Libertà va cercando. La libertà al plurale: Laicità e politica
Relazione tenuta da Gian Enrico Rusconi*, professore di Scienza politica all’Università di Torino, al ciclo d’incontri “Libertà va cercando”** il 26 febbraio 2008, sbobinatura non rivista dall’autore realizzata da Carlo del gruppo Kairos di Firenze
Sono abituato a essere invitato in ambienti cattolici ed essere guardato con affettuosa indifferenza: “È un laico! Cioè, è uno dell’altra parte e può dire quello che vuole, tanto non ce ne interessa niente!”. Parlerò proprio da laico, nel senso che il testo che ho qui davanti è idealmente rivolto ai laici ma, indirettamente è rivolto a tutti. Penso che quello che dirò, è proprio quello che penso come laico, e cercherò di innovare – forse è una parola presuntuosa – comunque di precisare meglio il linguaggio. Tra l’altro notavo – mi sono reso conto dopo – che l’espressione che voi usate “libertà al plurale” credo che la prenderò. Invece di usare il termine un po’ obsoleto e noioso, pluralismo, perché, in fondo, pluralismo vuol dire libertà al plurale. Quindi, d’ora in avanti userò questa espressione anziché il gergo un po’ tradizionale di pluralismo.
E vengo subito nel merito, anche perché le cose da dire sono tante e spero che voi reagirete, una volta che avete capito l’atteggiamento. Inizialmente, si continua a parlare di laici non credenti e di cattolici credenti, come se questi termini avessero un senso, o per lo meno il senso che avevano fino a qualche anno fa.
Non lo hanno più, da quando si è alterata la logica del discorso pubblico, gestito dalla gerarchia cattolica, con il risultato di ridurla spesso a una variabile di convenienza politica o ad un calcolo di aritmetica elettorale. Naturalmente, ci sono una minoranza di credenti che recalcitrano a questa impostazione – siete voi probabilmente – ma lo fanno con voce flebile, prudente, zittiti e tollerati dalla gerarchia. L’ultima volta ho parlato su La Stampa di “Chiesa zittita”. Pensavo a voi!
A questo punto la tradizionale – presunta obsoleta – questione cattolica, ritorna sotto forma di una questione democratica, che ci porta a riflettere sui fondamenti stessi della democrazia. Nella vita pubblica democratica la discriminante è tra i cittadini, non è tra chi crede e chi non crede, o come mi piace dire è diversamente credente; ma tra chi riconosce la pluralità delle visione e degli stili morali di vita – come del resto recita in un linguaggio un po’ vecchiotto l’art. 3 della Costituzione – e chi viceversa si sente investito della missione di obiettare in modo autoritario l’ethos pubblico, mette in scena pubblicamente la propria pretesa di Verità, dichiarando come non negoziabili i propri valori, senza assumersi la responsabilità delle conseguenze che derivano alla qualità e alla funzionalità del sistema democratico.
Il primo atteggiamento, quello affermativo del pluralismo – ma adesso posso dire della libertà al plurale – è laico. Il secondo non lo è. Di fronte a questo dato di fatto nessun cardinale può permettersi di dire chi sia il laico vero o il laicista. Non negoziabile, per il laico, è la pluralità dei valori pubblicamente argomentata e non l’impulso di imporre i propri valori, assolutamente legittimi, agli altri cittadini.
Laica è la disponibilità a far funzionar in modo solidale le regole della convivenza, partendo dal presupposto che la molteplicità delle visioni della vita, delle concezioni del bene, della natura umana, non sono una disgrazia pubblica, cui ognuno si deve rassegnare, ma l’essenza stessa della democrazia.
La politica è esattamente questo: è il governo dell’ostilità reciproca. Perché se fossimo tutti d’accordo non ci sarebbe bisogno di fare un governo, o di dialogare. Allora, di fronte a questa problematica, i laici hanno due compiti: il primo è di ribadire che la laicità non è un’opzione privata ma un criterio pubblico, che si costruisce sulle virtù private del civismo e della disponibilità al confronto di tutti i convincimenti. Può darsi che questa tesi sia condivisibile da tutti, in linea di principio; ma la sua verifica si trova discutendo del ruolo pubblico della religione oggi e la dinamica effettiva delle decisioni democratiche.
