Espressioni e fraintendimenti: famiglia, uomo, donna
Riflessioni inviateci da Massimo Battaglio
Giovedì scorso 20 maggio 2019, a Torino si festeggiava “La Consolata”. E’ una di quelle espressioni strane con cui si indica Maria, consolatrice dei cristiani perché a sua volta consolata da Dio. In parole povere: era la festa per antonomasia che i torinesi dedicano alla Madonna.
Alla messa solenne delle undici, l’arcivescovo Nosiglia avrebbe pronunciato, tra le tante bellissime cose, anche la seguente frase:
“È la famiglia infatti che ha tenuto fermi questi valori conservandoli e rinnovandoli in uno sforzo di unità costante sul piano umano, spirituale e sociale. Una famiglia stabile e solidale fondata secondo il progetto di Dio sul matrimonio tra un uomo e una donna”
Concetto che alcuni giornali si sono affrettati a intepretare in modo ulteriormente restrittivo: l’unica famiglia che tiene è quella formata da un uomo e una donna.
Peccato che non è andata così. C’ero, ero a pochissimi metri dal vescovo e sono stato molto attento. Già faccio molta attenzione normalmente quando un prete attacca con “la famiglia” (fosse mai che gli pigliasse di tirare la frecciatina omofoba). Se poi quel prete è il mio vescovo, le mie orecchie si tendono come quelle di un segugio.
Chi mi conosce sa che, alle parole “fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna”, le mie terga si sollevano automaticamente dal banco e le gambe mi portano fuori dalla chiesa. Ero pronto a farlo anche giovedì. E non è successo. Anzi, con mio grande stupore, il vescovo di Torino ha parlato di “matrimonio religioso o, perché no? Anche civile”.
Perché allora i giornalisti de La Stampa si sono affannati, nel primo pomeriggio, a pubblicare la sua omelia modificandola? Danno talmente per scontato che un sacerdote consideri famiglia solo quella di un certo tipo, da non credere alle proprie orecchie se sentono altro? O piuttosto avevano già a disposizione una bozza dell’intervento e non si sono peritati di verificare i cambiamenti a braccio? O proprio non c’erano, come suggerirebbe la foto allegata all’articolo, vecchia di almeno tre anni.
Sembrerà una cosetta da poco ma un cambiamento di quel genere è significativo, no? Valeva la notizia.
C’è anche una quarta possibilità. Può darsi che il foglio letto dall’arcivescovo contenesse solo alcune espressioni e quello passato ai giornalisti ne riportasse qualcuna diversa o in più. Ma non oserei mai pensare che la segreteria di Nosiglia arrivi a tanto.
Fatto sta che, sulla scia de La Stampa, anche lo stesso settimanale diocesano, La Voce e il Tempo, è caduto nello stesso errore. E qui, la cosa mi pare un tantino più grave. L’arcivescovo torinese passa d’ufficio tra i preti ossessionati dal “gender” e dalle sue declinazioni, grazie a una distrazione dei suoi stessi uffici.
Ok, sono sottigliezze. Cose da niente.
Solo che, da queste “cose da niente” dipende l’inclusione o l’eclusione di tante persone, il riconoscimento o il disconoscimento di tante coppie e dei loro amori. E quand’è così, io faccio attenzione anche alle virgole, non solo alle espressioni.
Buona parte dell’omofobia religiosa nasce proprio da questi fraintendimenti: da parole da niente che diventano macigni.
Sono arrivati, partendo da un banale sostantivo inglese che indicava il genere sessuale, a immaginare il peggiore dei complotti contro la famiglia e la società tutta: il “gender”!
Dalle parole “gestazione per alti” passando per la “maternità surrogata” si è arrivati al babau dell’ “utero in affitto”. E da lì, a credere che esistano davvero donne tenute prigioniere per fare figli da vendere ad altri. E che la “lobby gay” si batta con tutte le sue forze per rivendicare questo orrore.
In questo contesto, anche l’allocuzione “fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna” può diventare catastrofica.
Non ho particolari simpatie per monsignor Nosiglia. Ma devo riconoscere che ha sempre evitato espressioni che facessero credere che l’unica famiglia buona sia quella che prevede un maschio e una femmina uniti in matrimonio sacramentale. E giovedì scorso ne ho avuta conferma, io che c’ero.
Le parole, come diceva quel tale, sono importanti!