Le persona omosessuale che mi hanno fatto crescere
Testimonianza inviataci da Daniela
Non sono omosessuale. Perché questa precisazione? La risposta potrebbe sembrare ovvia: perché in questa sezione si raccolgono le testimonianze di credenti omosessuali. Chi non lo è, non dovrebbe scrivere qui. Lo so. Eppure, provo egualmente un certo disagio. Mi sono infatti sempre percepita una donna e, prima ancora, un essere umano completo, un mosaico formato da tanti tasselli.
La sessualità costituisce uno dei tasselli del nostro personale mosaico: certo importante, ma non necessariamente il più importante; sicuramente, non l’unico.
Da piccola, ricordo che amavo i miei genitori, la nonna, i cugini, le amichette, un gatto, una pianta semplicemente perché esistevano, li trovavo di fronte a me nella loro inspiegata e inspiegabile bellezza.
Così li vivevo, in un caleidoscopio di colori diversi e di irripetibile armonia. Vicini di casa o provenienti da lontane contrade. Nella mia scuola c’era una bambina originaria del Bangladesh: una deliziosa fanciulla dalla pelle ambrata, un profumo d’esotico in cui riconoscevo i primordi umani.
Avvenne lo stesso quando, ragazzina, conobbi la prima coetanea “omosessuale”. Si trattò, per me, della prima “rivelazione”, della scoperta d’un mondo che non credevo esistesse per il semplice motivo che, secondo il mio modo di vedere, il mondo era uno, per tutti.
E consideravo M. soltanto la mia compagna di banco. A volte tenera, a volte insopportabile, lunatica, caparbia e delicata, ingenua e stupefatta, maliziosa e innocente. Come tutti gli adolescenti che si affacciano alla vita. A quei tempi – parlo della seconda metà dei ’70 – ero piuttosto timida; mi dispiaceva ferire le persone, specialmente quelle che mostravano un particolare attaccamento per me.
Non che sapessi definire l’amore, ma l’avevo provato per qualche coetaneo, ed era bellissimo: insomma potevo immaginare come ci si sentisse a non esser ricambiati. A me dispiaceva quindi non poter ricambiare l’amore che l’amica nutriva per me; in compenso le assicurai che il mio affetto non sarebbe mancato. In lei, nulla mi sembrava strano o empio. Purtroppo, ben presto, mi accorsi che gli altri la pensavano assai diversamente. Fu uno shock per me, anche perché fino a quel momento mi consideravano quasi un modello da imitare: disponibile, brava a scuola, e al tempo stesso compagnona e sanamente “casinista”.
Ma adesso no. Adesso mi lasciavo “traviare” da una “poco di buono”, da una che “mi avrebbe rovinato tutta la vita”. Non avrei più dimenticato quelle gravi parole pronunciatemi da un’altra compagna. E i professori sembravano assecondare i sentimenti più comuni.
A qualche mio compagno, meno brillante ma molto invidioso, non sembrava vero poter scalfire – quasi dissacrare – la mia immagine “immacolata”. Avevo smesso di essere la preferita dei prof. Mi si guardava storto.
E non riuscivo a capire perché: semplicemente, avevo un’amica in più, che gli altri però consideravano inguaribilmente diversa, una paria. Mi domandai: devo allontanarla? Ma non riuscivo, non vedevo in lei niente di così terribile e pericoloso. Ero forse diventata cieca?
Cercai conforto nella Chiesa. Mi era sempre stato insegnato che Gesù era vicino agli afflitti, ai tribolati, ai perseguitati. La mia amica mi pareva appartenere a quella categoria, continuavo a ritenere immotivata la sua esclusione. Cominciai a informarmi circa questi strani personaggi definiti con un nome difficile, omosessuali. Anche se, a nel linguaggio comune d’allora, si ricorreva a ben altri epiteti.
Enorme furono lo sconcerto, e la delusione, quando appresi che nemmeno la Chiesa aveva parole di conforto per loro. Al contrario, era esplicita nella condanna con termini semmai più duri di quelli utilizzati dai professori e dai miei compagni. L’idea generale era che fossero dei viziosi. Continuavo a non capire: la mia amica non mi sembrava affatto tale.
Ma all’incomprensione iniziò a subentrare la rabbia. Perché avrei dovuto scacciare chi non mi aveva molestato in nessun modo, e non mi sembrava malvagio né empio? Più semplicemente, non tolleravo che dei miei amici venissero maltrattati quando non avevano alcuna colpa personale, ma nemmeno un limite o un handicap; io non mi domandavo perché fossero “così”, lo erano e basta.
E scopersi, così, che un aggettivo valeva più di un nome: M. non era più M., ma principalmente la lesbica M.; io, non più Daniela, ma l’eterosessuale Daniela – che si stava perdendo -. Svanito il mosaico, diventava più importante il tassello. La parte per il tutto. Così ragionavano le persone “equilibrate” e “normali” – altra parola d’ordine che cominciai a udire con una frequenza ossessiva.