Il secondo compito dei laici dovrebbe essere quello di costruire un discorso sui grandi temi della natura umana, della razionalità, della scienza. E questo è un discorso che sempre più faccio, quando ho davanti un pubblico laico. La laicità italiana è stata per decenni una componente interna di condizioni e costruzioni di area ideologica di matrice liberale o socialista/comunista che avevano altrove il loro baricentro filosofico e politico. La laicità è una specie di sottoprodotto. Sì c’erano i partiti laici, ma erano quattro gatti. Il vero problema è che dissolte queste sintesi, il pensiero laico deve oggi costruire da solo, senza presupposti ideologici, la usa linea di interpretazione e la sua linea di azione. In maniera inattesa – solo dieci anni fa non lo avrei pensato – il discorso laico diventa un asse importante, non un sottoprodotto di altre…
È una prospettiva impegnativa, non solo per dare concretezza alla concezione laica della democrazia, ma per contraddire la tesi che la laicità si riduca alla costruzione di regole formali da controbilanciare con la deferenza alla religione di Chiesa, unica depositaria di valori. È stupefacente che questa tesi sia condivisa anche sulla grande stampa e all’interno del sistema mediatico da chi, fino a ieri, si dichiarava laico.
Naturalmente, le difficoltà che la laicità incontra oggi, non dipendono dalla determinazione con cui la gerarchia ecclesiastica usa la congiuntura politica e la ricattabilità culturale della nostra miserabile classe politica. Le difficoltà sono oggettive, sono dentro all’incertezza, alle difficoltà di comportamento di milioni di uomini, di donne, prese tra il bisogno di un sicuro orientamento morale e il desiderio di mantenere la propria autonomia di giudizio e di scelta.
La serietà obiettiva delle questioni sul tappeto, che investono l’idea delle unioni familiari, la problematica dell’aborto, l’espansione delle biotecnologie, in generale, le complesse questioni delle natura umana, sembra aver colto in contropiede il pensiero filosofico scientifico laico più riflessivo. Almeno nella sua capacità comunicativa. Quindi, vedete, una fortissima autocritica dei laici. Capite perché il discorso lo sto facendo idealmente a un altro pubblico, ma è un modo indiretto di dialogare?
Cominciamo, appunto, dalla questione della sfera pubblica e della rivendicazione della religione, che nel nostro paese coincide interamente con le posizioni ufficiali delle Chiesa cattolica. Lei prima alludeva alla Germania. Ma se la Germania non avesse una doppia cultura teologica, con una simpatica competizione, non sarebbe così.
Voi sapete che l’origine dei nostri mali è la monocultura cattolica controriformista. Il fatto che sia una vecchia tesi non vuol mica dire che non sia vera, eh! Certo i tedeschi, tra l’altro, hanno una cultura teologica. Questo è paradossale: alcune volte faccio saltare sulla sedia i miei amici, specialmente torinesi: “Dobbiamo diventare competenti in teologia? Sì!”. Fu un errore colossale nell’800, nella congiura tra anticlericali e clericali, di chiudere le facoltà teologiche nelle nostre università. Infatti, sono terrorizzati i nostri cardinali che si studi teologia al di fuori del loro controllo. Questo è un punto su cui ritornerò. Proprio vedendo l’esperienza tedesca, è quando mi rendo conto della diversità. Bisogna rompere il monopolio della conoscenza clericale.
Comunque cominciamo dalle questioni attinenti la sfera pubblica e la rivendicazione della religione-di-chiesa di avervi accesso senza restrizioni. Da qualche anno si fa un gran parlare di questo tema, equivocando, non da ultimo nell’occasione dell’infelice incidente del mancato discorso del Papa alla Sapienza – che non è affatto da ascrivere a una pregiudiziale restrizione del ruolo pubblico della Chiesa. Quella è stata una fesseria delle autorità accademiche. In realtà, quando gli uomini di Chiesa italiani parlano di discorso pubblico, non pensano semplicemente all’utilizzo del sistema comunicativo mediale, che peraltro è a loro incondizionata disposizione: hanno in mente un’operazione mirata strategicamente, per tempi, modi, destinatari, a trasformare le loro indicazioni dottrinali in norme di legge che devono valere per tutti.
Ora, quando questo obiettivo viene mancato, scatta il lamento o l’accusa di esclusione della religione dall’ambito pubblico. È evidente, qui, l’equivoco di confondere la presenza nella sfera pubblica e mediatica, di cui palesemente la Chiesa in Italia non soffre, con la capacità di far valere senz’altro le sue dottrine presso la grande opinione pubblica e soprattutto presso la classe politica, in materia di politica familiare, di gestione della sessualità, sui temi scientifici di grande rilevanza, compresa – cosa di cui non si parla mai – l’insegnamento competente della teoria dell’evoluzione nelle scuole.
