Il funerale di Vera. L’ultimo saluto a un’amica trans
Testo di Ferzan Ozpetek tratto dal suo libro “Sei la mia vita”, Mondadori, 2015, pp.81-84
… Se n’è andata con un’uscita di scena silenziosa, senza alcun preavviso, a 69 anni. Un infarto nel cuore della notte. A trovarla è stato Fulvio, l’amico che a volte dormiva da lei. (Vera) Era riversa sul letto, come se stesse riposando. Era venuta anche la polizia: la morte di una trans suona subito sospetta. L’avevano portata via in un sacco. (…)
Dopo avere sperimentato ogni tipo di trasgressione ai principi cristiani, Vera negli ultimi anni si era riavvicinata alla Chiesa. Non ne parlava mai, ma io sapevo che spesso, nei suoi giretti pomeridiani, si spingeva fino alla parrocchia di via del Gasometro, dove si tratteneva a pregare e ad accendere un cero.
In chiesa c’era un sacco di gente. Amici, vicini di casa e del quartiere, tantissime persone della comunità̀ gay romana. Di parenti, però, non ne venne nessuno. Solo Enzo, l’adorato nipote, si fece vedere.
«Ieri nostra sorella Vera ci ha lasciato» esordì don Giulio, dando inizio al rito. E con queste semplici parole instillò calore e consolazione nei nostri cuori addolorati.
Un altro, al posto suo, avrebbe potuto trasformare quella triste occasione in un ulteriore supplizio, in una vana celebrazione dell’ipocrisia. Lui, invece, fece capire a tutti, se mai qualcuno avesse avuto un dubbio, che quel giorno eravamo lì per onorare e rispettare un’amica, che per l’intera vita aveva cercato soltanto di essere se stessa.
A un certo punto, dal fondo della chiesa, si sollevò un certo tramestio. Nelle ultime panche si era appena accomodato un variopinto gruppo di trans, visibilmente determinate a mettersi in mostra. Alcune erano agghindate come per un’improbabile première hollywoodiana di un film a luci rosse; altre, fasciate a stento in tailleur color pastello, esibivano cappellini civettuoli che nemmeno la regina d’Inghilterra avrebbe osato portare. Insomma, una squadra di primedonne in cerca del proprio quarto d’ora di celebrità̀, costrette loro malgrado ad assistere a un trionfo altrui.
Peggio, alla celebrazione della pioniera, della guida spirituale di tutte loro, di colei che per prima era riuscita a uscire dal cono d’ombra della notte per divenire un’icona della trasgressione anche alla luce dorata dei salotti radical-chic, tra chiacchiere pruriginose e coppe di champagne.
Sentire addirittura un prete renderle omaggio era davvero troppo. «Una persona così altruista, si dava sempre da fare per gli altri…» continuò don Giulio. Le trans invidiose, già̀ pronte con i loro fazzoletti, ora invece se la ridevano. I doppi sensi fioccavano. Indescrivibili aneddoti venivano ricordati a bassa voce.
«Mai che abbia chiuso la porta in faccia a qualcuno, mai che si sia negata…» proseguiva imperterrito il sacerdote, tra scoppi di pianto e di riso appena trattenuto.
Mi avevi dato una leggera gomitata e, sebbene entrambi addolorati, anche noi non avevamo potuto fare a meno di sorridere. Vera, invece, sarebbe rimasta imperturbabile, godendo segretamente dell’invidia altrui. Se la sarebbe appuntata sulla scollatura come una medaglia.
La cerimonia, ormai, volgeva al termine quando don Giulio, prendendo un po’ tutti in contropiede, chiese: «Qualcuno vuole dire qualcosa?».
Nessuno di noi si era preparato un discorso per l’occasione. Salii sul pulpito dove era posizionato il microfono e, rivolgendomi direttamente a Vera, improvvisai un breve commiato. Sul finire mi commossi e le mie parole risultarono tremanti e impacciate. Sentii diversi amici soffiarsi rumorosamente il naso.
Dopo di me parlò Valerio, e anche il suo intervento fu toccante.
Per qualche secondo restammo raccolti in silenzio. Don Giulio stava per passare alle ultime fasi del rito, quando uno scalpiccio si levò dal fondo. Una trans enorme, quasi correndo, salì sul pulpito per prendere a sua volta la parola.
Vederla lì, piazzata davanti al microfono, tra l’altare, il grande crocifisso d’argento e un affresco della Vergine Maria, faceva un certo effetto. I capelli color melanzana erano raccolti in una coda alta e cotonata. Indossava un abito rosso plissettato sull’abbondante scollatura e altrettanto abbondante addome, che cercava di coprire inutilmente, con studiato pudore, sistemandosi sulle spalle uno scialletto dorato. Completava il look un paio di spaventosi stivali da spazzacamino, con la zeppa.
Dopo aver gettato una lunghissima occhiata trasognata a quell’insperato pubblico – e quando mai le sarebbe ricapitata un’occasione simile? – estrasse lentamente il microfono dal supporto. Per un attimo temetti, chissà̀ perché́, che si sarebbe messa a cantare.
Restammo qualche minuto con il fiato sospeso, finché quella urlò a pieni polmoni: «Grazie!». Poi tacque. Perché́ aveva ringraziato? Che cosa avrebbe detto ora? Ma la trans si limitò a ripetere un altro paio di «Grazie!» cambiando di tono, prima estasiato, poi drammatico, come se stesse mettendo alla prova le sue doti interpretative. Quindi, si precipitò, quasi inciampando tra i banchi, verso il proprio posto. Intanto, nella chiesa si diffondevano le note strazianti di La vie en rose cantata da Edith Piaf, come Vera avrebbe voluto.
Quando ci ritrovammo sul sagrato, eravamo tutti commossi. Con Vera se ne era andato un pezzo delle nostre vite. Anche le trans si asciugavano le lacrime, mentre indossavano occhiali scuri dalle montature incrostate di strass e Swarovski. So cosa vorresti dirmi: la vita, per fortuna, continua a seminare manciate di leggerezza anche nei momenti più̀ tristi. E infatti…
C’eravamo appena accomiatati dagli amici e camminavamo con il cuore pesante fianco a fianco verso casa, che non era troppo distante. Quasi all’altezza della pasticceria dalle grandi vetrine colme di vassoi di cioccolatini e torte, alcuni colpi di clacson attirarono la nostra attenzione e una Panda verde mela ci superò sgommando.
«Ciaoooooo!»
Erano alcune trans che avevamo lasciato in lacrime cinque minuti prima, e ora si sbracciavano dai finestrini salutandoci allegramente, come se avessimo partecipato a una festa.