L’esperienza dei gesuiti cileni nella pastorale con i cattolici LGBT e i loro genitori
Brano tratto dal libro di Carolina del Río Mena*, ¿Quién soy yo para juzgar? Testimonios de homosexuales católicos, Editorial Uqbar, Santiago (Cile), anno 2015, pp.245-248, liberamente tradotto da Dino
Uno dei grandi ostacoli al progresso nell’inclusione delle persone omosessuali è la scarsissima conoscenza di questa realtà. Abbiamo una letteratura sufficientemente abbondante, più estera che nazionale, ma abbiamo scarsa conoscenza di testimonianze, scarse esperienze di persone gay o lesbiche. E siamo pieni di pregiudizi e di stereotipi. Il peccato, la peste, la malattia, l’immoralità, la perversità, la promiscuità, ecc. sono i primi concetti che sorgono in noi parlando di omosessualità. Ed è per questo che ci risulta tanto difficile! Tuttavia ci sono persone che hanno avuto il coraggio di sfidare le loro paure e i loro pregiudizi ed hanno deciso di opporsi agli stereotipi.
Pedro Labrin (53 anni) e Pablo Romero (38 anni) sacerdoti gesuiti e Maria Eugenia Valdes (40 anni) religiosa del Sacro Cuore lavorano da un paio d’anni nell’accompagnamento di un gruppo di giovani -gays e lesbiche- nelle Comunità di Vita Cristiana (CVX). Pedro, più noto come Poroncho, è stato trending topic nelle reti sociali con la sua discussa apparizione in Tolerancia Cero (una trasmissione televisiva cilena) nell’aprile 2012.
Quando venne invitato, come un buon figlio della sua Chiesa, avvisò il suo superiore provinciale e il suo vescovo. Avvertì il primo con una email poichè in quel momento si trovava fuori dal Cile. Chiamò invece al telefono il secondo e gli disse che avrebbe presenziato la sera stessa al programma televisivo. Fu una conversazione amabile, ricorda, finchè il vescovo lo avvertì che doveva ricordare “di essere un sacerdote gesuita e che questo fatto determinava il tenore delle mie risposte, di modo che dovevo essere consapevole che se avessi azzardato opinioni personali mi sarei messo in una posizione difficile. ‘Accidenti’ -dissi- è una situazione complicata”. E in effetti lo era davvero.
In quell’occasione divennero evidenti non solo le sue personali limitazioni, ma anche l’enorme limitazione istituzionale della Chiesa: “Mi trovavo lì, in questa tribuna di fronte a queste domande dicotomiche se è peccato o non è peccato. Dicendo sì avrei tradito il mio popolo. Dicendo no avrei tradito l’autorità. La pantomima che ho fatto ha per lo meno consentito che i miei compagni gesuiti si sensibilizzino nei confronti di questi argomenti e che qualcuno di essi si metta a studiare, si apra e cerchi risposte“.
Il problema affrontato da Pedro Labrin è piuttosto comune e lo sperimentano tutti quelli che si impegnano con gli emarginati di questo o di qualche altro secolo, ma che allo stesso tempo vogliono continuare ad essere fedeli al Magistero. E nel caso dell’omosessualità si assommano l’ignoranza e i pregiudizi personali e della collettività. Chi si è avvicinato al mondo omosessuale ha dovuto in primo luogo correggere il modo di guardare a questa realtà. Pablo Romero riconosce che questo processo per lui è stato molto faticoso:
Per molto tempo ho riflettuto esclusivamente a livello della moralità e mi mancava un contatto diretto con le persone. Ho amici omosessuali e sono consapevole di quanto mi sia costato rapportarmi con loro dopo il loro coming out. Ogni mia riflessione era stata piuttosto teorica e oggi so che la grande conversione della Chiesa non è intellettuale, ma psicoaffettiva. C’è una questione psicologica dietro ai nostri atteggiamenti riguardo a questo tema, collegamenti, giudizi, pregiudizi, ignoranza e incapacità di empatizzare affettivamente con realtà concrete, con coppie, con persone e vite concrete.
