L’amore autentico. Il racconto d’amore di due madri con figli gay
Intervista di Silvia Lanzi a Lidia Borghi, 29 novembre 2012
In occasione della giornata mondiale per la lotta all’HIV l’associazione IREOS di Firenze, in collaborazione con il Florence Queer Festival, ha organizzato l’evento Occhio alle tentazioni, con la proiezione di corto-medio-lungometraggi che hanno come tema l’AIDS, fra cui “L’amore autentico. Due madri cristiane di ragazzi gay si raccontano“, (Italia, 2012, 30′) di Lidia Borghi, in cui compaiono Ursula Rütter Barzaghi, madre di Enrico, morto per l’AIDS a soli 29 anni nel gennaio del 1990 e Mila Bianchi, madre di Jacopo.
Entrambe hanno deciso di dare la loro coraggiosa testimonianza per sfatare miti e luoghi comuni. Due interviste sincere e appassionate, che bucano il cuore.
L’appuntamento è quindi il primo dicembre 2012 alle 17,00 a Grosseto, presso lo Spazio 72 di via Ugo Bassi e alle 18,30 a Pisa, presso il Circolo Arsenale di via Scaramucci 4. E ora, la parola a Lidia, autrice del documentario.
Lidia, chi sono queste madri e perché hanno deciso di raccontarsi?
Mila Banchi e Ursula Rütter Barzaghi sono due persone come tante che, ad un certo punto della loro esistenza, hanno scoperto di avere un figlio gay; diverse per età e percorsi culturali e di vita, ma con una grande esperienza dei diritti umani e civili in comune, entrambe hanno scelto di comparire di fronte ad una telecamera per raccontare le rispettive storie, in occasione della preparazione della prima indagine italiana in assoluto riguardante i famigliari cristiani delle persone LGBT; commissionatami dalle persone volontarie del Progetto Gionata su fede e omosessualità, l’inchiesta venne intitolata Testimonianze di fede.
I famigliari cristiani di alcune persone LGBT si raccontano, fu da me terminata a luglio del 2011 e divulgata a mezzo stampa e web. Era la prima volta che veniva data voce ai parenti stretti di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali/transgender e, nonostante il silenzio assoluto con il quel è stata accolta la faccenda, essa ha rappresentato un grande traguardo per il tema della fede connessa con l’omosessualità.
Mila ed Ursula hanno dunque deciso di raccontarsi per mettere a parte l’opinione pubblica – tanto intrisa di pregiudizi nei confronti del mondo LGBT in genere – del fatto che l’omosessualità cristiana non è un oggetto oscuro, più o meno ammantato d’ideologia, che le/i dirette/i interessate/i sfruttano per attaccare la chiesa cattolica, ma una solida realtà incontrovertibile che è presente in molte parti del mondo grazie ad un forum europeo e ad uno italiano; punto di riferimento di quest’ultimo è proprio il portale del Progetto Gionata; inoltre tutte e due hanno sentito forte l’esigenza di far sapere a chi poco o nulla ne sa che, in quanto credenti, vivono con dolore e spesso con rabbia l’omonegatività sociale della chiesa di Roma.
Che percorso psicologico hanno dovuto affrontare per accettare il proprio figlio? E per superare il senso di colpa di averlo – in qualche modo – spinto ad essere tale?
Sia Mila che Ursula hanno superato il pregiudizio sul mondo omosessuale mettendo a frutto ciò che avevano appreso frequentando l’università della vita – come direbbe il mio buon amico don Andrea Gallo – ovvero, armate di buon senso e di un amore smisurato nei confronti dei rispettivi figli, si sono comportate come amore impone, secondo il messaggio che Gesù ha tramandato a tutte e tutti noi, accogliendo Jacopo ed Enrico senza colpevolizzarli od emarginarli.