È chiaro che in questi casi non si tratta di sfera del discorso pubblico ma di discorso politico mirato alle deliberazioni politiche. Qui occorre far chiarezza. Dicono: “Non escludete Dio dalla sfera pubblica!”. Non esagerate a tirar dentro Domineddio nella sfera pubblica! Ecco questo è il vero problema: fargli dire quello che forse non vorrebbe dire.
Ecco allora la questione: questa situazione è normale per una democrazia o nasconde pericoli di distorsione? Detto in altro modo: nasce il legittimo dubbio se le pretese del riconoscimento identitario di un gruppo piccolo o grande – fosse pure maggioritario – non intacchi il principio della cittadinanza costituzionale. Cedendo a tentazioni comunitariste, cioè a forme di pressione o di ricatto politico, in nome di esigenze di una particolare identità di comunità che, nel nostro caso, è l’appartenenza a un’istituzione che è la Chiesa ufficiale.
Queste considerazioni, riferite all’Italia, superano ampiamente l’ottica entro cui si muove la letteratura filosofica e sociologica internazionale, che affronta il tema dello spazio pubblico della religione nel campo secolare. E mi riferisco ai sempre citatati John Rawls, Jürgen Habermas, che non a caso sono stati citati positivamente da Ratzinger nel suo discorso alla Sapienza.
Noi con il nostro provincialismo rispetto ai grandi… Non è che noi siamo indietro. Sì, siamo anche indietro, ma è una situazione molto particolare, che meriterebbe una riflessione molto particolare. Qui c’è tutto un discorso su Habermas che vi risparmio.
C’è un altro punto. È questo, mi piacerebbe che qualcuno di voi reagisse. La mancata presenza di motivi espressamente religiosi nel discorso pubblico della Chiesa, quando sono in gioco questioni di etica pubblica, che si spiegano con due motivi.
Innanzitutto, nell’ambito della dottrina cattolica è ancora ampiamente difeso e sostenuto il ricorso al diritto naturale. E quindi il discorso pubblico non va a sconfinare nei temi propriamente teologici. Ma c’è un altro motivo, che ritengo assai più importante, e che definisco senz’altro di un impoverimento teologico del discorso pubblico nella Chiesa.
Cioè, il consenso che oggi la religione-di-chiesa chiede agli italiani, non prevede alcuna specifica competenza teologica. Ciò che sta a cuore alla Chiesa è la rivendicazione del monopolio dell’etica basata sulla presunta naturalità o razionalità dei suoi argomenti e delle sue proposte. Il suo obiettivo non è l’edificazione teologica ma la determinazione di un’etica pubblica identificata, di fatto, con la difesa della famiglia naturale o della vita, collocata in una visione normativa indiscutibile.
Cioè, l’approccio etico-religioso oggi dominante mantiene sfocati, o semplicemente non detti, i riferimenti ai grandi dogmi teologici della colpa originale, della redenzione, della salvezza, che storicamente sono stati il fondamento della dottrina morale della Chiesa.
Oggi questi temi teologici sono diventati incomunicabili ad un pubblico religiosamente deculturalizzato. La dottrina millenaria della natura decaduta con il peccato, che ha sostenuto teologicamente le indicazioni morali tradizionali, viene tacitamente dichiarata obsoleta, ma senza dare spiegazioni. Ecco la contraddizione. Si diffonde una dottrina di cui non si hanno più i fondamenti teologici. Non so se pensate che sia così. Può darsi che sia la mia visione.
E allora, la teologia è interamente assorbita dalla tematica della vita, della natura, con modalità che rischiano di farla cadere in forme di bio-teologismo, di sacralizzazione naturalistica, carica di risentimento verso le scienze biologiche e le teorie dell’evoluzione. Faccio una battutaccia: s’è passati dall’idea del frutto del peccato – innominabile, che terrorizzava le nostre nonne – a una sorta di sacralizzazione di qualunque forma vitale. Non so se riesco a spiegare. Mi va bene; però il pensiero teologico, deve pur dire qualcosa. Ma non gliene frega niente della teologia. Ho l’impressione che ci sia proprio un impoverimento teologico. Però è una mia impressione, può darsi che mi sbagli.