Per Labrin il processo non è stato diverso. A volte per l’impronta gesuita dello studio e per il rigore intellettuale, certo è che anch’egli si è avvicinato alla questione partendo da una posizione razionale e poi ha cambiato atteggiamento:
“Ho compiuto un processo evolutivo quasi misterioso partendo dall’ignoranza assoluta, dal rifiuto culturale, dal pregiudizio omofobico, per arrivare al rispetto, che oggi provo con totale naturalezza. Per me gli omosessuali sono poveri a causa del trattamento che diamo loro nella Chiesa, ma non sono poveri. Nel relazionarmi con loro non ho assolutamente un atteggiamento di paternalismo, ma una profonda solidarietà con l’ingiustizia che vivono e nella quale c’è una nostra grande responsabilità, e personalmente come uomo, non saprei dire se per le donne avviene la stessa cosa, mi riferisco al mio vilipeso genere, l’omosessualità è sempre una minaccia terribile per i maschi, per quelli che sono biologicamente e psicologicamente maschi”.
Grazie allo spirito che lo anima come cristiano, aggiunge, non può sperimentare una maggior sintonia con Gesù di quando si avvicina a uomini e donne che non sono inclusi nella comunità a causa di “strutture legali, di preconcetti superati, di fariseismi che preferiscono limitarsi ad un’idea astratta del dolore delle persone per non lasciarsi toccare dal dolore stesso”.
Per Maria Eugenia Valdés questo accompagnamento le ha portato una specie “di appendice“. Non era il suo proponimento, dice, la sua missione originaria. Questa era invece di lavorare nel collegio delle Suore Inglesi ed occuparsi della pastorale vocazionale della provincia. La Quena, come è conosciuta, si fece suora “perchè la Chiesa degli anni ’80 mi aveva catturata“. Vive a Puente Alto per essere più vicina ai poveri e finisce che quelli più emarginati con cui le tocca stare sono altri.
Sto con i più poveri di questa società. Questa pastorale degli omosessuali ha toccato quella corda di stare vicina a chi è più vulnerabile e anche un certo orgoglio della Chiesa di Gesù Cristo perchè è la Chiesa del trasgressore, nel senso buono del termine. Gesù fu un grande trasgressore, inserì nella comunità il lebbroso, i bambini, la donna, allora come posso fare anch’io qualcosa nel mio piccolo per vivere ciò in modo profondo? Ne parlai con la mia comunità e con la mia superiora e loro mi diedero il permesso.
Per Quena inoltre, quando una persona omosesuale si apre a raccontarle la sua storia, si riconferma la sua vocazione religiosa: “Quando una vita , con tanti tabù, tanta oscurità, tanto nascosta, si apre, è molto commovente. E questo non può non interrogarmi il cuore e ripetermi continuamente che devo essere ogni giorno un po’ più inclusiva”.
Questa pastorale, oggi chiamata della diversità sessuale (PADIS), non procede però soltanto grazie a religiosi. Chi sa bene e conosce da vicino il cammino dei genitori dei ragazzi che sono accompagnati da Pedro e la sua équipe sono Pilar Segovia (65 anni, sposata, tre figli, dieci nipoti) e Soledad Vial (62 anni, un figlio, due nipoti. Soledad Vial è morta nel febbraio di quest’anno in un incidente stradale, senza poter vedere la pubblicazione di questo libro). Entrambe sono diventate importanti supporti degli uomini e delle donne che affrontano la realtà dell’omosessualità dei propri figli e figlie.
LORO ESCONO, NOI ENTRIAMO NELL’ARMADIO
E’ piuttosto comune che quando un figlio esce dall’armadio, i genitori ci entrino. E questo processo è molto doloroso perchè si mescola col cammino personale che devono fare e con l’angustia di non saper come accompagnare il loro figlio, con lo stigma sociale, col rifiuto delle famiglie di origine, e con tanti altri fattori ancora. A metà del 2012 Pilar e Soledad cominciarono a riflettere su un sostegno per i genitori di giovani omosessuali che si riunivano in un gruppo della CVX. Su richiesta di questi stessi giovani che chiedevano aiuto per le loro madri, si riunirono per la prima volta nel giugno di quell’anno.
