Papa Francesco e le svolte della chiesa cattolica nel 2016
Articolo di Alberto Melloni pubblicato sul Corriere della Sera il 28 dicembre 2015
Il Tevere che per lungo tempo ha diviso una laicità esangue da un clericalismo pronto al compromesso non è più il fiume dirimente che fu per decenni. Oggi conta molto di più il Rio Bergoglio: quel rigagnolo sottile, tutto interno alla Chiesa cattolica, che separa chi pensa che il vangelo possa servire a fare politica e chi pensa che anche alla politica serva una Chiesa impregnata dal solo vangelo.
Francesco si è dato come compito di traghettare tutta la Chiesa cattolica da questa parte. E lo fa. Con lo spirito agonistico di chi anziché farsi scoraggiare viene motivato dai «colpi» della Banda Bassotti (in senso etico) che aveva sotto casa, dalla resistenza di chi nel collegio cardinalizio attende una rivincita conclavaria, dalla insofferenza di chi ha perso i telecomandi della curia, dalla banalizzazione non innocente di chi sui media racconta troppe sue «rivoluzioni», mettendo sullo stesso piano le sue scarpe e la sua teologia della sinodalità…
In questa operazione gioca un ruolo centrale la misericordia come luogo teologico: che il Papa annuncia alla Chiesa e che enuncia a classi politiche segnate, almeno in Occidente, da una straordinaria capacità di sottovalutare i problemi che le sovrastano. Le istituzioni democratiche che dall’Europa alle Americhe talora fabbricavano statisti, producono spesso figure voraci e modeste, comunque inadeguate a una guerra mondiale ancorché a capitoli. Le elezioni, che erano il sacramento delle libertà, trasformano, quando va bene, la volatilità delle minoranze di votanti in governi tenuti assieme dalla mancanza di un progetto di società. La diplomazia fatta da pochissimi giocatori su polarità orizzontali (est/ovest) è oggi stravolta da improvvise verticalizzazioni che legano Bamako a Molenbeek lungo i meridiani del denaro insanguinato non contemplati dai manuali delle emergenze.
In questo quadro si muove il ministero di papa Francesco. Al cui centro c’è una cosa alla quale tanti, nella Chiesa e nella politica, sono disabituati. Cioè il cristianesimo. Un cristianesimo così esercitato da sembrare facile, così severo da poter essere paterno, così duro da diventare dolce. È il cristianesimo di Francesco che disorienta chi cerca nel suo ministero quel che lui non vuole che ci sia. Convinto che il miglior rinnovamento della chiesa sia quello a norme invariate, Francesco ha fatto una sola capitale riforma, che è quella della predicazione — cioè dello strumento che ha fatto del Vangelo di Gesù il Vangelo su Gesù.
Negli ultimi due secoli la chiesa delle condanne aveva rinunciato alla via dell’annuncio per condannare tutto — la modernità borghese, il liberalismo, il capitalismo, il comunismo, la cultura dei diritti, eccetera. Anche a costo di consegnare il guscio reazionario di un cristianesimo senza fede a un Occidente senz’anima. Anche a costo di fare delle chiese locali i megafoni stanchi di un trionfalismo romano. Anche a costo di guardare con sospetto la leggerezza apostolica che riteneva superflua la missione fatta con una bisaccia per il vangelo e una per il potere. Anche a costo di perdere la propria conciliarità e la propria capacità di ascolto dell’altro — di Israele, delle chiese, delle culture.
Per Francesco la medicina della misericordia è il «balzo innanzi» profetizzato dal Concilio: è la bussola per trovare il Cristo povero nei poveri. La politica di Francesco è «prigioniera» di questo luogo teologico: la politica di Francesco è questa. Lasciarsi incontrare da tutti, ma solo lì: all’altezza del più piccolo, là dove la kenosis di Dio ha inciso l’inizio della grazia.
Per questo Papa guardare il mondo dal lato degli sconfitti e degli uccisi non serve a far del bene: quello lo fanno anche le «fabbriche» di opere buone che lucidano con una carità pericolosamente impudica il proprio marchio. Non è nemmeno un modo di suscitare sentimenti effimeri di bontà: quello lo fanno anche quelli che dei 700 Santi innocenti annegati l’anno scorso nel Mediterraneo ricordano solo Aylan il Siro, la cui foto ha sfiorato per qualche ora le nostre coscienze, così restie a lasciarsi sgualcire dal dolore umano.
Francesco cerca e trova (lo si vedrà in Sinagoga e in Chiapas nel prossimo gennaio) la prossimità al dolore effettivo del mondo, perché della misericordia che lì si attinge ha bisogno sia la chiesa sia un mondo slabbrato dalla paura, soffocato dalle polveri dell’odio. Governi, organismi internazionali e negoziatori sono avvisati: chi vuol incontrare l’incomodo globale che è Francesco è lì che deve posizionarsi, senza astuzie e senza arroganze.