L’unico riferimento teologico che resta è la creazione. Naturalmente presentato con molta cautela, rispetto alla creazione biblica. Su questo punto, però, anziché una traduzione del codice religioso in codice naturale razionale, come vorrebbe Habermas, c’è un po’ di fusione e confusione di elementi. Faccio un esempio: quando nel dibattito bioetico si discute dell’inizio biologico della vita umana, o meglio, della persona umana – che è qualcosa di diverso – oppure quando nell’esercizio del discorso pubblico politico è sollevata l’opportunità di correggere in modo restrittivo la legge sull’aborto, i cattolici in parlamento (anche la Binetti o Buttiglione), non introducono argomenti espressamente religiosi con riferimento alla natura intangibile della creatura di Dio. Dichiarano di argomentare in termini razionali, etico-naturali o addirittura scientifici. Invece, è ovvio che il richiamo diretto alla creazione divina sia parte consistente e determinante degli interventi pubblici degli uomini di Chiesa. Il risultato è che, nella sfera di comunicazione pubblica, i motivi razionali, presuntivamente scientifici, si mescolano a motivi religiosi. Anzi c’è una specie di interscambio della comunicazione. Non si capisce bene: ma sta parlando in termini squisitamente razionali o in termini teologici. No! Ci lasciano indeterminati.
E la cosa è tanto più importante in quanto, l’idea di creazione, è uno dei concetti più accessibili, intuitivi e umanamente comprensibili. E su di essa la Chiesa può ricostruire un’idea tutta positiva ma sottilmente bio-teologica di natura e naturalità. Rimuovendo d’un colpo gli aspetti più oscuri e controversi che, per secoli e secoli, hanno prodotto e accompagnato l’idea della creatura decaduta col peccato. Il paradosso è che gran parte dell’etica sessuale cattolica è costruito su questo assunto. Non so se riesco a spiegarmi oppure è una mia illusione. C’è questa strana contraddizione di un empasse nel discorso teologico che non riesce più a tenere assieme. Ma ripeto: la competenza teologica non è richiesta ai credenti.
Il laico può osservare in silenzio queste contraddizione della Chiesa. È noto del resto che in tema di creazione o di esistenza di Dio, le convinzione tra i laici sono molto indifferenziate. Io personalmente sono della posizione dell’ “etsi Deus non daretur” – che non è una forma subdola di ateismo, come pensano i cardinali. No, è fare un’operazione, certo molto audace, cioè distaccare il discorso di Dio dal discorso naturalistico. Alcune volte penso che noi dobbiamo tentare qualcosa di simile come nell’età galileiana. Come allora venne in qualche modo dissacrato l’universo – noi non ci rendiamo conto, ma fu uno shock che improvvisamente il cielo che era il luogo di Dio degli angeli, fosse uno spazio vuoto con dei sassi che giravano. Per noi è indifferente, ma fu uno shock ed è il motivo per cui la Chiesa e gli altri anche il Bellarmino hanno reagito.
Mi chiedo se qualcosa di analogo sta succedendo per la cosa più importante che è il nostro corpo, il bios, cioè staccare questi processi dall’idea di Dio. La butto lì. Perché come vedete ci sono dei laici che si pongono questi problemi di carattere, che io chiamo teologico, non so come dire.
Volevo dire qualcosa su questo Papa, sulla sua spiccata attenzione per quello che chiama logos, razionalità, però ad un certo punto si spaventa e torna indietro. Tra l’altro nel famoso discorso di Ratisbona, su cui si è sempre discusso per quell’infelice citazione di Emanuele il Paleologo, il vero discorso era sull’ellenizzazione e la dis-ellenizzazione del cristianesimo. Ho l’impressione che la maggioranza dei cattolici si fossero detti: “Ma di cosa sta parlando?”. Adesso dico una cattiveria: c’era il cardinal Sodano al suo fianco che lo guardava dicendo: “Ma di cosa sta parlando? Cos’è quella roba lì?”. Invece è una cosa fondamentale perché l’ellenizzazione è la prima forma di razionalità. Per esempio questo Papa ha sollevato questo problema, e poi? Boh!
Invece è fondamentale l’idea della fusione tra logos ellenico e il dato giudaico. Nel senso che questo papa – voi sapete, è sostanzialmente un professore di teologia – però solleva dei problemi che a me personalmente non dispiacciono, perché sposta il discorso là dove mi piace discutere: razionalità, ecc.
Sennonché lui, alla fin fine, a parte l’affascinante capitolo dell’ellenizzazione, cioè di come le nostre radici cristiane sono in realtà ellenistiche sono cioè greco-giudaiche – non le radici cristiane evangeliche. No, no! Noi nasciamo dentro alla fusione tra il pensiero ellenistico e il dato giudaico e sono in quello le nostre radici. Siamo anche un po’ ignoranti perché è un capitolo enorme…
Questo Papa, evidentemente, si è spinto, ha fatto alcune battute, ha scritto anche dei libri interessanti, ma poi il punto a cui arriva è la diffidenza verso la scienza: persino contro il povero Kant, lui fa delle battute. E qui devo fare, per forza, alcune considerazioni su questo punto.