Pilar Segovia ricorda: “Mi chiamarono e mi chiesero: vorresti accompagnare questo gruppo? e questa domanda mi toccò il cuore… sentii che questo gruppo era così emarginato, così discriminato, così stigmatizzato, così ai margini della nostra società, che davvero io dissi: questi sono i poveri del Signore, che è accanto questi che Egli venne… allora, volendo servire il Signore, questi sono i luoghi attraverso i quali Egli cammina e io voglio camminare insieme a Lui. Fui molto coinvolta e pensai a Soledad dato che avevamo lavorato molto insieme“.
Pilar ricordò rapidamente la sua esperienza come professoressa della scuola Saint George. “Ho sempre lavorato con bambini, e stavo pensando a due di essi, a uno in particolare, e allora compresi che era gay. In quel momento mi resi conto che aveva un orientamento diverso, ma era un tempo in cui le conoscenze erano molto scarse. allora lo guardavo e mi chiedevo: cosa devo fare? devo parlare con la psicologa della scuola? con la direttrice didattica? non devo dire niente? cosa sarà meglio per questo bambino? lo starò forse etichettando?… Sto parlando della fine degli anni ’70, inizio degli ’80. Mi chiedevo continuamente quale fossa la cosa giusta da fare“. Cosicchè quando ricevette l’invito ad accompagnare questo gruppo, lei e Soledad si imbarcarono in questo compito.
Assistettero alla prima riunione sedici mamme. All’inizio venne letto un brano del Vangelo, Mc 10,46-52, in cui Gesù domanda a un cieco di Gerico, Bartimeo: “Cosa vuoi che faccia per te?“. Ed egli risponde: “Maestro, che io veda!”. Ciò che avvenne in seguito lo ricordano con affetto e ammirazione.
E’ stato sorprendente, emozionante, spiega Pilar, vedere nella prima riunione la solidarietà tra persone che non si conoscevano, l’amabilità sbocciò fin dall’inizio. “Le mamme stavano sedute in uno spazio in cui potevano condividere il loro personale sentire, parlare ed essere comprese, con libertà. Noi proponiamo che le riunioni siano un accompagnarsi mossi dalla fede, in un ascolto rispettoso e attento, dove non c’è critica, non ci sono commenti, non ci sono ricette, non ci sono consigli, solo l’ascolto e la condivisione dell’apporto di ognuno per sapere cosa di esso porta qualcosa in più e aiuta ad aprirsi alla vita. Chiediamo un grande impegno di affidamento, questa è terra sacra, al fatto che il Signore venne, a questa storia personale di ognuna con tutto ciò che questo significa“.
Soledad aggiunge: “Una delle cose che abbiamo imparato e per me è stato molto bello, è che qui non possiamo seguire regole, si deve vedere il processo che avviene nel gruppo, cos’è successo, che reazioni ci sono state, la resistenza e in seguito pianificare la riunione successiva“.
In questo cammino, che è iniziato soltanto con mamme, ma in seguito ha attirato vari padri, sono arrivati a delimitare tre grandi aree problematiche: gli stessi bambini e bambine e i loro processi psicoevolutivi, i genitori e il loro processo e il problema ecclesiale. Pilar e Soledad si limitano ad accompagnare i genitori, ma hanno chiaro che la questione ecclesiale è uno dei nodi più complessi che devono affrontare.
“La constatazione del dolore che i loro figli hanno vissuto, provocato da questa società, nella quale è inclusa anche la Chiesa, spiega Pilar, perchè il dolore dei loro figli diventa un dolore personale, costituisce la sofferenza che questo orientamento porta con sè: discriminazione, stigmatizzazione, emarginazione… Essi vogliono essere una comunità col nome di Chiesa, ‘siamo Chiesa’, dicono. Anche questo parla di questa comunità che ha figli che stanno gridando ‘per favore non prendetemi a calci, accoglietemi’. Lo trovo molto emozionante“. Anche i genitori, spiega, varie volte hanno manifestato il bisogno che sentono che venga riparato il dolore che hanno nel rapporto con l’istituzione, riparare le fratture, compiere passi di riconciliazione con la Chiesa che ha maltrattato i loro figli e pertanto, loro stessi.
