In Italia due volte straniero. Daniel, sudamericano e gay
Testimonianza di Daniel, tratta da “Ho visto tante case colorate, per conoscere, vedere e amare le case famiglia” a cura di Terra dei Piccoli Onlus, Marzo 2011, pp.53-56. Commento alla testimonianza di di Salvatore, padre dell’AGEDO
Sono uno studente universitario. Abito in una cittadina del Lazio e patisco il caldo afoso e l’inverno rigido tipico della mia zona come tante altre persone. Sono nato in Sud America dove vi ho trascorso la mia infanzia. Tutta la mia adolescenza invece l’ho passata qui (ndr in Italia) frequentando le scuole superiori, un liceo scientifico tecnologico, per specificare.
Sono sempre stato un bravo studente, me la sono sempre cavata da solo a casa con i compiti e con lo studio grazie al modo in cui mia madre mi aveva cresciuto.
Sin da piccolino ero stato un ragazzino modello: figlio obbediente, andavo bene a scuola e mi coltivavo vari interessi personali, davo una mano in casa coi mestieri e badavo ai miei fratellini.
Una volta arrivato ricevetti lezioni di italiano da un’ottima insegnante di lettere per due mesi e dopo altri due iniziai il liceo. Pian piano mi inserii nella mia classe. Nel mio tempo libero facevo anche del volontariato o leggevo.
Mia madre era sempre stata per me una confidente e un’amica, di quelle buone, e con lei non avevo segreti, lei si confidava con me e io mi confidavo con lei e nascondendole la mia attrazione verso i ragazzi mi sentivo come se la tradissi. Ero in conflitto, insomma.
Da quando raggiunsi mia madre in Italia, assieme ai miei fratelli, la mia vita cambiò totalmente: ora non abitavo più vicino ai nonni, agli zii e ai cugini, ma stavo solo e unicamente con mia madre ed i miei fratelli l’uno accanto l’altro.
Durante le vacanze tra il terzo e il quarto anno del liceo mia madre si ammalò gravemente e morì nel giro di un mese. Dal giorno in cui venne ricoverata in ospedale, i servizi sociali del comune in cui abitavamo mandarono in comunità me e i miei fratelli.
Questa comunità era gestita da preti. Qualcuno era molto piacevole, qualcuno un po’ più serio e qualcun altro lo si poteva definire come una delle cose che non augureresti mai di incontrare alle tue persone più care.
Ebbene, il mio responsabile di comunità era proprio una di questi ultimi. La vita mi costrinse a scegliere, in modo violento, tra il restare qua e portare avanti la vita che mi stavo costruendo di nuovo oppure ritornare in Sud America assieme ai miei fratellini.
Loro tornarono giù perché se fossero rimasti qua sarebbero andati in adozione o affidamento e i miei questo non lo volevano. Mentre io decisi di rimanere qua e ciò che mi aspettava era un lungo anno di comunità. Tuttavia il mio rendimento accademico non notò cali particolari. Due estati dopo la morte di mia madre stavo dando i miei orali di maturità e uscivo con la terza votazione più alta della mia classe.
Nel frattempo avevo conosciuto anche quello che allora divenne il mio ragazzo, avevamo la stessa età ed era tutto bello, scoprivamo e capivamo per la prima volta tante cose che prima ci sembravano insensate.
Quell’estate crebbi molto, sia interiormente che fisicamente, il mio viso si avvicinava sempre di più a quello di un uomo adulto, dai tratti decisi e virili, armoniosi e simmetrici.
La comunicazione tra me e il mio responsabile di comunità non fu mai tranquilla; al contrario, c’era sempre tensione tra me e lui, da parte mia perché non sapevo come comportarmi con lui, era sempre un terno al lotto capire di che umore era quella giornata o azzeccare il tono giusto per chiedergli qualcosa senza che si offendesse perché ti reputava cafone o presuntuoso.
Mi sembra proprio strano che queste cose mi fossero solo capitate nel relazionarmi con questa persona! La tensione cresceva settimana dopo settimana.
Mi ritrovavo isolato in comunità, non potevo più frequentare amici, né uscire e fare il solito giro in centro con la compagnia come prima senza capirne il perché.
Ai colloqui settimanali mi diceva che andavo bene oppure che ero tra i più difficili da gestire. S’arrivò, così, a dicembre dello stesso anno.
Una sera, poco prima di Natale, uscii per andare a un corso che frequentavo e strada facendo mi fermai per salutare un amico che partiva l’indomani: il mio responsabile passò in macchina sulla stessa strada e mi vide.
