Le parole dell’omosessualita’
Riflessione di Luca Pietrantoni tratta dall’articolo “Gli atteggiamenti psicosociali verso l’omosessualità” pubblicato sul bimestrale CredereOggi n. 116, marzo-aprile 2000, pp.7-8
“Frocio”, “finocchio”, “checca” sono alcune delle parole con cui spesso sono indicate le persone omosessuali o presunte tali. Parole che veicolano, a volte inconsapevolmente, un messaggio. Scopriamo quale…
La rappresentazione della società verso un suo fenomeno può essere compresa attraverso il suo linguaggio. Le idee e le opinioni, siano esse positive o negative, verso persone o comportamenti sono trasmesse attraverso la fondamentale forma di mediazione sociale che è il linguaggio. In tal modo, all’interno della rete sociale più prossima, dei media e della società, in maniera sottile e costante, avviene il passaggio di forme di conoscenza e di interpretazione da individuo a individuo, da generazione a generazione.
Il linguaggio ha la funzione di garantire la trasmissione culturale dei contenuti e delle idee su un determinato gruppo sociale. Con l’evolversi delle norme culturali e di costume sono cambiati i nomi per descrivere categorie, individui e comportamenti. Si può ad esempio esaminare la storia delle relazioni tra gruppi etnici attraverso i termini linguistici impiegati per definire i gruppi e i comportamenti associati.
Se pensiamo alle forme linguistiche che esistono per indicare una persona omosessuale, solo alcune sono relativamente neutrali nel significato che veicolano. La stessa parola «omosessualità» è nata in ambito medico-patologico e nell’arco dell’Ottocento è stata usata per indicare persone con comportamenti considerati devianti dal punto di vista della salute fisica o mentale. Le altre parole contengono impliciti o espliciti riferimenti a valenze di tipo negativo, a categorizzazioni capaci di marcare una profonda diversità rispetto a chi parla. Ricerche linguistiche hanno mostrato che il repertorio popolare nella lingua italiana su questo argomento è decisamente vasto e creativo, specialmente nelle sue varianti dialettali: è «un frocio», «una lesbicona», «un finocchio», «un arruso’», «uno dell’altra sponda», e così via.
Il dato interessante è che, nell’interazione quotidiana, i nomi e le offese di questo tipo non sono solo impiegati per definire una persona omosessuale, ma in generale per descrivere, o meglio derogare comportamenti poco accettabili o rifiutati.
Così capita di sentire, specialmente nel linguaggio gergale dei giovani, frasi tipo «si muove come una checca»; oppure succede di vedere gruppi di ragazzi che urlano «non fare il finocchio!» di fronte a un ragazzo che non assume comportamento marcatamente virili, o «lesbica» a una ragazza reticente nelle relazioni interpersonali.
Si ritiene, a detta degli psicologi, che i bambini iniziano ad usare parole derogatorie rispetto all’omosessualità fin dall’età di 8-10 anni. Si immagini il processo di apprendimento di un bambino che sente ripetere con sistematicità espressioni di questo tipo. Ancora prima di capire che la parola «frocio» indica una persona che ama un’altra persona del suo stesso sesso, il bambino saprà che descrive qualcosa di profondamente indesiderabile. Anche se non avrà mai conosciuto una persona omosessuale, sarà portato ad aspettarsi delle persone dalle condotte devianti e riprovevoli e cercherà di evitare con il proprio comportamento tutto quello che può richiamare questo tipo di offesa.
Le scelte di tipo linguistico hanno un impatto notevole sul modo in cui il gruppo sociale così denominato viene percepito in termini sociali. Spesso il parlante ha a disposizione diverse opzioni linguistiche per riferirsi a una stessa realtà ma queste non sono equivalenti in quanto evocano associazioni semantiche differenti. Dire «un finocchio» o «un ragazzo gay» produce associazioni e valutazioni molto diverse anche se il significato è parzialmente sovrapponibile. Nel primo caso la persona è svalorizzata nella sua individualità, unicità e complessità poiché è descritta attraverso un processo di etichettamento e reificazione.
Se un individuo usa un’etichetta linguistica dal marcato valore denigratorio per descrivere una persona, il termine è in grado di indurre in maniera automatica associazioni negative ed evocare situazioni spiacevoli e influenzare l’interazione sociale.