Riconoscere il senso. La rivelazione come dono di Dio nel quotidiano
Riflessioni bibliche di Antonio De Caro*
[Un libro spaventoso?] L’aggettivo “apocalittico” viene usato, solitamente, in un senso negativo: vale per eventi disastrosi, come le catastrofi naturali che lasciano dietro di sé solo distruzione e dolore. Esso viene associato alla manifestazione di una potenza che soverchia e travolge la vita umana, come quella che – si immagina – alla fine dei tempi cancellerà il mondo come lo abbiamo sempre conosciuto e trasformerà per sempre le forme dell’essere. La fine del mondo, l’apocalisse, appunto.
Questa interpretazione dipende dal nome di un libro della Bibbia, che è l’ultimo del Nuovo Testamento e dell’intera Sacra Scrittura. Forse questa collocazione, oltre alle visioni presentate in esso, ha contribuito a fondare la convinzione che apocalisse significhi solo “rovina terminale”: la vittoria di Dio sulle potenze del male, l’instaurazione del Suo regno eterno di giustizia e di pace, che comporta comunque la sconfinata agonia della storia umana, prima della trasformazione universale in un mondo che non possiamo immaginare, e che per questo viene evocato solo attraverso suggestivi simboli e misteriose (o minacciose) profezie.
[La rivelazione: dono di una presenza] In realtà, però, apocalisse è una parola greca che significa “rivelazione”. Viene rimosso un velo, che nascondeva qualcosa di prezioso, o il volto di una persona importante ed amata. Apocalisse vuol dire aprire, illuminare, liberare, trovare un senso. Una sorpresa bellissima, di cui sentiamo di avere bisogno soprattutto nei momenti travagliati ed oscuri della nostra vita. L’esperienza di incontrare da vicino l’amore di Dio, che per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso dal cielo ed ha imparato a parlare il nostro linguaggio, a camminare per le strade del mondo come uno di noi.
La rivelazione è dono, incontro, abbraccio, conforto. È già avvenuta con l’incarnazione e con la sua epifania; è una benedizione, di cui abbiamo bisogno non solo alla fine, ma durante la nostra vita, come individui e come comunità di fede. Ecco perché non dovremmo averne paura. Nel libro dell’Apocalisse il Signore ripete più volte, come anche nei Vangeli: μὴ φοβοῦ, non avere paura (1,17).
Se il Signore viene (lui è l’ἐρχόμενος, colui che viaggia per visitarci, 1,8), possiamo solo essere grati di questo dono dell’incontro, che toglierà il velo alle nostre esperienze di tenebra e ci restituirà la speranza della luce. L’apocalisse è esperienza di παρουσία, cioè di una presenza che sarà, sì, piena e completa nel Regno di Dio, ma che ci viene regalata da Lui ogni giorno, anche prima della fine del mondo.
[Riconoscere il senso della Pasqua] Ecco perché il libro dell’Apocalisse si apre invitandoci non solo a non avere paura, ma anche a gioire, ad essere “beati”. Come non gioire dell’incontro con Gesù?
Adesso, nel cammino anche faticoso della vita quotidiana, che però fa memoria dell’evento pasquale proprio nel giorno del Signore (1,10), che ci dà il ritmo e il senso della nostra identità battesimale. Il testo afferma: μακάριος ὁ ἀναγινώσκων (1,3). Beato “colui che legge”; ma il participio greco significa in origine “colui che riconosce momento per momento”. Siamo beati se sappiamo riconoscere, rintracciare il passaggio di Gesù nella nostra vita, giorno dopo giorno, e se grazie a questa presenza sappiamo leggere la nostra vita come un processo che, grazie al battesimo, ci porta ad assomigliare sempre di più al Figlio di Dio che è morto e risorto.
Gesù ci rivela che Lui è “alfa e omega” (1,8): cioè non solo principio e fine, ma l’intero alfabeto della nostra vita. Gesù è la storia della nostra vita, e saremo beati se sapremo “riconoscere” e “leggere” il segno della Pasqua -come nell’eucaristia domenicale- nel tempo che Dio ci dona. Tanto è vero che l’Agnello sarà l’unico a saper “leggere il libro”, cio a dare un senso alla storia, dopo averne spezzato i sigilli (5,1-9).
[Lo stesso Gesù di sempre] Gesù è alfabeto e senso, proprio perché è il discorso (λόγος) dell’amore di Dio nella nostra vita. È Dio che sente il bisogno assoluto di donarsi e di raccontarsi, di trasmettere la Sua energia e la Sua vita.
Ecco perché nei capitoli 1-2 del testo dell’Apocalisse torna così spesso il verbo λέγει (come in 2,1). Gesù “dice” perché Lui è il λόγος, e a quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio.
C’è una coerenza profonda fra i testi giovannei: il Gesù dell’Apocalisse è lo stesso Gesù del Vangelo. Allo stesso modo, Giovanni dovrà trasmettere come testimone quello che vedrà, proprio come all’inizio della Prima Lettera l’apostolo dice che annuncerà quello che i loro occhi hanno visto.