La seconda “rivelazione” coincise con la nascita della mia passione per la musica. Studiavo pianoforte ma, come tutti i miei coetanei, cominciavo a nutrire interesse per gli artisti pop del momento. In quel periodo non avevamo che l’imbarazzo della scelta: anche in Italia, gruppi e cantautori erano al massimo della creatività e le provocazioni – culturali, sociali, artistiche – di questi autori rappresentavano per i giovani uno stimolo continuo, una sfida per il futuro.
Avevo già fatti miei i vari Guccini, De Gregori, De André, Bennato, ma uno solo, un isolato, un “incasellabile”, riempì presto il mio immaginario artistico-culturale rispondendo, anche, a mie domande ancora inespresse: Renato Zero.
Allora esilissimo, irriverente, sfacciato, provocatorio, un capolavoro di glam e di follia, il giovanotto nudo, come in seguito l’avrei chiamato, portava avanti una protesta tutta intima dove il sesso celava una spiritualità inattesa, primigenia, da bimbo ferito.
Non ebbi dubbi, anche prescindendo dai travestimenti, del contenuto omosessuale dei suoi brani; ma ciò che mi colpì fu l’universalità e l’afflato riconciliatorio, la tensione all’unità e alla comunione, che contenevano quelle canzoni.
Insomma Renato, il “diverso” e scandaloso Renato, cercava di ricomporre il mosaico che la società “normale” aveva smembrato. Non ci stava, a rimanere chiuso nella nicchia in cui l’avevano confinato; sapeva parlare d’amore, e l’amore aveva una lingua sola.
Che però ne comprendeva tante. Sì, in quelle canzoni si raccontavano anche i limiti e i rimpianti dell’amore “omosessuale”; ma quale amore umano è, in fondo, perfetto? E del resto, nella sua imperfezione, non c’è lo stesso un immenso fascino? Si poteva essere felici. Non solo: si doveva.
Attraverso la passione per lui conobbi altri omosessuali, soprattutto maschi. Grazie a loro imparai, per esempio, che fra uomo e donna può esserci anche amicizia.
In qualche modo servirono come ponti per avvicinarmi a un universo maschile presentatomi molto spesso come inconciliabilmente lontano da me. Ma non solo.
Essi avevano un messaggio in sé, un senso. In molti di loro trovai una spiritualità venata di misticismo. Mi insegnarono ad avere un rapporto con Dio più personale, adulto e maturo, meno legato alle convenzioni e ai riti, più attento all’ascolto e alla realtà umana di ognuno.
La terza rivelazione, sempre in quegli anni, fu un libro. Lo scarico edito da Savelli, piccola casa editrice indipendente e “rivoluzionaria” che gravitava attorno all’area della sinistra cosiddetta extraparlamentare.
Raccoglieva il diario-analisi di Marco e Maria, “adolescenti diversi del ghetto metropolitano”, recitava la prefazione. Marco e Maria appartenevano al sottoproletariato romano, erano poveri, erano dimenticati, erano omosessuali.
In effetti, personaggi di questo tipo li avevo già “incontrati” nei versi di Zero, e adesso mi rendevo conto che esistevano realmente, del resto neppure la sinistra tradizionale se ne occupava. L’intimo era considerato un problema “borghese”; quando, invece, l’intimità di Marco e Maria costituiva un preciso atto d’accusa anche nei confronti di quei partiti di massa che ragionavano, appunto, da e per “le masse” e non per i singoli individui, coi loro specifici problemi.
Negli anni ’70 l’omosessualità si coniugava spesso con gli incontri fugaci, segreti, spesso prosaici, o, viceversa, veniva ritenuta un raffinato trastullo delle classi agiate. Io, grazie anche a queste “rivelazioni”, potei comprenderla sotto un altro aspetto: un enorme punto interrogativo che interpella le nostre coscienze, che invade e permea l’intera società sotto molteplici aspetti: povertà e ricchezza, ansia di riscatto sociale e prima ancora umano, grido del diseredato, ma anche sorriso di libertà.
Non un mito, positivo o negativo che sia, ma luce e ombra del cammino terreno. Può diventare un trampolino verso una comprensione più empatetica del prossimo. E segna, al tempo stesso, il nostro irriducibile limite. Oggi per “gli omosessuali” – speriamo, presto, senza più aggettivi – le cose sono molto cambiate. Oggi essi elaborano un discorso di fede.
E anche se la Chiesa ufficiale continua a tener loro chiuse le porte, nondimeno piccoli squarci di luce, tentativi d’avvicinamento, qua e là s’intravedono. E ognuno cerca di capire almeno le ragioni dell’altro. Io continuo a coltivare amicizie con persone etero e omosessuali. Quando si tratta di costruire qualcosa di bello e di positivo, per noi, per la pace, per l’eguaglianza, per la Chiesa, cerco di portare il mio contributo assieme a loro.
Insieme si tenta di instaurare un dialogo anche con chi ha sensibilità diverse, in sincerità, per cercare di ricostruire quel mosaico di vite e di corpi che sta alla base del nostro essere uomini e donne, e che è l’essenza del cristianesimo.
Il quale – come afferma un mio amico sacerdote – non è una religione, ma un evento, un fatto concreto, un Dio incarnatosi nella storia, che ha accettato la sfida della nostra finitezza