La mia esperienza di Parroco con le persone omosessuali
Riflessioni di Don Severino D’amico* tratte dal Bollettino Refo, Anno 4, numero 14, Sett. – Ott. 2001, p.9
Nel 1986 sono stato mandato a Siena perché mancavano sacerdoti. Il vescovo di Siena mi nominò prima come direttore della pastorale giovanile poi vista la mia apertura e la facilità a creare fiducia mi fu presentato un caso di un credente omosessuale che era stato mandato via in malo modo dal confessionale.
Pian piano parlando con questo ragazzo e in seguito con il suo compagno ho conosciuto altri ragazzi mi si è presentato un mondo che mi ha totalmente preso e appassionato.
Il cardinale Piovanelli (ndr ex arcivescovo di Firenze), persona molto illuminata, mi disse che era molto utile questo lavoro di pastorale anche se il servizio non poteva avere una dimensione pubblica. Nell’ascolto di tanti casi ho conosciuto un ragazzo che si prostituiva che mi ha aperto una finestra anche su questa realtà.
Per sette anni ho iniziato un servizio di pastorale di strada.
Il titolo di cappellano nel carcere, fornisce dal punto di vista civile anche la qualifica di ispettore che mi è stata di grande aiuto per quelle situazioni irregolari ad esempio con i ragazzi brasiliani o di altri paesi che avevano bisogno di permessi di soggiorno o di trovare sistemazioni più legali.
In questi ultimi due anni il lavoro è talmente cresciuto che si può dire che mi sono dedicato totalmente in questo settore di difesa dei diritti delle persone omosessuali, tralasciando progressivamente il servizio in parrocchia.
Spesso l’accoglienza richiede una grande capacità di saper elaborare la liberazione dal senso di colpa: il peso in queste persone è tale che la ricerca sulle cause che lo generano e le modalità di ascolto attivo in questo campo richiedono molte risorse personali.
Per eliminare nella società le fonti di discriminazione nei loro confronti, la chiesa dovrebbe a mio parere cercare di diventare meno contraddittoria in questa materia: ad esempio dichiara da una parte che l’ omosessualità non è condizione di peccato e dall’altra che è peccato commettere atti omosessuali. Non si può proporre una scissione nel comportamento o nell’identità, la chiesa non deve condannare ma costruire con consapevolezza e accoglienza.
Nella pastorale estremamente importante è la chiarezza anche in questioni così controverse come la sessualità. Lo sguardo etico soffre di un dogmatismo che non è vicino alle persone e alla loro fede.
Il rischio è quello di riproporre modelli omofobici o più generalmente sessuofobici. In carcere anch’io ho conosciuto pedofili, questa realtà non è quella che ci viene raccontata dai media, è tutta un’altra cosa, non deve essere confusa con l’omosessualità, spesso nasce in contesti dove esiste una scarsa chiarezza o confusione sul comportamento sentimentale, molte volte ha una dolorosa radice o storia di violenza alle spalle.
Spesso mi viene chiesto in dibattiti pubblici di dichiarare la mia identità sessuale, in tanti anni ho maturato l’idea che affermarlo per il mio lavoro pastorale non è molto importante, riguarda la mia identità, quello che mi viene richiesto è un impegno preciso nell’ ascolto e nel sostegno.
Quello che mi sento di dire è che quando una persona scopre l’amore e la sua condizione sessuale, scopre la libertà nell’espressione del suo sentimento e delle sue emozioni. Quando una persona si libera dal senso del peccato della sua condizione sessuale e da tutti gli ostacoli e gli atteggiamenti discriminatori che la società crea specie nei confronti delle minoranze sessuali, allora questa persona cambia profondamente diventando più serena e fiduciosa anche in una dimensione spirituale.
* Testimonianza tratta dagli Atti del III convegno nazionale della REFO “Quale pastorale per le persone omosessuali?” dell’ottobre 2000