[Un varco a portata di mano] L’apocalisse, quindi, non è (principalmente) la fine del mondo. Non è una celebrazione della potenza o della prepotenza di Dio. È, piuttosto, un’esperienza assolutamente coerente con l’incarnazione del Figlio, con questo Dio che ci visita diventando uno di noi, viaggiando nel mondo nomade come noi, nelle nostre tende (ἐσκήνωσεν, Gv 1,14).
È un Dio che si fa incontrare nel quotidiano, e che nel quotidiano vuole consolare le nostre debolezze e salvarci dai nostri peccati, con la stessa forza e la stessa dolcezza di quando era ancora sulla terra: è infatti lo Spirito (vero animatore del libro dell’Apocalisse) a rendere percepibile la Sua voce, a rendere attenti e sensibili i nostri cuori.
È proprio l’azione dello Spirito nella Chiesa: farci incontrare la presenza di Cristo. Questo è “rivelazione”: un’esperienza concreta, un varco dell’eternità nel nostro tempo, un καιρὸς che non è “lontano”, che non dobbiamo attendere dopo i secoli dei secoli, ma è qui, ἐγγύς, a portata di mano (1,3).
Lui sa che abbiamo bisogno di rivelazione ogni giorno, soprattutto quando il male del mondo rischia di offuscare il senso profondo della storia della salvezza. La vittoria di Dio, già avvenuta nella Resurrezione di Cristo, è il dono di questa rivelazione, la consolazione che può aiutarci, domenica dopo domenica, a entrare sempre di più nella speranza della Pasqua.
[Chiamati per nome, tutti] Da questa speranza nessuno è escluso. Le chiese che sono in Asia indicano tutte le chiese, poiché sette è il numero della totalità. Gesù chiama le chiese ciascuna con il suo nome e di ciascuna delinea l’identità, la storia, le risorse, la debolezza. Prima che noi possiamo riconoscere Lui, è Lui che ci conosce, e che ci ama anche quando ci fa comprendere la nostra incoerenza. Il messaggio è per tutti e per ciascuno; e a ciascuno Cristo rivela qualcosa di diverso di se stesso.
Lo dimostrano le presentazioni che per sette volte il Signore fa di se stesso, offrendo di volta in volta un aspetto diverso della Sua presenza e della Sua potenza (sono i capitoli 2 e 3 del libro). Lui ci conosce e ci ama personalmente, e viene per incontrarci nella nostra realtà quotidiana. È qui, adesso, che posso essere visitato e salvato, grazie all’incontro che mi chiama a convertirmi, cioè a “pensare oltre”, a vedere un mistero più grande dietro la superficie del mondo.
È adesso (cioè nel tempo ordinario della vita) che il Signore ci parla, è adesso che vuole ricordarci che il senso del cammino è un senso pasquale, è il dono di avvicinarci ed entrare sempre più nel Suo mistero.
[Le immagini dell’amore umano] Ma per operare questa trasformazione, Gesù sa che deve usare il nostro linguaggio, usare i segni della nostra esperienza, che è diventata anche la Sua, nel momento in cui ha scelto di condividerla per sempre. Noi non potremmo muovere un solo passo nel mondo di Dio se Dio stesso non avesse camminato nel nostro, non ne avesse assunto in pieno la semantica.
Per questo motivo, tutta l’Apocalisse è tramata di simboli che rimandano alle più profonde esperienze di amore della vita umana, come la maternità e il matrimonio.
Gesù è lo sposo della Chiesa, e uno sposo non può attendere la fine della storia per amare la sua sposa. La rivelazione è un dono fatto adesso, è un incontro che avviene adesso, è un continuo richiamo all’amore originario senza il quale la fede è solo una vuota e sterile routine.
Alla prima chiesa, quella di Efeso, il Signore chiede di ritrovare τὴν ἀγάπην τὴν πρώτην, il “primo amore” (2,4-5). Come un innamorato che ha bisogno di ritrovare, con la sua amata, l’emozione e l’energia su cui hanno fondato la loro vita insieme. Solo che il “primo amore” è quello di Dio per noi, manifestato in Gesù (1Gv 4,19).
Ritrovare il primo amore vuol dire innamorarsi di nuovo di Cristo, ritrovare le ragioni profonde della nostra relazione con Lui, abbeverarci ancora alla sorgente originaria. Ed è un invito sempre valido, per la chiesa di Efeso come per la Chiesa universale, chiamata ad essere sposa.
Questo vuol dire, oltretutto, che la “rivelazione”, cioè la manifestazione dell’amore di Dio che ci visita, passa anche per le nostre concrete esperienze di amore, di dono e di perdono.
Anche queste sono linguaggio di rivelazione, segni con cui Dio riempie la nostra vita orientandola a Lui, profezia e pegno di un senso più alto. In tutte le forme di amore autentico è prefigurato l’incontro con l’autore della Vita.
* Antonio De Caro (Palermo 1970) insegna Lettere nelle Scuole Superiori. Esperto di filologia e cultura greco-latina, ha svolto progetti di ricerca in Italia e all’estero ed ha pubblicato diversi contributi su diversi temi e l’ebook gratuito “Cercate il suo volto. Riflessioni teologiche sull’amor omosessuale” (Tenda di Gionata, 2019) . Fa parte dei gruppi Davide, per genitori cristiani con figli LGBT e i loro amici, e Spiritualità Arcobaleno per credenti LGBT, entrambi a Parma.