Perché non è accettabile la visione che questo papa “razionalista” ha della scienza? Perché a un certo punto dice: “La scienza deve accettare, come un dato di fatto, la struttura razionale della materia; come pure la corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture operanti nella Natura”. Non ci siamo. Questo modo di vedere e di parlare metafisico… La metafisica è una cosa seria, tra l’altro, non è quella roba ridicola che si suppone sia stata cancellata.
Certo la metafisica è impossibile oggi, però pone dei problemi seri. E lui ha una visione metafisica, parla di struttura razionale della materia, di corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e ragione oggettiva della natura. A cui si collega, appunto, il dogma cristiano natura-creazione in codice ellenizzato.
Adesso vi dico una cosa che spero non sia offensiva: voi che vi considerate cristiani cosa capite del Credo nel primo quarto, nel primo terzo? E invece, voi sapete che per secoli, si sono scannati per definire delle cose che, oggi, noi non sappiamo esattamente cosa volessero dire. Ma perché? Questa è una cosa affascinante, di capire perché: noi ripetiamo queste formule e… boh! Noi usiamo queste formule caricandole psicologisticamente.
E allora, alla fin fine, per il Papa la ragione vera è quella che si proietta verso il trascendente, quella che si interroga su Dio, è la ragione della fede. Con questa premessa, non solo sono poste le basi del diniego del carattere scientifico di ogni teoria che non preveda la presenza del divino, come nel caso delle teorie dell’evoluzione di matrice darwinista. Nonostante la dichiarata soggettiva ammirazione di Ratzinger per la conoscenza scientifica, alla scienza viene disconosciuta di fatto l’autonomia logica e metodologica di cui sono rigorosamente immanenti.
La scienza lavora etsi Deus non daretur. Poi ci sono alcuni scienziati che si mettono a fare gli ateisti, pure quel simpatico giovanotto di Oddifreddi che pure fa della goliardia, va bene affari loro. A me non mi piace. Non a caso Binetti e Odifreddi sono lì tutti e due nel Partito Democratico. Sono esattamente due dogmatici. Sono speculari. Noi però siamo tolleranti… In realtà lo scienziato serio, come del resto il buon vecchio Charles Darwin, era molto cauto. Però la scienza, caro Papa, deve essere da sola, ad autofondarsi. Questo è.
Tensione tra fede e ragione. C’è poco da farci. Non c’è nessuna conciliazione. Per cui sembra paradossale: qui ci sono pagine e pagine in cui apprezzo questo sforzo che fa questo pontefice di introdurre il punto di vista razionale nella fede, però lo fa, di fatto, assumendo la metafisica – ripeto che è una cosa sacrosanta – ma che non possiamo più fare dopo Kant.
Io ricorderò sempre il mio maestro che ha detto una cosa che, quando si è ragazzi non si capisce bene, e poi quando si diventa vecchi, lo si capisce di colpo:“La filosofia o è metafisica o non è”. Infatti da allora ho smesso di fare filosofia.
Noi non possiamo più fare metafisica. Ci dispiace! Però, altrimenti si fanno le chiacchiere post-moderne. Ma meno male che è venuto il post-moderno! Perché c’è un deserto assoluto, non san più cosa dire, cos’è l’uomo, cos’è il mondo… Sono contento del post-moderno: il deserto che ha creato il post-modernismo! Non so se capite la battuta un po’ paradossale. Così possiamo cominciare daccapo. Fare domande metafisiche sapendo che non possiamo rispondere in termini metafisici. E la religione, la nostra religione cattolica cristiana è nata storicamente dentro questa cosa qui. Cosa può fare adesso?
Ma veniamo alla dimensione politica. La Chiesa cattolica – perché è l’unica del nostro paese… Extra ecclesia nulla vox. Salus in effetti non interessa nessuno. Nulla vox. La Chiesa cattolica ha abbandonato il tradizionale agnosticismo teologico verso le forme della politica. Si dichiara a favore del sistema democratico, laico, secolarizzato, ma con una riserva. La democrazia, infatti, dovrebbe riconoscere alla propria base, un deficit strutturale di valori che soltanto la religione, ovvero la tradizione religiosa – specificatamente cattolica – sarebbe in grado di colmare, offrendo al sistema democratico l’ethos di cui ha bisogno.
Quindi, effettivamente, è una novità perché per molto tempo la Chiesa era agnostica rispetto al sistema politico. Adesso accetta il sistema democratico, però… Però si deve riconoscere che gli manca qualcosa: i valori. E, naturalmente, ce li ha lei. Perché gli altri non ce l’hanno – chissà poi il perché!
