Essere neri, transessuali e allo stesso tempo cattolici
Testimonianza di Fredrikka Joy Maxwell tratta dal trimestrale Quarterly Voice of Dignity n.2 (Stati Uniti), 2009, pp. 4-6, liberamente tradotta da Tommaso
Se qualcuno mi chiedesse se si può essere neri, transessuali, e Dio non voglia, cattolici, dovrei rispondere con la famosa frase del presidente Barack Obama: “Yes we can” (“Sì, possiamo”). Ma per esperienza, so anche che non è facile. Tutto questo mi è stato ricordato quando ho letto l’edizione del febbraio 2009 del Catholic Digest, in cui Marc Adams ha scritto “ La parrocchia che mi ha reso completo”.
Adams, un capo-redattore collaboratore di BustedHalo.com (una rivista on-line per persone interessate alla ricerca spirituale) e della BBC, vive a Washington, DC e frequenta la chiesa di St. Augustine. È una delle chiese cattoliche più antiche della diocesi, fondata nel 1858 da schiavi liberati.
Penso che Adams stesse tentando di spiegare che cosa si prova ad essere neri e cattolici in una chiesa che spesso non sente come casa. Non posso che essere solidale con lui. Adams iniziava il suo articolo con un richiamo alla sua infanzia, ricordando il coro Gospel della st. Augustine, famoso in tutto il mondo. Secondo l’articolo, la sua mamma, bianca e cattolica, ha allevato lui e suo fratello secondo gli insegnamenti della Chiesa, mentre il suo papà, nero, era un battista del Sud.
Da bambino crebbe con la nozione che se si voleva essere neri e credenti, si doveva essere protestanti, in particolare battisti del Sud. Disse che vi erano alcuni che pensavano che lui non sarebbe dovuto essere cattolico, poiché la Chiesa era considerata appartenente solo ai bianchi.
Suor Jamie Phelps, direttrice dell’Istituto per gli Studi dei Neri Cattolici all’università Xavier di New Orleans, è citata varie volte nell’articolo. Una volta viene riportata questa sua riflessione: “Siamo fra due mondi, dato che siamo neri e cattolici. I cattolici pensano che non sei abbastanza cattolico e i protestanti pensano che non sei abbastanza nero”.
In un altro brano, lei sostiene che il nostro più grande dono alla Chiesa e al mondo è la nostra fede profonda, la nostra speranza ed impegno verso Dio durante la lotta. Dio ci ha resi capaci di non abbandonare il nostro cammino di fede nonostante il rifiuto, l’emarginazione e il disprezzo. Phelps ha detto di non vedere alcun motivo per lasciare la Chiesa malgrado il razzismo, la discriminazione sessuale o il classismo di alcuni suoi membri o istituzioni. Tutte le istituzioni umane hanno difetti e Dio può, e a volte lo fa, scegliere strumenti difettosi.
Come Adams, anch’io sono cresciuta da cattolica. Diversamente da Adams, entrambi i miei genitori erano neri e crebbero nella fede battista nel profondo Sud (degli USA, ndr.). Ma mio papà venne presto a contatto con il Cattolicesimo durante la sua carriera militare e ritenne che la liturgia -allora praticata- fosse “bella”, mi disse in seguito la mia mamma.
Alla fine degli anni ‘50, la nostra piccola famiglia militare ricevette il battesimo cattolico. Ci siamo trasferiti così spesso che non ho mai sentito alcun posto realmente come casa. Perfino Savannah, GA, dove nacqui, non la sentivo del tutto casa; la casa era ovunque papà si togliesse gli stivali da esercitazione. Così non ho avuto mai il senso di far parte della comunità cattolica, anche se ero cattolica da quando ero alta solo fino al ginocchio e la Messa era ancora detta in latino.
Il “Concilio ecumenico” come i giornalisti televisivi denominarono il Vaticano II, mi passò del tutto inosservato. Non ebbi idea di chi fu Giovanni XXIII, né dell’importanza del suo operato. Tutto ciò venne in seguito, dopo che mi resi conto perché improvvisamente era permesso mangiare un (hamburger) Whopper il venerdì sera mentre prima significava andare dritti dritti all’inferno. Non fu se non dopo la fine del college che iniziai a chiedermi se la Chiesa non fosse un’istituzione razzista e sessista. Ero pronta a lasciarla dopo aver sperimentato diversi gruppi, dai “Folli per Gesù” ai Battisti, agli Episcopali e ad alcune altre chiese.
Mancava qualcosa, ma non sapevo come chiamarlo. Ma era importante a tal punto da farmi decidere di lasciare la Chiesa quell’anno, il 1981. Così, come il caso volle, la domenica che ritenevo quella della mia ultima Messa, ho perso l’autobus. Quella fredda mattina di febbraio a Nashville, ho camminato dal mio appartamento per molti isolati, ricordando di aver visto una chiesa cattolica in zona e decisi che quella avrebbe visto la mia ultima domenica da cattolica.