Lo scoglio più duro da superare, per entrambe, è stato il quintale di sensi di colpa che si portano appresso da allora: mai una volta deve averle sfiorate il pensiero di essere state la causa indiretta dell’omosessualità dei loro figli; semmai hanno dovuto cominciare a lottare con pensieri del tipo: “E adesso che ne sarà di loro? Riusciranno a convivere con la riprovazione sociale, che li colpirà quando meno se lo aspetteranno, facendone delle persone un po’ più infelici ad ogni attacco?”
E poi le madri in genere – salvo rare eccezioni – quando le creature che hanno messo al mondo prendono a frequentare l’ambiente esterno alla famiglia, cominciano a porsi domande che hanno a che vedere con le presunte cattive compagnie che noi figlie/i potremmo frequentare…
Almeno fino a che non facciamo conoscere loro i/le compagni/e: solo allora si acquietano, perché l’unico modo per renderle felici (per i padri è la stessa identica cosa) è mostrar loro la nostra serenità accanto alla persona amata, colei che ci rende a nostra volta felici.
Pregiudizio e indifferenza. Con quali armi li hanno combattuti queste donne?
Sia Mila che Ursula hanno utilizzato il loro ambiente per cominciare ad informare le persone conosciute dell’orientamento affettivo e sessuale dei rispettivi figli. Mi spiego meglio: nel caso di Mila – che si è accorta da sola che suo figlio Jacopo, appena diciassettenne, stava vivendo un forte disagio – quando la cosa venne fuori si rese conto di non essere stata poi molto accogliente nei confronti della sua creatura, se Jacopo si era visto costretto a tacere e, quindi, a tenere nascosta una parte così importante della sua vita ai genitori.
A differenza della maggior parte di madri e padri – che si fanno domande del tipo: “Perché proprio a noi?” oppure “Chissà che cosa penseranno i vicini di casa? E il parroco?” – Mila Banchi si è chiesta: “Se mio figlio si è tenuto tutto dentro, allora vuol dire che io non sono stata all’altezza del mio ruolo di madre?”
Una domanda pesante, intrisa di sensi di colpa, non trovi? Il passo successivo è consistito nell’informate tutti, ma proprio tutti gli esponenti della famiglia del fatto che il loro congiunto si innamora dei maschi anziché delle femmine; ciò si è reso necessario affinché Jacopo non avesse a soffrire del fatto di non poter vivere il suo orientamento in modo autentico, come autentico è l’amore che ogni persona su questa terra si attenderebbe di provare, in barba a qualsiasi tipo di stigma sociale (e noi sappiamo quanto esso sia forte, anche nel nostro Paese, nei confronti delle persone lesbiche e gay).
A proposito di Ursula, invece, oltre ai pesanti sensi di colpa – generazionali, di genere e di origine sociale – ci fu, ad un certo punto della sua vita, da fare i conti con l’indifferenza altrui, quell’anti-sentimento – passami il termine – che impedisce alle persone di instaurare dei rapporti umani degni di questo nome a causa della paura di incontrare chi è altra/o da sé.
Nella fattispecie, la madre di Enrico Barzaghi ha cominciato ad informare tutto il vicinato, vicini di casa e negozianti compresi, del fatto che suo figlio, gay dichiarato, aveva contratto il virus dell’HIV; puoi immaginare quanta sofferenza abbia dovuto provare questa donna a causa della vergogna che il giudizio negativo altrui deve averle suscitato? Davvero pesante. Come un macigno.
Il fatto di cominciare a lavorare sull’ambiente circostante per mutarlo in modo positivo ha rappresentato per Mila ed Ursula una vittoria non indifferente contro il pregiudizio, affinché l’autenticità dei propri figli potesse uscirne vincitrice.
In che modo il loro essere cristiane ha aiutato o ostacolato la loro comprensione dei figli?
