“Perchè Dio è maschio?”. Rita Torti e la sfida maschile al patriarcato
Intervista di Giuseppina D’Urso* a Rita Torti** pubblicata su Adista Segni Nuovi n° 24 del 29 giugno 2019, pp.12-13
Rita Torti, genovese di nascita ma parmense d’adozione, ha una formazione insieme storica e teologica. In tali ambiti si è occupata e si occupa di studi di differenza di genere, per cui collabora con tutte le realtà pubbliche e private interessate a elaborare e divulgare questi temi. Per il Coordinamento delle Teologhe italiane cura il blog “Il Regno delle donne” associato al portale della rivista Il Regno.
Vorresti brevemente presentarti ai nostri lettori
Ho 53 anni, sono nata a Genova ma da quando ne avevo 3 vivo a Parma. Qui ho studiato fino al diploma (liceo classico), vissuto in parrocchia e in Azione Cattolica, frequentato la Scuola di Teologia e conosciuto i miei primi maestri nella fede, in particolare alcuni presbiteri cresciuti nello spirito del Concilio.
All’Università di Bologna, nel corso di laurea in Storia contemporanea, ho conosciuto un ambiente che faceva tranquillamente a meno della dimensione religiosa e (le due cose non sono necessariamente legate) ho incontrato persone che non sono più uscite dalla mia vita; fra queste, il ragazzo che poi è diventato – e continua a esserlo da ventisette anni – mio marito. Abbiamo due figlie ormai grandi, che abbiamo accudito e educato sempre insieme, senza distinguere tempi, ruoli, incombenze “da maschio” e “da femmina”. E così è stato ed è anche per la gestione della casa e la conciliazione tra famiglia e lavoro.
Provieni da studi storici, cosa ti ha spinto verso interessi più teologici?
In realtà gli interessi teologici hanno preceduto quelli storici e in generale quelli culturali: fin da ragazzina ho sempre sentito la necessità di “rendere ragione”, a me stessa e agli altri, della fede che vivevo. Soprattutto all’inizio ho dovuto arrangiarmi da sola cercando libri e riviste un po’ sostanziose da leggere; poi, quando ho avuto un’età accettabile anche per gli altri, sono venuti i corsi, gli incontri, le conferenze, la Scuola di teologia.
Intanto avevo maturato anche una grande passione per la cultura, intesa sia come l’insieme dei saperi del nostro tempo, sia in senso antropologico, cioè l’intreccio di fattori materiali e simbolici, strutture e mentalità, conflitti e poteri in cui nascono, si esprimono e si formalizzano anche le esperienze di fede. Da un certo momento in poi, per me è stato sempre più impossibile pensare alla teologia a prescindere dalla cultura.
Negli anni dell’università mi sono resa conto che le discipline storiche, scelte a dire il vero un po’ per caso, erano proprio ciò che cercavo: perché la storiografia è una scienza che assume la complessità dei vissuti umani, non si ferma alla narrazione selettiva prodotta dai “vincitori” e non può sottrarsi al rapporto con le fonti, continuamente ricercate e criticamente interpretate. Non può essere tautologica.
Quelli sono stati anche gli anni in cui il mio interesse e le mie antiche domande sui rapporti tra uomini e donne (identità, differenza, discriminazioni, violenza, ruoli sociali) hanno trovato parola elaborata e prospettiva scientifica grazie agli studi di genere.
In ambito di Magistero cattolico la dimensione storica in teologia ha stentato ad avere un ruolo. Quale contributo invece può offrire tale dimensione?
Mi pare che ad avere difficoltà con la prospettiva storica non sia solo il magistero, ma in generale la maggior parte del discorso teologico e pastorale, soprattutto quando affronta o comunque implica idee sull’antropologia (cioè praticamente sempre). Se e quando la storia viene evocata, spesso è una storia usata in chiave apologetica, semplificata, piena di omissioni e non scientifica, per cui si fanno affermazioni che non hanno fondamento nella realtà o che usano il passato per motivare scelte che sono di altra natura (esempio recente, la questione delle diacone).
Si può capire perché questo accada: la storia è refrattaria alle generalizzazioni e la storiografia è anti-dogmatica per eccellenza, quindi difficilmente integrabile – a meno di non snaturarla – nei discorsi prescrittivi, che hanno un concetto diverso di “verità”. Ma proprio per questa sua “pericolosità” essa può farci un gran bene; soprattutto quando porta alla luce le esperienze dei soggetti non egemoni (le donne, ma non solo), svela le scelte e i volti di coloro che hanno stabilito centri e margini. Certo poi trarne le conseguenze non è indolore…
Quando nasce la tua collaborazione con il Coordinamento delle teologhe italiane?
