte.
Essere out nella chiesa, potrebbe sembrare un problema temporaneo e contemporaneo ma, secondo un prete diocesano officiante a Saint-Pierre-Apôtre, è anche una problematica che tocca da vicino l’essenza stessa del cattolicesimo:
«Io penso che l’idea della pastorale sia stata di concentrarsi nel vangelo… Nel vangelo, il Cristo accoglie tutti coloro che si presentano a lui, e ovviamente c’è sempre stato bisogno di mediazione tra le autorità ufficiali e i poveri.
Egli ha sempre preso le parti dei poveri pur cercando di evangelizzare i ricchi e i benpensanti. [Egli viveva forse] un conflitto nella sua stessa vita. Forse è anche per questo che fu condannato a morte. Egli fu preso tra la scelta della salvezza del mondo e l’autorità o la religione ufficiale.
Quindi a Saint-Pierre-Apôtre, si può dire che si sta giocando un ruolo drammatico come quello ma va bene così ».
Testo originale: Eglise et homosexualité : discours institutionnel et réalité vécue