Arrivai troppo tardi alla chiesa di st. Edward per sentire il canto d’ingresso e non ricordo l’argomento del Vangelo. Ma ricordo bene che il giovane sacerdote, padre Kevin, stava per battezzare un bambino. Quello che disse mi colpì profondamente. Sottolineò che stavamo per battezzare questo bambino in una comunità cristiana che a volte non si comportava molto cristianamente. Amen!
Stavamo battezzando questo bambino in una comunità di amore che non sempre si comportava molto amorevolmente. Amen! Ma stavamo battezzando questo bambino in una comunità che stava tentando di essere tutto questo.
E mentre lo ascoltavo, mi sono improvvisamente resa conto che questo giovane sacerdote diceva le cose come stavano e che faceva il punto sulla Chiesa molto sinceramente: “Non potete chiedere a una comunità niente di più se non di tentare, ogni giorno, in ogni modo, di vivere la legge dell’amore”. Alcuni giorni, semplicemente non ci riuscirà.
Ma alla st. Edward, la gente ci stava provando. Ho voluto alzarmi in piedi sul banco e applaudire quell’uomo. Alla st. Edward avrei incontrato persone divenute poi miei amici, e che rimasero amici anche dopo che mi dichiarai transessuale. E la cosa divertente fu che la maggior parte di loro erano donne. Improvvisamente capii che cosa mi era mancato nella mia vita cattolica precedente: una comunità – il senso di poter far parte di quello che succedeva, nonostante io fossi nera.
Sì, a volte mi sono domandata veramente se non fosse il caso di trovare un’altra parrocchia. E a volte, quando ho esternato i miei dubbi, alcuni parrocchiani di buone intenzioni mi suggerirono di andare altrove, magari in una parrocchia a maggioranza nera. Ma non l’ho mai fatto. Avevo già promesso a me stessa e a Dio che non avrei permesso a nessuno, a causa di atteggiamenti ostili o persino ostilmente razzisti, di allontanarmi da quella che era diventata la mia parrocchia domestica.
E ho partecipato con gioia alle “Celebrazioni Parrocchiali” di alcuni mercoledì sera. Una volta sono persino stata il commentatore, offrendo le mie riflessioni sul discorso del Dott. King “Ho un sogno”. E sono entrata nel ramo parrocchiale della Legione di Maria, dove crebbi nella mia fede cattolica, imparai a gestirmi nel ministero dell’ospedale ed ebbi persino diverse mansioni sia in parrocchia sia in tutto lo stato.
Trascorsi quasi due decadi donando felicemente il mio servizio e facendo parte della parrocchia della st. Edward, prima di trovare infine il pezzo mancante al puzzle del mio genere sessuale. Appresi che cosa significasse disforia di genere; ne fui inorridita.
Capii che questo era il nome del mostro che mi aveva fatto interrogare su me stessa durante l’adolescenza; che mi aveva fatto tentare e fallire di diventare amica intima delle ragazze che, purtroppo, mi vedevano come uno dei ragazzi, quindi loro nemico; che mi aveva fatto sognare di vivere una vita da donna; che mi aveva fatto sognare di avere un marito, di essere la sposa di qualcuno e la mamma di qualcuno; che mi aveva fatto chiudere di nascosto a chiave in bagno a provare le mutandine e i busti della lavanderia; che mi aveva posseduto a tal punto da farmi indossare, andando al lavoro, le mutandine rubate; e che mi aveva fatto perfino pensare, in un giorno molto depresso al liceo, a quello che avevo ritenuto sempre inammissibile, il suicidio.
Ero terrorizzata al pensiero di lasciare uscire il genio transessuale dalla lampada. Ero terrorizzata per quello che sarebbe potuto accadere. E quando sei in una famiglia militare, ti dicono sempre che vi sono alcune cose che non si fanno ed altre che non si dicono. Avessi saputo dire, con la proprietà di linguaggio e i concetti con cui Just Evelyn ha intitolato il suo libro: “Mamma, ho bisogno di essere una ragazza” … Invece ho tenuto tutto questo dentro, per anni. Ma le persone transessuali dicono che per tanto tempo queste cose si possono solo reprimere.
Un giorno del 1997, una collega mi chiese che cosa avrei fatto per Halloween. La nostra nuova sovrintendente aveva fatto sapere che non le dava fastidio se ci fossimo mascherati. La sua unica condizione era che svolgessimo regolarmente il lavoro. Così la collega mi chiese al riguardo ed io, scrollando appena le spalle, le diedi una risposta impertinente: “Non lo so, forse niente, o forse metterò giusto un vestito.”
“Ti sfido!” rispose con un sorriso malizioso. Capii allora che parlava seriamente e che sapeva che la mia risposta impertinente non era quella vera e che il resto, come si usa dire, è storia. Ho ancora il vestito viola nel mio armadio. Tutti dissero che avevo scelto bene il vestito per l’ufficio. E che se, avessero votato i costumi, io avrei vinto all’unanimità. Ciò significava quanto ero stato brava e quanto stavo bene con quel vestito.