Soledad e Pilar riconoscono di trovarsi in un luogo privilegiato non solo per accompagnare ma anche per essere testimoni dei processi personali. E la chiave, sostengono, è l’amore. “Amare di più i figli, spiega Soledad, abbandonare i tabù, progredire nell’evoluzione, questo è ciò che li muove. E’ stato di aiuto anche il fatto che qui si dica pane al pane e vino al vino“, possono fare domande su tutto quello che vogliono e ciò li ha stimolati a continuare a crescere, imparando.
“Abbiamo fatto interviste a 360° -dice Pilar- stiamo imparando al cento per cento, aprendoci a questo argomento“. Le due donne sono motivate dagli stessi genitori con le loro testimonianze, perchè “amano i loro figli -aggiunge Soledad- sono qui dietro di loro. Quando un papà si presenta al gruppo e dice testualmente: ‘voglio lottare per mio figlio fino alla fine’, o ascoltiamo una mamma affermare convinta: “se potessi tornare indietro vorrei ancora questo figlio così com’è“. Abbiamo mamme e papà che sono impegnati al cento per cento e che superano ogni carico che devono portare, omofobia, dolori, sconcerti, tutto per questo figlio che amano”.
Quando la Chiesa apre loro uno spazio, perchè questa piccola comunità è, indubbiamente, uno spazio di Chiesa, le persone sentono che c’è speranza, che le cose potrebbero essere diverse e cominciano a trovare il coraggio di far sentire la loro voce. Pilar racconta di una madre, agente pastorale, attiva partecipante nella sua parrocchia, che assistette ad una conferenza sull’omosessualità. “Ci raccontò che una relatrice parlò dell’omosessualità in termini molto discriminatori, censuratori, stigmatizzanti. Allora lei, che non si era fatta conoscere come mamma di un omosessuale, reagì e le disse che si trovavano nella Chiesa, in un salone della parrocchia e lei parlava in questi termini così negativi di un ‘settore dei figli di Dio’. La relatrice le rispose che lo faceva perchè aveva montagne di libri che avallavano quei concetti. E la mamma disse: ‘bene, io ne ho altrettanti che sostengono il contrario, che affermano che gli omosessuali sono nati così, questo è il loro orientamento’, fu molto duro per lei”.
Poi, in un’altra riunione, ricordano: “puoi trovare dei papà o dei compagni dei loro figli che parlano dell’omosessualità in termini molto duri, peggiorativi, discriminatori. Allora, questo genitore che in questo spazio non può presentarsi come mamma o papà di una persona omosessuale, trova invece nel gruppo da noi guidato uno spazio che lo accoglie, lo accompagna, lo comprende. E chissà che un giorno possano riconciliarsi con la Chiesa“.
Questo gruppo non offre niente altro che l’accoglienza e lo spazio fisico per la riunione. “Questa – chiarisce Pilar – non è una comunità CVX, noi ci limitiamo ad accogliere. Ci sono persone che da molto tempo sono lontane dalla preghiera, però si trovano qui e noi non chiediamo a nessuno se va in chiesa o a messa, e se ci dicono ‘sono nato ateo’, accogliamo con un benvenuto, questo è Chiesa“. E aggiunge Soledad: “ad ogni riunione arriva sempre qualche persona nuova. All’inizio erano le mamme, poi cominciarono ad arrivare i mariti, è stato molto bello. Si torna anche a vivere l’esperienza del dolore, pertanto il dolore è presente e non cessa di essere presente, ci potrà essere più pace, più speranza, potranno sentirsi parte di qualcosa, ma tutto questo percorre sempre una spirale, torna e ritorna su se stesso. Far germogliare i margini, questa è la nostra missione apostolica“.
Soledad spiega che quando i figli escono dall’armadio i genitori vi entrano perchè “c’è un periodo in cui ci si nasconde, ci si prepara ad affrontare ciò che arriva… fino a che si può cominciare ad uscire“. “Noi non possiamo spingere, dobbiamo seguire -aggiunge Pilar- dobbiamo accompagnare senza essere pressanti”.