Intanto ti devo una precisazione: mentre Mila si è definita cattolica, nel caso di Ursula mi sono trovata di fronte ad una persona cristiana che non si dichiara cattolica, poiché secondo lei la chiesa di Roma ha tradito il messaggio evangelico d’amore e di inclusione divulgato da Gesù; quando abbiamo approfondito un poco questo argomento lei, commentando l’atteggiamento omonegativo del Vaticano nei confronti di gay e lesbiche, si è fatta una risata nel momento in cui ha affermato: “un giorno di questi vi troveremo tutti in qualche girone dell’inferno o non so dove”.
Per rispondere alla tua domanda, entrambe hanno compreso per amore. Solo per amore. Il resto è venuto sa sé: lungi da loro giudicare riprovevole l’identità personale dei propri figli gay a causa dello stigma sociale che anche la Chiesa di Joseph Ratzinger contribuisce ad alimentare, le due madri si sono rimboccate le maniche e, con un coraggio enorme, hanno sfidato il pregiudizio corrente di cui erano imbevute le persone ad esse vicine – come ho sottolineato prima – per aiutare i figli a vivere in modo sereno ciò che sono, senza portarsi addosso l’onta del frocio; per di più, nel caso di Ursula, ammalato di AIDS ovvero la malattia che in ambienti vaticani qualcuno aveva definito, negli anni ’80, la giusta punizione divina alla depravazione degli omosessuali.
Secondo te, si tratta di eroine o il loro coraggio è qualcosa di naturale?
Sai che c’è? Qualche giornalista irresponsabile definirebbe persone come Mila ed Ursula delle “madri coraggio”, contribuendo non poco a rinfocolare lo stereotipo delle donne che, pur di difendere coloro che hanno messo al mondo sarebbero disposte a tutto; io la penso in modo del tutto diverso e in ciò sento di rappresentare anche il pensiero di Banchi e Rütter Barzaghi: qualunque genitore – madre o padre che sia – vuole solo il bene dei suoi figli e delle sue figlie e, lungi dall’avere un coraggio fuori della norma rispetto agli altri, è spinto ad agire solo per amore, come ho detto prima.
Quale altro sentimento potrebbe mai animare quelle persone, se non l’amore, di fronte al quale qualsiasi proclama di presunta depravazione finisce con l’impallidire? Il messaggio che, fra le righe, hanno voluto diffondere Mila ed Ursula è quindi il seguente: “Chiunque voglia divulgare pensieri e parole d’odio nei confronti dei gay e delle lesbiche faccia pure. Noi preferiamo continuare ad amare i nostri figli”. Il resto mi sembra del tutto superfluo, non trovi?
Perché è importante la loro testimonianza?
Ti rispondo chiamando in causa una grande filosofa italiana ed una grande amica mia, Nicla Vassallo (di recente è uscito, per i tipi di Mimesis, il suo Conversazioni. Intervista di Anna Longo, in cui parla diffusamente di questo argomento), la quale sostiene che l’atto del testimoniare rappresenta per tutte e tutti noi una garanzia di autenticità – e con ciò torno a parlare di questo concetto, il cui aggettivo compare anche nel titolo del cortometraggio che ho dedicato a Mila Banchi e ad Ursula Rütter Barzaghi – nel momento in cui le informazioni che ci vengono propinate da certa stampa peccano di attendibilità; ogni volta che ciò accade, noi abbiamo una grande arma a nostra disposizione, che ci consente di ristabilire la verità su qualcosa che non abbiamo vissuto in prima persona e di cui abbiamo solo sentito parlare: quella delle narrazioni autentiche, per ottenere le quali abbiamo un’unica maniera: rivolgerci ai diretti interessati.
Per questo motivo ho scelto le testimonianze per strutturare il primo reportage italiano dedicato ai famigliari cristiani di persone LGBT e sempre per questo motivo ho voluto documentare parte delle interviste a Mila e ad Ursula con un video che ho messo a disposizione di chiunque – singola persona o gruppo – voglia conoscere senza mediazione alcuna le storie di due madri cristiane con figli gay.
Appuntamento, dunque, a Grosseto e a Pisa il primo dicembre!