Al mio rientro mi prese a pugni e schiaffi davanti agli altri ragazzi accusandomi di prostituirmi e di essere un infame e vigliacco. Lui sapeva della mia omosessualità, e penso che questo, assieme alla scarsa comunicazione fossero le cause di questo episodio di violenza nei miei confronti. Ricordo che quando gli confidai di essere gay, lui restò imbarazzato e la sola cosa che seppe dirmi era di non farlo sapere agli altri ragazzi perché essendo molti di cultura islamica avrebbero potuto reagire male nei miei confronti.
La mattina dopo il fattaccio me ne andai da un cugino di mio padre che abita a Milano da ormai 17 anni e che conobbi quando venne a trovare mia madre in ospedale; eravamo un po’ estranei io per lui e lui per me. A casa sua restai fino ai 18 anni, finito il quarto anno del liceo.
L’ultimo anno delle superiori stetti in un’altra comunità. Questa era gestita da un caro amico di mia madre che mi diede l’opportunità di avere una borsa di studio e un posto in cui stare.
Finita la scuola mi trasferì a casa di una mia insegnante conosciuta al liceo, dove abito tutt’ora. Così si avvicinava anche settembre. Lavorai anche quell’estate, cosi come quella precedente. Decisi di iscrivermi all’università perché mi piace ‘sapere’. I miei risparmi dei lavori precedenti e della borsa di studio che ero riuscito ad avere durante l’ultimo anno del liceo mi servirono per poco tempo, presto finirono, la somma era poca.
Così ora mi ritrovo a dover fare i conti con una generale carenza di posti di lavoro, un portafoglio sempre più magro, un’università che non perdona i lavoratori e degli esami che vogliono essere dati.
In università mi trovo bene, ho scoperto delle persone meravigliose e andiamo d’accordo tra compagni, è un clima che non mi era ancora capitato di vedere.
Mi mancano ancora due anni di università, sono sempre stato alla pari con gli esami e me la cavo bene pure qua.
Il mio permesso di soggiorno ora è molto condizionato: mentre prima ce l’avevo per motivi familiari, ora ce l’ho per motivi di studio.
Se hai il permesso di soggiorno per motivi di studio e praticamene impossibile andare in Erasmus, devi rinnovarlo ogni anno e la maggior parte del tempo hai solo la ricevuta della richiesta di rinnovo perché come ti arriva il permesso ti scade. Se riesco a restare in Italia, soldi e documenti permettendo, potrò chiedere la cittadinanza nel 2015, non prima.
Nel frattempo sono uno studente universitario senza famiglia, che fatica ad andare avanti, non riesco a lavorare e studiare, il mio corso di laurea mi chiede la firma di frequenza per tutti i corsi e le lezioni si tengono tutti i giorni dalla mattina presto fino a sera.
Un commento alla storia di Daniel di Salvatore, un padre dell’AGEDO
Osservo, da padre di un omosessuale, che il padre di questo ragazzo, in questo racconto non c’è, neanche come assenza. Chissà che storia c’è! Ed osservo che la madre, anche se confidente, ha saputo tardi dell’orientamento sessuale del figlio. Ne deduco solitudine.
E il suo responsabile, che doveva essere un “educatore” ha saputo usare solo la violenza, l’insulto, e nella migliore delle ipotesi il suggerimento di “rendersi invisibile”, restare solo nella sua condizione affettiva.
Noto una certa simmetria tra la solitudine – isolamento dai genitori e la solitudine con un professionista dell’educazione. Se questa è educazione ….. Ma quello che emerge è soprattutto una storia di immigrazione, una storia come tante e, senz’altro, non tra le più sfortunate. La maestra che gli insegna l’italiano, l’insegnante che lo ospita, lo zio che l’accoglie, la borsa di studio, eppure: quanta strada c’è ancora da fare!
Mi chiedo: quanto è preparato il corpo “educante” delle comunità di accoglienza? Quanto le comunità alloggio sono preparate all’omosessualità? Quanto c’entra che queste comunità siano, spesso, di origine cattolica? In passato sono stato assistente sociale, ma ora non conosco più questo mondo di grande valore sociale.
Questa storia però mi rimanda alle scuse che gli educatori escogitavano, una trentina di anni fa, d’avanti ai problemi sessuali in genere, più per aggirare il problema che per affrontarlo e questo perché la comunità era o confessionale o pubblica e, in nessuna delle due si poteva uscire da alcuni canoni comportamentali rigidamente controllati.
Eppure, ….. eppure mi pare di intravedere una persona sostanzialmente sana che, tra le difficoltà della vita, con qualche “acciacco dell’io” saprà portare a compimento il suo progetto-destino. E questo, mi viene da pensare, malgrado e grazie anche al mondo che lo circonda.
Con affetto, Salvatore: un padre Agedo