Questa esperienza di accompagnamento non solo sta cambiando la vita dei padri e delle madri che assistono alle riunioni. Ha cambiato la vita anche a loro due. Soledad dice: “Mi sorprende come il Signore ci sta aprendo il cuore. Porto ad esempio la mia esperienza personale… Non avevo ben chiaro il tema dell’adozione, adesso mi è chiarissimo“. Pilar aggiunge: “Tutto questo mi ha convertito enormemente. Conoscere questo dolore, l’esperienza del silenzio, in una stanza buia, che va aumentando… Oh! mi tocca il cuore, sveglia tremendamente la mia solidarietà con gli omosessuali e le loro famiglie e imparo a progredire nella conoscenza, ad essere sensibile, attenta. Adesso dobbiamo dare testimonianza in Todo Mejora (movimento teso ad ottenere il benessere di bambini e adolescenti LGTB, compresa la prevenzione del suicidio e del bullismo), nelle marce, dobbiamo esserci“.
Soledad continua: “E’ stato eccezionale come ha cambiato la vita a noi due, questo fatto della conversione, come ti dico, ci ha messe di fronte allo studio, tutti i martedì dobbiamo riunirci per poterci confrontare con la gente, cercare qui e là, esaminare profondamente per poter apprendere, allora è come se si fosse trasformato anche in un senso grande di vita“. “E nella mia casa lo vedo -dice Pilar- mio marito ha una diversa sensibilità verso questo argomento, i mei figli anche, perchè è un argomento che improvvisamente comincia ad essere presente, comincia a rendersi manifesto e loro cominciano a conoscere attraverso ciò che uno sta condividendo.
In questo gruppo si parla di tutto, con libertà e rispetto”, spiega Soledad, “dei rapporti sessuali, delle discoteche, dei transessuali, delle checche, di tutto, perchè è necessario smitizzare, sono esseri umani come noi“.
Raccontano ad esempio che in alcune famiglie è capitato che due fratelli, uno omosessuale e l’altro etero, festeggino insieme il compleanno, “ovviamente arriva il momento dei balli, dei baci, e quattro coppie etero se ne vanno perchè non sono capaci di sopportare ciò che avviene accanto a loro e invece la mamma felice della vita li accoglie tutti, questo è un caso, spiace per gli altri, ma la mamma ha avuto l’appoggio di tutta la famiglia”.
Ci sono però altri casi in cui non avviene così. “Ci sono situazioni -spiega Soledad- in cui i fratelli hanno ancora difficoltà, altri in cui non sanno cosa fare perchè la sorella o qualcun altro della famiglia li ha invitati tutti a pranzo tranne quello che è omosessuale o se lo invitano, non ci può andare col compagno, ma tutti gli altri ci vanno con la compagna, ci sono migliaia di situazioni! Allora le mamme e i papà degli omosessuali si chiedono come trattare con uguaglianza l’omosessuale e l’etero”
“E c’è un’altra cosa – interrompe Pilar- fino ad oggi le mamme non osano avere col figlio omosessuale lo stesso comportamento che hanno con quello etero. Del figlio omosessuale vogliono sapere, ad esempio, che attività sessuale ha, ma non fanno questa domanda a quello etero, è molto complesso”.
MENO DOMANDE, PIU’ AMORE
Chi conosce ampiamente queste complessità è Maria Isabel Gonzales Trivelli, infermiera ostetrica, assistente della facoltà di Medicina dell’Università del Cile, che si occupa anche lei dell’accompagnamento di omosessuali, ma la sua attività è rivolta ai giovani. I seminari di couseilig e i laboratori (workshops) costituiscono una parte importante della sua vita. Come professionista della salute la sua preoccupazione per i giovani è focalizzata su di una sana esperienza della loro sessualità.
Maria Isabel, Mabe come la chiamano, ha constatato l’enorme carenza di reti di contatto tra giovani omosessuali. Molti di essi non hanno con chi parlare della propria sessualità o a chi esporre i propri dubbi.
Ai laboratori arrivano ragazzi e ragazze di Calama, di Concepcion, ragazzi che viaggiano per ventidue ore in un bus da Santiago per venire ad un workshop perchè sono soli, soli, soli. Ce ne sono altri, in quantità enorme, sepolti nelle università, senza uscire dall’armadio, senza che nessuno sappia del loro orientamento. Ero convinta che a vent’anni ormai tutti avessero completato questo processo di autoaccettazione; invece non è così! La quantità di ragazzi che stanno male perchè non hanno con chi parlare, trovandosi in un’università molto tradizionale, è impressionante.