Da qualche tempo a sostegno di questa posizione, si ricorre a una formula che diventata un assioma. Bellissimo però. Di un costituzionalista tedesco cattolico, non esattamente amico di Ratzinger, però un grosso personaggio: Böckenförde. Il quale ha detto, tanti anni fa: “Lo stato liberale secolarizzato vive di presupposti morali che non può garantire”. Bellissimo! Però va avanti.
Questa affermazione è stata coniata, quaranta anni fa, dal costituzionalista cattolico tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, diventano, perlomeno nella cultura costituzionalista tedesca un dictum, un qualcosa che si dice come ovvio. E sta diventando popolare anche da noi, non solo presso gli studiosi di diritto costituzionale, ma più in generale per chi, occupandosi dei rapporti tra Stato e religione, accredita alla religione la capacità di fornire quei presupposti prepolitici di cui lo Stato ha bisogno per forza. Ed è in questo senso che è stata ripresa con entusiasmo da alcuni uomini di Chiesa che parlano della religione, come fornitrice di ethos comune, per dare allo Stato i valori che non ha.
È pericoloso, perché poi si va a finire nella religione civile, si va a finire a ridurre la religione a una cosa funzionale. E allora ecco il discorso: per essere funzionale, non si deve parlare di cose teologiche. Si può soltanto parlare di ethos pubblico. Però naturalmente si può parlare solamente dalla famiglia e del sesso, mica di tasse, di povertà, no, no, no, no! Soltanto sesso, sesso e sesso. Una cosa vergognosa.
Però questa è la religione degli italiani. Bene. Non mi risulta che gli italiani abbiano un tasso di criminalità più basso che altrove, un tasso di solidarietà più alto che altrove, un senso civico più altro che altrove. No. Ma c’hanno la famiglia! Ecco la religione degli italiani. Scusate se lo metto sul teatro, ma capite cosa voglio dire? Se volete fare la religione civile, fatela fino in fondo.
Tra i due studiosi tedeschi che ho ricordato c’è Böckenförde e Habermas su questo punto…
Tra l’altro ho notato che… Io non credo che sia una mia fissazione. Io vivo e studio in Germania. In Europa le persone più interessanti sono tre tedeschi: Habermas, Böckenförde e Ratzinger, oggettivamente. Non solo, ma la cosa più buffa e che in Germania, in fondo, il pensiero teologico è quello più vivo e più vivace. La filosofia dorme. Questa è una cosa singolare. Però, può darsi che sia una deformazione mia.
Sappiamo con quanta enfasi le autorità della Chiesa insistono nel reclamare alle posizione religiose l’accesso senza restrizioni alla comunicazione pubblica, quasi che alle tesi motivate, o quantomeno congruenti con le dottrine religiose, basti la semplice e incontrastata esposizione pubblica affinché vengano accolte.
Ma obiettiamo: esporre le proprie idee nella sfera pubblica, non equivale automaticamente ad argomentarle con ragioni pubbliche, tali cioè che esse siano condivise da tutti i cittadini. In questo equivoco, invece, cadono spesso gli uomini di Chiesa: sono convinti, infatti, che il mancato successo dei loro argomenti sia imputabile a una restrizione della comunicazione. L’equivoco diventa ancora più insidioso quando si accompagna alla pretesa di rappresentare l’opinione della maggioranza dei cittadini, che dovrebbe essere sostenuta da normative di legge vincolanti, contro le pervicaci minoranze di laicisti e di cattolici immaturi.
Naturalmente, non bisogna idealizzare il dibattito pubblico, come luogo dove lo scambio di ragioni porta automaticamente al reciproco convincimento. Questo è un po’ il vizio di Habermas, cioè lui, in fondo, pensa che la società sia come un grande seminario universitario: ognuno dice le sue ragioni, vengono discusse… E’ diversa: non si deve idealizzare la sfera pubblica, perché nella realtà sociale e politica, al fondo di ogni confronto, in cui è implicato un forte investimento identitario, permane l’inconciliabilità dei punti di vista. Talora appesantita da un sospetto morale diffamatorio nei confronti degli avversari.
A partire da un certo momento, nella sfera pubblica, non c’è più ricerca d’intesa, ma dispiegamento di strategie, tese ad ottenere il riconoscimento delle proprie convinzioni, delle proprie rivendicazioni materiali o immateriali. È questa la situazione in cui stiamo di fatto approdando l’Italia oggi, dove cresce perfino il fastidio d’innanzi alla parola dialogo. Avete notato? Da qualche mese… Dialogo? Ma perbacco! No! Autoaffermazione, conta di voti.