La cosa strana fu che, diversamente da molti transessuali e travestiti, i cui post leggo online e le cui storie ho letto sui libri, non ho mai provato un senso di vergogna o di colpa. Nervosa? Certo! Mi guardavo sempre le spalle. Ero solita pensare che si sentisse il mio battito nervoso da Nashville fino a Chattanooga e all’altra parte dello stato! E, via via che aumentava in me la sicurezza e la proprietà nel comportarmi da donna, iniziai a sentire per la prima volta che questo era quello per cui ero nata.
Per la prima volta nella mia vita, sentivo che qualcosa era realmente la cosa giusta per me. Ciò non vuol dire che tutti accettarono la mia condizione senza problemi. Infatti, molti parrocchiani -compresi uno che presiedeva il consiglio parrocchiale e la suora direttrice della Formazione Religiosa- furono molto contrari.
Proprio così, la suora può essere stata la responsabile del rifiuto di accettarmi come ministro eucaristico per quasi quattro anni, nonostante la mia costante e decisa presenza a tutte le lezioni e incontri obbligatori per quel ministero. Così il senso di comunità riguardo al mio ruolo non fu forte come il solito. Ed io sto ancora cercando un posticino da chiamare mio.
Ma in generale, sono stato fortunata: alla fine, sono riuscita a svolgere tutti i ministeri eucaristici della parrocchia. E sono nel direttivo del gruppo di Dialogo di Fede per Adulti, che organizza le attività della domenica mattina dopo la Messa delle otto. E alla parrocchia di st. Edward vi sono ancora amici preziosi di cui ringrazio Dio ogni giorno.
Quindi, sì, suor Jamie Phelps dell’università di Xavior ha ragione: forse uno dei doni che i cattolici neri portano alla chiesa e al mondo è una fede in Dio coerente, nonostante il rifiuto, l’emarginazione e semplicemente un puro disprezzo. E quando dice che la Chiesa è difettosa, ha di nuovo ragione. Ripensando al 2003, la Congregazione per la Dottrina della Fede inviò una lettera ai vescovi di tutto il mondo.
La lettera imponeva ai vescovi di non cambiare il genere sessuale presente sui registri di battesimo, di non accettare le persone transessuali nei seminari o nei conventi, e di non permetterci di sposarci in chiesa. E se ci sottoponiamo alla Gender Realignment Surgery -GRS- (Chirurgia di Riallineamento di Genere), la Chiesa sostiene che non cambia nulla: chiunque tu sia alla nascita, lo sarai per sempre, il che per me è un chiaro segno che la Chiesa non comprende il fenomeno del transessualismo.
Quando una persona transessuale è pronta per la GRS, quella persona sa già che lui o lei in realtà non sta provando a cambiare per se stesso/a. La persona in realtà sta tentando di uniformare il corpo al genere sessuale sentito dalla persona stessa. Quando finalmente iniziai il cambio di genere sul lavoro nel 2001, persi un certo numero di amici e molti colleghi furono scortesi, se non esageratamente cattivi. Ma c’è sempre una parte di persone che fa la differenza. E quando infine sono andata in pensione in 2005 dopo aver fatto il cambio di genere sul lavoro, ben sedici di loro hanno continuato a mantenere un posto speciale nel mio cuore.
La maggior parte di loro erano neri, ma fra loro vi erano anche alcune donne bianche. Questa era la mia famiglia sul lavoro. Ci vollero anni prima che la mia famiglia natale scendesse a patti con la mia femminilità. Per anni la mia mamma insistette perché non portassi abiti femminili in casa sua e fu un periodo molto difficile nella mia vita quando mi resi conto che la mia vera identità non era accettata in seno alla mia famiglia. Ma il tempo guarisce e i cambiamenti avvengono veramente. Non solo la mia mamma ora usa il mio nome legale, ma il più delle volte riesce persino ad usare i pronomi correttamente.
E non mi strizza nemmeno l’occhio quando entro nel bagno delle signore. Certo, lei riesce a muoversi perfettamente lì.
Io e mia sorella siamo diventate più vicine, specialmente dopo un episodio accaduto in un centro di abbigliamento, dove una commessa si è avvicinata a chiedere: “Posso aiutarvi, signore?”. Sia benedetta. Vi è un mondo in cui alcuni mi vedono realmente come donna. I miei fratelli ancora mi parlano ma due di loro non sono d’accordo con me per motivi religiosi, pur affermando di amarmi ancora; in breve, ci siamo messi d’accordo di essere in disaccordo. L’altro fratello è del genere “vivi e lascia vivere”.
A volte, mi domando ancora se non sia arrivato il momento di lasciare la Chiesa. Ma ricordo ancora quella frase della pubblicità del vino di Paul Masson: “Non venderemo vino prima del tempo”. E grazie a voi, Marc e suor Jaime, per avermi farmi fatto riflettere su tali temi. Non lascerò questa Chiesa prima che sia tempo. E non è ancora tempo.
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Testo originale: Reflections on Being Black, Trans and Catholic (file pdf)