Perchè sono arrivato al gruppo “La Fonte” di Milano?
Testimonianza di Enrico pubblicata su Acqua di fonte , Bollettino periodico del gruppo “La Fonte” di Milano, Marzo 2006, n.38, pp.2-5
«Vieni e vedi… vedi e fa’». Queste le parole di Gesù che mi risuonano nella mente nel momento in cui maturo la decisione di avvicinarmi alla riva della “Fonte” come una nave, una piccola barchetta che 25 anni fa ha lasciato il suo porto primigenio per avventurarsi nel mondo. Dopo un solo, primo intenso incontro, già sono invitato a fare qualcosa: raccontarmi.
Nel buttare sul foglio queste poche righe di me e nell’osservare il mio sorriso sul volto, accolgo questo invito con piacere, ma anche con un po’ di sofferenza, perché significa richiamare alla mente, sebbene in modo costruttivo, un piccolo calvario. Nonostante ciò, non temo di mettermi a nudo.
E’ presto detto il motivo principale che mi ha spinto: la voglia di amare, ma di Amare con la A maiuscola; la profonda, radicata certezza che sono figlio di Dio e che Lui mi ama. In che modo, con quali mezzi Lui mi ama? Lui mi ama attraverso il mio umano modo di amare e di volere bene.
Nella mia voglia di Amare, quindi, si possono trovare tante cose: la ricerca di un nuovo modo di essere un giovane gay, ovvero essere una persona a tutto tondo, la voglia di condividere con altri uomini come me un racconto ed esperienze di vita e di fede, il desiderio di mettermi più in gioco e di trovare, nella mia quotidianità, il senso di me stesso e dell’Altro. Ma veniamo alla storia…
I miei primi 25 anni di vita sono stati sempre accompagnati dalla figura di Cristo, sebbene con alterne vicende. Per anni ho navigato nella mia parrocchia sestese frequentando incontri, ritiri, coinvolgendomi negli impegni musicali e dei ‘grest’ estivi ed in mille altre cose, eppure sentivo di non essere appagato.
Mancava un tassello del mosaico, non era ancora venuto alla luce l’elemento più importante: il modo in cui io amo. So però di avere vissuto per molto tempo con una fede di facciata, un po’ superficiale, rituale, in cui Dio era qualcosa “di raccontato” più che Qualcuno “di conosciuto”, anche perché non andava appunto a smuovere il nucleo più intimo di me, al quale io stesso non sapevo ancora dare un nome.
Un verso di una canzone di Angelo Branduardi rende l’idea: “Si divide d’un tratto / da chi ha solo assistito / chi indicava la luna col dito / E ogni volta lo sciocco / che di vite ne ha una / guarda il dito e non guarda la luna”. Io ero lo sciocco in questione.
Verso i 18 anni è iniziata la crisi: cosa fare della mia vita? Chi sono? A Dio chiedevo: “Cosa vuoi da me?”. Cocciutamente fuggivo dall’ovvio, dall’immediatamente vicino e percepibile, per rifugiarmi in chissà quale certezza, per accondiscendere a chissà quale aspettativa o pseudo-vocazione. Certo tali aspettative non venivano dai miei famigliari e tanto meno da Dio stesso, ma tanto è che stavo per avviarmi ad un percorso di discernimento vocazionale presso i frati francescani minori, chiaramente al fine di entrare a far parte dell’Ordine.
Dalle tante e bellissime esperienze condivise con loro, avevo estratto la “certezza” che il mio futuro sarebbe stato quello della consacrazione. Poco importava il fatto che, dentro di me, altro reclamava a gran voce di venire alla luce, altre erano le pulsioni e le passioni. Eppure, attraverso le care figure di frate Emilio e di mia madre, Dio ha parlato e non ho commesso l’errore di una scelta sbagliata. Ma in cosa consisteva questo mio, personalissimo errore?
Era il fondamentale errore di non sperimentarsi, di non volersi conoscere, in fin dei conti di non voler crescere. Ho sentito spezzarsi qualcosa dentro di me, perché, piano piano, i tasselli dei miei desideri, delle mie fantasie più o meno audaci, dei miei affetti si univano e prendevano una forma che non capivo se mi piacesse oppure no; dopo il diploma, iniziando a lavorare, un anno prima di iscrivermi alla Facoltà di Psicologia, ho realizzato la mia condizione di omosessuale.