Ma non mi scandalizzo. Questa costatazione non è altro che il riconoscimento della realtà e inaggirabilità del pluralismo delle visioni della vita e del mondo. Pluralismo che è garantito dalle costituzioni democratiche. Su di essa si fonda il processo della deliberazione politica, che produce leggi e norme valide per tutti, tenendo conto delle posizioni di ciascuno, secondo le proprie procedure di maggioranza e minoranza, delle corrispondenti garanzie, con il controllo di costituzionalità, nel rispetto del principio dell’intangibilità dei diritti fondamentali individuali.
Insomma la democrazia è una cosa difficile, ed è inutile illudersi. I cittadini avranno sempre visioni non conciliabili della vita, della morte, del sesso, della famiglia. C’è poco da fare. Allora la politica è il governo leale e sensato di questa pluralità. È inutile illudersi. È inutile illudersi. Sulle cose più importanti i cittadini hanno idee non conciliabili, però dobbiamo conciliarle tramite leggi. O fare delle leggi che non sono offensive rispetto agli altri. Questa è democrazia.
Che è una cosa importante e dura. Finalmente però siamo arrivati a capire cos’è democrazia. Non è pensare tutti uguali. È regolare, governare, rispettare la diversità. Dopo di che è chiaro che sul piano personale ci si può tentare di convincere ma poi di fatto è così. Questa è laicità. Laicità e democrazia, come vedete sono sinonimi, da questo punto di vista.
Solo su questo sfondo si può parlare anche di ethos comune e di etica pubblica. Ethos comune non è sinonimo di omologazione di valori, ma di convivenza di differenti punti di vista valoriali, di diversi ethos. L’etica pubblica ricompone tramite norme accettate, le differenti esperienze di vita dei cittadini. In questo modo l’etica pubblica non è altro l’espressione concreta della cittadinanza democratica.
Il laico ha una visione – ho citato sopra inseguire l’ethos comune come omologazione di valori. No. il laico ha una visione diversa. L’ethos comune consiste nella comunanza delle regole condivise. Lo Stato è laico proprio perché non pretende dai cittadini identità di credenze in campo etico religiose, ma reciproco rispetto e considerazione dei differenti convincimenti, sempre aperti al confronto. Il laico accetta una dissimmetria tra la moralità privata e l’etica pubblica. Ammette che i propri criteri morali di giudizio non coincidono, non esauriscono, i criteri di morali di giudizio di altri. E, soprattutto, evita valutazioni che diffamano moralmente, quando addirittura non criminalizzano, chi la pensa in modo diverso.
La diffamazione morale di comportamenti difformi, che non sono lesivi della libertà altrui, è virtualmente una minaccia alla democrazia. Quando tu consideri assassina la donna che sta al tuo fianco, io comincerei ad aver paura per la democrazia. Dopo di che, è chiaro, che ciascuno abbia le sue idee ecc.
Ribadisco che il laico deve tenere fermo il principio secondo cui il credente può esporre nel discorso pubblico, e quindi introdurre nel processo deliberativo, soltanto posizioni che, formulate in codice religioso o no, non limitano l’autonomia di comportamento degli altri cittadini che hanno convinzioni diverse o contrarie dalle sue.
Qui faccio un esempio. Non mi disturba personalmente che un credente nel discorso pubblico introduca l’idea di creazione, perché a me, poi, interessa dove arriva, cioè i diritti fondamentali. Che ai diritti fondamentali dell’uomo si arrivi con l’idea religiosa della creazione oppure con un ragionamento di carattere razionale illuministico: ciò che conta è dove si arriva. Poi, casomai, il problema diventa a chi imputiamo i diritti fondamentali dell’uomo.
Quindi non mi disturba, perché qui è il dibatto di oggi: fino a che punto devi usare nel discorso pubblico l’argomento religioso? Può darsi che sia uno pseudo problema. Sono le conseguenze. Se le conseguenza sono quelle di chiudere la bocca all’avversario, non mi vanno bene. Se invece, come nel caso dei diritti fondamentali, c’è una convergenza, benissimo.
Quindi il laico ha un compito importante che, appunto, lo dico qui, anche se poi… Deve sviluppare un discorso pubblico, dotato di forza persuasiva ed efficacia, pari a quello del suo interlocutore. Deve falsificare l’inconsistente obiezione che la laicità sia nel migliore dei casi una procedura o un metodo, mentre la religione offrirebbe contenuti di senso sostantivi. Va fermamente respinto il luogo comune, secondo cui, la percezione del mistero della vita, della contingenza, del mondo, l’emozione profonda davanti all’universo, il senso del limite dell’uomo, siano prerogative del sentimento religioso. Chi l’ha mai detto?