La legge antidiscriminazione ha risolto, secondo Mabe, soltanto una piccola parte del problema. E’ stato importante anche l’Accordo di Unione Civile che entrerà in vigore nell’ottobre 2015. Ma le sembra che se non è accompagnato da politiche sociali che includano l’educazione sessuale, l’educazione sulla diversità sessuale, sia inutile. Secondo lei è imprescindibile convincersi che “questo è un diritto umano” e lo afferma con energia.
Non possiamo parlare di tolleranza, se ciò che si deve fare è generare la consapevolezza che ogni persona possa costiture un apporto per questa società, che nessuno debba essere discriminato per il suo orientamento sessuale, credo che questo sia vitale e che debba essere fatto fin dalla prima infanzia. Questa è l’unica forma possibile per far sì che le persone non abbiano conflitti a causa del loro sentirsi diverse, l’unica forma affinchè i genitori non provino vergogna e non si interroghino sul loro operato come genitori per il fatto di avere un figlio gay o una figlia lesbica e che tutti procediamo nella vita rispettando le nostre diversità, e non tollerandole.
I dubbi manifestati dai giovani, e anche dai padri e dalle madri, sono tanti. Tuttavia ce ne sono alcuni che appaiono nodali e che si ripetono costantemente. Confrontandosi con una persona omosessuale, gay o lesbica, sorge spontaneamente la domanda su come questa persona percepisca se stessa. Questo giovane gay si sente uomo o donna? E la donna lesbica si sente più donna che uomo? E allora Mabe spiega che un gay si sente uomo come qualsiasi uomo, ma prova attrazione sessuale e affettiva per un altro uomo, ma questo non significa che voglia trasformarsi in una persona di sesso opposto. Lo stesso avviene per le donne. Un’altra cosa è che “alcune persone possono essere più mascoline o più femminili, ma questo fa parte della diversità esistente nel mondo, che esiste anche nel mondo eterosessuale“.
Però Maria Isabel non sempre ha avuto le idee molto chiare. Come molti, era piena di pregiudizi, non sapeva quasi niente del mondo omosessuale.
Ho dovuto elaborare un mucchio di miti, a cominciare dagli stereotipi del tipo ‘tutti i gays sono effeminati, tutte le lesbiche sono mascoline‘, ‘i gays sono promiscui’, ‘sono ipersessuali’ ‘non possono avere stabili relazioni di coppia‘ e mille altri concetti di questo tipo. Ci sono altri errori che io non facevo, ma che alcune persone fanno, ad esempio associare la pedofilia con l’omosessualità… niente a che vedere! Questa cosa è tremenda, ci sono stati dei papà che mi chiedevano se ci fosse pericolo che il figlio maggiore gay potesse abusare del fratello minore. No! Finalmente tutti i papà avranno un luogo dove potranno dare una risposta a tutte queste domande.
“C’è poi una questione molto radicata riguardo all’infanzia” – sostiene Pablo Romero- “A molte famiglie causa disagio ed è di disturbo la visibilità dell’omosessualità, per un timore nei confronti del bambino, ma di cosa si ha veramente paura? La paura è che il bambino che vede lo zio omosessuale finisca per diventare omosessuale, lo imiti, questa è una grande paura, che è presente, ma è un errore. L’omosessualità non si imita nè si contagia“.
Uno dei problemi -a giudizio di Mabe Gonzales- è che ci sono pochissimi professionisti specializzati sul tema dell’omosessualità e, cosa più grave, si continua a considerarla una malattia. “Questa non è una faccenda di competenza degli psichiatri o degli psicologi, che sia ben chiaro. L’omosessualità non è una malattia. Ciò di cui questi ragazzini e queste ragazzine hanno bisogno è un accompagnamento nel periodo dell’adolescenza, della giovinezza, mentre assumono la loro precisa connotazione e si accettano, ma non hanno bisogno di psicoterapia salvo che abbiano una sintomatologia che riguarda la salute mentale“.
Nemmeno i professori sono preparati per accompagnare gli alunni che hanno dei dubbi riguardo alla propria sessualità e non solo, molti professori nascondono la loro stessa omosessualità per il timore di perdere il lavoro e per lo stigma sociale rappresentato dal sussistere di questa erronea associazone tra omosessualità e pedofilia.
