La banalità del male. Chi è mio fratello?
Articolo di Francesco Comina pubblicato sul mensile “Mosaico di pace” del giugno 2015
Don Tonino, hai mai sentito parlare della filosofa ungherese Agnes Heller? Forse ricordi un suo libro che fece tanto discutere negli anni Settanta, La teoria dei bisogni in Marx.
È una delle grandi pensatrici del nostro tempo. Insieme alla Scuola di Budapest tentò di rifondare il marxismo sfrondandolo di tutte le illusioni ideologiche per piantarlo sul terreno dei bisogni umani. Per questo Agnes venne perseguitata dal regime comunista ungherese, venne controllata, pedinata, le venne impedito di insegnare, di pubblicare libri. Nel 1973 riuscì finalmente ad abbandonare il Paese e le diedero la cattedra più prestigiosa al mondo, quella che fu di Hannah Arendt alla New School di New York.
Da qualche anno ho la fortuna di condividere con lei un’amicizia profonda. Il mese scorso venne a Bolzano per una serie di incontri che le ho organizzato e, quando la accompagnai alla stazione per salutarla, ci si presentò davanti agli occhi una scena che mi ha fatto ricordare i tuoi scritti. E le ho parlato a lungo di te, le ho ricordato come trasformasti
l’episcopio in un caleidoscopio, ossia in un luogo di transito delle differenze e in un luogo di cura e accoglienza dei poveri.
Sul binario del treno in partenza per Monaco stavano assiepati un centinaio di profughi stanchi, sfiniti, ansiosi di salire su quel treno per tentare di andare al di là del Brennero e raggiungere i Paesi del nord Europa.
Ma quei poveri Cristi, seduti sul marciapiede per ore, costretti a passare le notti nei meandri della stazione, non possono salire sui treni che si spingono oltre il confine. Torna, con il suo volto spettrale, il confine che sembrava essere superato dalla storia. L’Europa s’affretta a ridiventare fortezza.
I partiti del rifiuto allargano i consensi, soffiano sale sulle ferite degli ultimi, prendono nuovamente a urlare lo scandalo della stranieritudine come fecero con quel Cristo, nato straniero e morto straniero.
Agnes Heller ha avuto un fremito improvviso e ha cominciato a pensare: “Il mio Paese, l’Ungheria, ha deciso di chiudere le frontiere ai migranti. Siamo la nazione che in percentuale ha subito il maggior numero di vittime durante gli anni apocalittici della Shoà. Io ho vissuto la vita nel ghetto di Budapest. Mio padre morì ad Auschwitz, gran parte della mia famiglia venne annientata nelle camere a gas.
Ora altri uomini, altre donne, altri poveri fuggono dalla fame, dalle guerre, e il mio stato che fa? Gli sbatte la porta in faccia. Fin che vivrò rimarrò nel mio Paese a ricordare agli smemorati che il prossimo che chiede aiuto è mio fratello e che davanti alle suppliche di un fratello noi non possiamo voltarci dall’altra parte perché abbiamo un dovere supremo: la responsabilità verso altri”.