Il principio di contingenza è centrale. Perfino, a pensarci bene, l’evoluzione darwinista pensata fino in fondo, è affidata alla contingenza, che non è il caso. E quindi cos’è la contingenza? È un concetto a suo modo anche codificabile in termini ………
È sciocco scambiare come indifferenza, il senso di pudore che il laico prova davanti alla dignità della finitezza dell’uomo, che non ha bisogno di grandi retoriche sul senso della vita. Tutto è congruente con l’idea laica di democrazia, intesa come lo spazio istituzionale entro cui tutti i cittadini, credenti e non credenti, diversamente credenti, nei confronti dei loro argomenti, affermano le loro identità, rivendicano il loro diritto di orientare liberamente la loro vita, senza ledere il diritto degli altri.
E questo difficile equilibrio è garantito soltanto da un insieme di procedure consensuali di decisione, che impediscono il prevalere autoritativo di alcune pretese di verità o di comportamento su altri. Tutte le posizioni morali hanno pari dignità, quando sono pubblicamente argomentate, accolte e sottoposte al vaglio dei procedimenti democratici, nel caso in cui hanno rilevanza pubblica e richiedono di farsi vale come norme di valore giuridico.
La libertà di coscienza individuale e la sua autonomia non sono affidate a insindacabili valutazioni soggettive ma a motivazioni che sono aperte allo scambio di ragioni con gli altri, accolte con pieno rispetto. Ecco perché all’inizio ho detto la laicità è un criterio pubblico non privato: si deve argomentare. Poi, non è mica detto che riesci a convincere l’altro. Ma questa idea della pubblicità è molto importante.
L’intendersi e l’agire tramite procedure non è una formalità convenzionale, artificiosa, opportunistica, revocabile a piacimento, ma un agire performativo nel senso che impegna un comportamento coerente corrispondente. Impegna lealtà verso le norme legalmente definite, anche se non sono gradite soggettivamente. Questa è democrazia laica o democrazia tout court. Nel senso che, quando in essa si manifestano tendenze o convinzioni incompatibili tra loro ai fini dell’etica pubblica e dell’espressioni normative, non decidono le verità sull’uomo o la Parola di Dio – tra l’altro interpretata in modo autoritativo da un ceto che si ritiene autorizzato a farlo – ma le procedure che minimizzano il dissenso tra i partecipanti al discorso pubblico.
La verità, se vogliamo usare questo impegnativo concetto, è lo scambio amichevole di argomenti, nella lealtà reciproca di comportamento. Chi accetta questa impostazione, secondo me è laico, chi non lo accetta, non lo è.
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* Gian Enrico Rusconi è professore di Scienza politica presso l’Università di Torino. Editorialista de La Stampa di Torino. Collabora regolarmente alla rivista il Mulino. Tra le sue pubblicazioni seganliamo: La teoria critica della società, Il Mulino, 1968; Scambio, minaccia, decisione, Il Mulino, 1984; Giochi e paradossi in politica, Einaudi, 1989; Se cessiamo di essere una nazione, Il Mulino, 1993; Possiamo fare a meno di una religione civile?, Laterza, 1999; Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, Einaudi, 2000; Non abusare di Dio, Rizzoli, 2007.
** Pubblichiamo per la prima volta le sbobinature dei contributi presentati al ciclo di incontri “Libertà va cercando” (Firenze, novembre/aprile 2008), che tentò una riflessione a 360 gradi su libertà, fede e società. Sei incontri, a cadenza mensile, in cui testimoni del nostro tempo come il priore di Bose Enzo Bianchi, Gian Enrico Rusconi editorialista de “La Stampa”, Sergio Givone professore di Estetica, Mariagrazia Contini pedagogista, Luigi Lombardi Vallauri professore di filosofia del diritto e Elmar Salmann teologo presso la pontifica università gregoriana di Roma, cercarono di tracciare nuovi sentieri di vita e di pensiero.
Un’iniziativa ideata e voluta dal disciolto gruppo di formazione cristiana “Villa Guicciardini” di Firenze, composto da ragazzi dai 18 ai 35 anni, con la collaborazione dell’Ufficio Cultura dell’Arcidiocesi di Firenze e con l’aiuto inedito e non ufficiale di varie realtà cattoliche fiorentine. L’iniziativa allora ritenuta troppo aperta, da alcuni settori conservatori della chiesa fiorentina, non venne più ripetuta nonostante il grande riscontro ricevuto. Questa è la sbobbinatura degli interventi, curata dal gruppo Kairos per il gruppo di “Villa Guicciardini” di Firenze.