“Noi siamo di Dio”. Parole, sogni e visioni queer
Testimonianza di Cristina del gruppo Kairós, cristiani LGBT+ di Firenze
“E’ tutto nostro e noi siamo di Dio” (Mite Balduzzi)
Nella condizione di marginalità e di mancanza di riconoscimento (civile, personale, politico) che il vissuto della propria sessualità queer spesso comporta, è confortante trovare una realtà in cui sentirsi com-presi ed in cui parlare una lingua comune, come sto sperimentando nel Gruppo Kairos.
L’accoppiata magica delle paroline “Cristiano” (vieppiù “cattolico”) e “LGBTQIA+” può essere ritenuto, da chi non si fa vicino alle storie delle persone, uno strano ossimoro, qualcosa che non torna, che perplime, che crea dissonanza cognitiva, che scandalizza.
Ad unire e a creare gruppo sono la fede, la gioia e le comuni ferite.
Ferite derivate da parole in eccesso od omesse, da gesti non ricevuti, da aperta ostilità, da una pazienza esercitata per tanto tempo con chi non comprende, dalla reticenza a mostrarsi, dalla mancanza di un’alfabetizzazione emotiva talvolta nostra, della propria famiglia, delle nostre amicizie.
Alfabetizzazione: penso alle parole e ripenso a quelle sentite spesso in oratorio, al catechismo, al pranzo coi parenti; ripenso alle espressioni più gettonate, quelle del parlar comune, quelle della chiacchiera di aggiornamento:
“hai trovato un fidanzato?”,
“certo, se ti vesti così, campa cavallo a trovar marito…”,
“quel nuovo ragazzo arrivato nel coro… beh, è la volta buona per te, mi sembra una brava persona…”,
“quando mia figlia mi porterà mio nipote…”,
Ecco, se il tenore è questo, è un humus di partenza un po’ poverello. E, ahimé, potenzialmente pericoloso. Sono puntine, spilli, però costanti.
Non mi viene comunicato che ci sia uno spazio per la mia espressione unica e irripetibile, da amata, da custode di talenti, da una i cui “capelli del capo sono tutti contati”.
Piuttosto il messaggio è: la via è stata quella, è quella, e quella rimarrà, nei secoli dei secoli, amen.
Ma noi, invece, rendiamo grazie a Dio, non per formula ma per potenza, per le sorprese inaspettate, per i doni così ben studiati per ognuno, che Cristo amante prepara. E lo si fa insieme, perché legati da vissuti simili e dall’anelito di quella Bellezza e di quella Potenza lì.
L’aspetto comunitario è una grande ricchezza, una scuola di lingue in qualche modo, dove ognuno intende farsi capire e capire chi sta accanto.
Nella marginalità, nel nascondimento, nell’omissione come attitudine difensiva, riuscire a dare un nome alle cose, a sé stessi, al proprio modo di essere e di amare è necessario; di più, è vitale. Porta un vento di liberazione, poderoso come porte spalancate verso il mare e insieme delicato come quando si contempla nel silenzio una candela e si sta, solamente.
Beati noi perché hanno detto “omosessuale” o “LGBT” alla messa e per dirne bene, per parlarne come ricchezza.
Beati noi, perché un amico un po’ reticente a chiedere alcunché della tua vita sentimentale un giorno ti dice “sì, dai, quella ragazza la conosci, quella che piace tanto a te”. Wow! Che bello non aver paura di farsi vicini e chiamare le cose con il loro nome.
E al contempo, mi chiedo anche se, fatta salva la necessità del giusto vocabolario sul fronte personale, sociale e politico, mi chiedo: alla luce di Cristo, si può andare oltre le parole e far saltare tutti i cardini, tutte le porte, tutti i recinti? Si può sentire una salvezza che non vede più “Giudeo né Greco; […] schiavo né libero; […] maschio e femmina, perché tutti [siamo] uno in Cristo Gesù”? E’ possibile? E’ prematuro? Può essere liberante?
Diceva Giuseppe Ungaretti: “ogni conquista nuova della conoscenza umana estende il mistero, rende più intenso il mistero. Man mano che noi conosciamo di più, conosciamo di meno”.
E se scorgessimo in noi un mistero, più grande delle parole che ci aiutano a chiarirlo, a indagarlo, a definirlo? Conteniamo moltitudini. Siamo moltitudine: appezzamenti distribuiti a loro piacimento nel nostro territorio; può esserci una Luce poderosa, talmente abbagliante da rendere indistinti e invisibili tutti i confini di questi campi? Persino quelli esterni, i nostri limiti estremi, per noi invalicabili? Io credo di sì ed è Gesù.
In una recente intervista di Paola Turci mi hanno colpito queste parole: “io non mi sono mai voluta chiudere, non mi sono mai sentita né etero, né lesbica, né bisessuale, né pansessuale: vivo quello che provo”. Adesso che mi dicono ‘ma tu sei lesbica’… boh, può essere, io sono solo innamorata della persona che ho sposato – che è una donna e lo riconosco, certamente – ma sto così bene, finalmente sento di aver fatto la scelta giusta”.
Ecco, con Cristo, nella libertà credo di potermi abbandonare all’inedito. “Può essere” tutto con Lui che tramite tutti e tutte agisce e viene a cercarmi proprio lì, dove mi conosce, dove sa come amo, con quale intensità, con quale tenerezza, con quali casini, con quale forza, lì dove capitolerò senza condizioni né fughe.
E chissà se potremmo dire, un giorno, quando queste non saranno più “questioni” da risolvere, o facili ideologie da strattonare a destra e a sinistra, o “irregolarità” in una chiesa che si definisce universale, chissà se potremmo dire, un giorno, che “non c’è più transessuale, omosessuale, lesbica, gay, bisessuale, pansessuale, perchè tutti siamo uno in Cristo”, infiniti misteri a noi stessi, in ricerca sempre, in Cammino con quest’Uomo sorprendente.