La grave frattura, però, è stata con Dio e la sua Chiesa. Per sette anni mi sono sperimentato sotto tanti aspetti: come studente, come giovane lavoratore, come essere finalmente “sessuato” che, a poco a poco, scopriva un mondo variegato, multiforme, più o meno nascosto e più o meno buio nella realtà di Milano.
Non sono stato però più capace di vivermi come oggetto dell’amore di Dio, ho allontanato radicalmente la sua presenza, eliminando (o credendo di farlo) tutto quello che mi aveva caratterizzato fino ad allora. Una sorta di indefinibile rancore mi aveva preso; lo scaricavo su Dio e i suoi (più o meno) santi servi.
Col tempo ho capito che in realtà riversavo quel risentimento su di me, anzi ne ero io stesso la causa. Ricordate la parabola del figliol prodigo? Io mi ci ritrovo molto. Testardo come un mulo mi allontano dalla Casa, mi butto nella mischia, in una vita frenetica, in conoscenze ed avventure aride ed effimere, anche se questa cocciutaggine, però, non è stata del tutto negativa: mi ha aiutato a scrollarmi di dosso quel po’ di vergogna di me che mi stava assalendo. Fatto sta che IO ero al centro di tutto ed, ovviamente, IO ero la mia sola guida. Bella fregatura…
Una volta di più non mi trovavo appagato da quella vita. Forse è stata un’esperienza comune a molti di voi; ci si avvicina al mondo gay con una certa quota di idealizzazione, immaginandosi quasi una specie di Grecia Antica, ma ci si scontra ben presto con un’altra realtà. Perlomeno questa è stata la mia esperienza.
Ho avvicinato dolore e sofferenza, profonda solitudine, io stesso l’ho provata: ho visto gli affetti divorati dalla paura dei legami e dalle mode, ho conosciuto il cinismo, ho osservato l’uomo perdersi nei labirinti di se stesso, ho visto aggirarsi la superficialità ed il consumismo come due bestie che divorano l’Amore. Ho usato e mi sono fatto usare, ho dimenticato l’accoglienza ed il potere “terapeutico” delle vere relazioni, ovvero quello di essere “servizio” per gli altri; questo è l’antico significato greco del termine “terapia”.
Ora, a posteriori, capisco con quale flebile ed impercettibile voce Dio mi stava parlando. Non potevo sentirlo, il mio Io parlava sempre! Eppure Lui mi stava guidando; anche nella notte più buia del cuore, Lui aveva una mano sul mio capo. In un certo senso, mi concedeva la libertà di perdermi, per poi aiutarmi a ritornare a Casa, e nel contempo alimentava una debole, pallida fiammella nel mio cuore.
Mi avvicino alla conclusione. Perdonatemi la prolissità, eppure sento che questo racconto è stato necessario per farvi capire l’importanza del mio approdo alla Fonte. Non so come andranno le cose, ma la gioia di avervi incontrato è grande. Devo ringraziare anche la cara Sr. Annunciata, che tanti anni fa mi aveva parlato dell’esistenza di questo gruppo di formazione. Ecco la parola chiave: formazione. Ho bisogno di crescere e condividere
la mia fiducia nell’Amore, di credere ogni giorno di più nell’Amore, di riavvicinarmi ora, per come sono, per tutto quello che sono e non sono, al Vangelo; per credere che essere persone omosessuali non significa solo sesso e moda, discoteche e politica, per credere che si possa vivere come una comunità, per credere che donare se stessi a un altro, anima e corpo, sia in questo mondo ancora una grande cosa.
Io non sono peccatore di fronte a Dio perché sono gay; sono peccatore quando non seguo la via dell’Amore pieno e sincero, prima di tutto con me stesso. Sono peccatore per tutte le volte che non mi sono voluto bene abbastanza, ma non sono peccatore se stringo tra le braccia un altro uomo e gli dico «ti amo», perché, se è amore vero e se io ho imparato il vero ed autentico significato del “mettermi in relazione con…”, Dio è con me in ogni caso.
E io Lo vedo… e io Lo canto.