A Maria Isabel sembra rilevante che “i professori possano uscire dall’armadio, che nelle scuole e nelle università possano uscire dall’armadio e siano dei referenti positivi, di questo abbiamo urgentemente bisogno, che il referente non sia Yerko Puchento (personaggio umoristico-caricaturale televisivo), che i ragazzi pensino che se uno dice gay non sia lui l’immagine di riferimento. Ovvio che nessuno vorrebbe essere come lui, ciò non sarebbe essere gay, sarebbe essere un pagliaccio“.
Parte del dramma omosessuale è costituito dal fatto che gli individui debbano passare attraverso un processo doloroso per accettare qualcosa che non è una malattia ma qualcosa che essi percepiscono come totalmente naturale, spontaneo. E’ drammatico anche che i papà e le mamme debbano discutere con i loro figli e con se stessi come genitori per qualcosa che non è un errore nè una malattia. Secondo Quena Valdés è fondamentale “parlare, tematizzare l’omosessualità che si verifica nella realtà della famiglia, perchè nella vita ciò che è tenuto nascosto finisce per diventare oscuro, potenzialmente soggetto ad essere riempito di molte fantasie. Renderlo apertamente manifesto dà invece la possibilità di conoscere una persona per quello che è, con le sue ricerche, con le problematiche che deve risolvere, con le sue domande, ma niente di più di questo. Credo che dobbiamo conoscere di più la loro testimonianza interiore“.
Quando si pensa alle persone omosessuali e alle loro relazioni sessuali, solitamente emerge prepotentemente un’immagine che viene rifiutata in modo netto: atti sessuali più o meno grotteschi, contro natura, aberranti. Ed è del tutto normale che sia così perchè siamo stati educati in uno schema eterosessuale. Tuttavia, a giudizio di Pablo Romero, è di fondamentale importanza… “dare un nome a questi rifiuti interiori, dire: questo mi turba non per ideologia ma semplicemente per come sono stato educato, questo è il primo punto. Il secondo è che conoscere la normalità di alcune relazioni omosessuali aiuta molto, non stanno tutto il giorno a letto, hanno una vita di coppia in cui ci sono discussioni e tensioni, c’è molta quotidianità. A me ha aiutato, e ho fatto progressi perchè prima mi provocava un certo rifiuto l’immaginarmi relazioni omosessuali e credo che questo atteggiamento vada sbloccato e lo si sblocca conoscendo coppie omosessuali e anche dando un nome a ciò che mi succede, ai motivi delle mie reazioni”.
Immaginare un figlio o una figlia che hanno rapporti sessuali, per i genitori di solito è causa di turbamento, anche nel caso di coppie eterosessuali.
“E’ molto difficile per qualsiasi padre o madre -spiega Mabe Gonzales- immaginarsi una situazione sessuale di un figlio o di una figlia, che sia etero oppure omosessuale, e anche l’inverso, cioè è molto difficile per un figlio immaginarsi una situazione sessuale di suo padre o di sua madre, poichè è territorio dell’intimità, non gli appartiene. Allora io dico ai genitori: toglietevi queste cose dalla testa, uno non va a pensare ai rapporti sessuali della figlia eterosessuale, immaginandosela in una situazione di coito, facendosi scorrere il film davanti agli occhi. Bene, perchè allora farlo con i figli gays e lesbiche?“.
Mabe e tutti gli intervistati ritengono che come società abbiamo fatto qualche passo avanti nella conoscenza della realtà omosessuale. Tuttavia è più quello che ancora non sappiamo. Rimane ancora molta strada da percorrere per liberarci delle etichette che storicamente abbiamo appiccicato all’omosessualità: peste, perversione, disordine, immoralità, malattia, promiscuità, peccato… e via dicendo.
L’accompagnamento realizzato da Padis è estremamente prezioso, ma possiamo fare ben poco se non lavoriamo sulla teologia che sostiene le nostre credenze, le norme e le idee su Dio. E qui zoppichiamo perchè sebbene la pastorale sia fondamentale, è necessario cominciare a apprendere e a sistematizzare ciò che pastorali come queste permettono di conoscere delle esperienze delle persone omosessuali e delle loro famiglie. Cosa ci insegnano? Cosa dicono oggi alla Chiesa?