Un giorno di molti anni fa scrissi una mail al sito del CTI chiedendo lumi sulla collocazione dello stupro, nel Catechismo della Chiesa Cattolica, fra le “Offese alla castità” insieme a lussuria, masturbazione, fornicazione (per me era, ed è, una grave assurdità logica, morale e “politica”). Da quella mail è nato l’invito a partecipare ai seminari del Coordinamento, e così ho incontrato persone che riconosco come mie maestre e sono diventate mie sorelle. Mi sono trovata finalmente a casa tra studiose che fanno teologia sapendo che né la vita, né la fede, né i saperi sono neutri, e che quindi la consapevolezza dei processi di elaborazione dei generi è una parte integrante e imprescindibile del discorso e della pratica ecclesiale.
Più avanti ho ricevuto la proposta di scrivere un libro su educazione e differenza di genere per la collana del CTI “Sui generis”, pubblicata da Effatà: è nato così il volume Mamma, perché Dio è maschio?. Poi le relazioni si sono infittite, l’amicizia si è consolidata e ho iniziato a collaborare in modo più continuativo, per lo più nell’ambito della divulgazione (le richieste di conferenze e interventi al Coordinamento sono sempre molte) e in quello delle pubblicazioni, compreso il blog “Il regno delle donne”.
Quali politiche ritieni siano opportune perché si superino i tanti pregiudizi e stereotipi che condizionano ancora la parità di ruoli fra uomo e donna?
Interpretando il termine “politiche” come “azioni nella polis per il bene comune”, a me pare che siano tante, collocate su diversi piani. Uno di questi è sicuramente l’educazione, perché il mondo adulto spinge continuamente le nuove generazioni verso modelli e ruoli che solo chi è in malafede può definire “naturali”. Qui le strategie possono essere diverse: è certo importante la linea dei contro- tipi (ad esempio nella recente letteratura per l’infanzia), ma credo che l’azione educativa, oltre che decostruire gli stereotipi, debba sostenere e accompagnare i percorsi soggettivi di libertà, che non sono mai in bianco e nero; quindi è necessaria anche un’interazione più articolata.
Ritengo poi fondamentale lavorare sui saperi, perché se a scuola continuiamo a raccontare la costruzione della nostra civiltà come prodotto solo maschile e non facciamo emergere, interrogandole, le discriminazioni agite dagli uomini verso le donne, difficilmente avremo uomini che non identificano più il proprio sesso con l’onnipotenza e l’onniscienza; quanto alle ragazze, se nei nostri programmi e nei nostri libri le loro antenate non ci sono, o ci sono solo come aggiunta nei box a parte, faranno molta più fatica ad affermare serenamente il proprio essere nel mondo e la legittimità del proprio desiderio e della propria libertà.
Lo vediamo anche nel linguaggio: le parossistiche reazioni avverse di fronte a parole italianissime come “assessora” o “ingegnera” ci dicono di uomini che non sopportano di veder nominata la fine dei loro monopoli e di donne che hanno interiorizzato l’idea per cui il maschile è la norma, e quindi nominare una professione al femminile significa sminuirla.
Sul versante delle politiche familiari, alle attuali retoriche e proposte di legge che riducono la donna a “fattrice” credo si debbano opporre pratiche di reale e paritaria condivisione e corresponsabilità fra genitori e una legislazione che le sostenga. Senza questo, sarà difficile intaccare le varie forme di gender gap, o pensare che per le giovani generazioni – e soprattutto per le ragazze – mettere su famiglia possa essere un’idea allettante.
Infine (o al principio) mi pare che oggi ci sia un grande lavoro per gli uomini, perché la maschilità è ancora molto vincolata a prospettive patriarcali (e non di rado misogine), e bisognerà che si arrivi a capire se è possibile un modo di essere uomini che non abbia bisogno, per dirsi, di inferiorizzare le donne o di isolarle nei santuari del focolare e della cura, in modo da delegare a loro queste faccende “da donne” e non trovarsele fra i piedi quando si tratta di costruire il mondo.
Che importanza possono avere le iniziative come il ciclo di conferenze sulla teologia delle donne a Reggio Emilia?
Sono importanti, come ogni iniziativa che mette a disposizione di un pubblico vasto gli studi e le acquisizioni delle teologhe, in cui si aprono prospettive nuove e inclusive e viene restituita alla tradizione dominante, che solo per artificio retorico è “neutra”, la sua parzialità sessuata, maschile. Per nuove relazioni tra uomini e donne si deve cominciare da qui.
* Giuseppina D’Urso è membro del gruppo Kairos – Firenze e volontaria dell’Associazione “La Tenda di Gionata”, nonché di Pax Christi Italia.
** Rita Torti è sposata, ha due figlie e vive a Parma. Collabora con realtà ecclesiali, scuole, enti pubblici e associazioni interessate ai temi della differenza di genere, curando incontri e percorsi rivolti sia alle figure educative adulte che a gruppi e classi di diverse età. Ha tenuto laboratori sulla differenza di genere all’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Sant’Ilario di Poitiers” delle diocesi di Parma, Piacenza-Bobbio e Fidenza e sugli stessi temi svolge attività pubblicistica.