Tre percorsi per entrare nelle sacre Scritture
Riflessioni di Gianfranco Ravasi* pubblicata sul quotidiano “L’Osservatore Romano” il 24 gennaio 2024
Nei suoi Discorsi a tavola Lutero s’era lasciato andare a un’affermazione stizzita: «In Italia le S. Scritture sono così dimenticate che rarissimamente si trova una Bibbia». In verità ora, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II , questa osservazione non ha più riscontro nella realtà. La conoscenza biblica (oltre il mero possesso di un’edizione di testi sacri) si è sviluppata in modo significativo, anche se non del tutto compiuto. La liturgia, la catechesi, la spiritualità, la teologia sono profondamente alimentate dalle sacre Scritture. Dunque non è più possibile ironizzare come faceva negli anni ’50 del secolo scorso il poeta francese Paul Claudel, convinto che «i cattolici mostrano un grande rispetto per la Bibbia e questo rispetto lo attestano standone il più lontani possibile».
La riappropriazione, stimolata anche da una ricca bibliografia a più livelli e da eventi come la Giornata della Parola di Dio celebrata quest’anno il 21 gennaio, segue almeno tre percorsi. Il primo è la comprensione del testo attraverso l’esegesi e l’interpretazione. Infatti, come l’Incarnazione, mistero centrale del cristianesimo, comprende l’incontro in Cristo tra il Verbo eterno e la “carne” della storia umana («Il Verbo divenne carne», Giovanni, 1, 14), così la Bibbia è la Parola divina espressa in parole umane. Anzi, tutta la Rivelazione è storica. Cioè: Dio si manifesta non con tesi astratte teologiche ma, con la sua parola e azione. Si manifesta all’interno delle vicende dell’umanità. Si evidenzia negli splendori e nelle miserie, negli eventi gloriosi e in quelli tragici, in guerra e pace, come si scopre aprendo le pagine bibliche.
Per scoprire questa presenza divina all’interno del groviglio storico è necessaria quella verifica che è condotta appunto dagli esegeti con le loro ricerche. Ecco perché è importante l’esistenza di “Scuole” e “Studi” biblici. Citiamo quello francescano di Gerusalemme (incontratosi il 15 gennaio con Papa Francesco), o quello dei domenicani, sempre nella città santa, o come il Pontificio istituto biblico di Roma e le tante cattedre di esegesi e teologia biblica nelle facoltà e istituti di studi religiosi. In questa navigazione all’interno del testo delle Scritture bisogna evitare i due scogli del letteralismo fondamentalista o dell’allegoria spiritualeggiante. Il compito della corretta “esegesi” è appunto quello – come dice la matrice greca di questo termine – di «condurre (hegeomai) fuori (ek)» dal testo sacro il suo messaggio genuino.
Un secondo percorso è specifico del credente che considera la Parola biblica come «lampada per i passi e luce sul cammino» della vita (Salmi, 119, 105). È ciò che accadde ai primi cristiani che, dopo aver ascoltato la Parola, «si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”» (Atti, 2, 37). In questa luce si colloca, a esempio, la cosiddetta lectio divina. Essa fu coniata già nel XII secolo dal monaco Guigo il Certosino e strutturata in quattro gradini progressivi. Innanzitutto la lectio, cioè quello che la Bibbia dice in sé; poi la meditatio, ciò che la Parola dice a me. Subentra l’oratio, ciò che io dico a Dio dopo aver ascoltato la sua Parola. Infine, l’actio, l’impegno del fedele nella vita attuando il messaggio letto, meditato, pregato.
Suggestivo è anche il suggerimento che Dietrich Bonhoeffer, martire del nazismo nel 1945. Egli proponeva nella sua Vita in comune: «Facciamo silenzio prima di ascoltare la Parola perché i nostri pensieri siano già rivolti alla Parola. Facciamo silenzio dopo l’ascolto della Parola perché questa ci parla ancora, vive e dimora in noi; facciamo silenzio la mattina presto perché Dio deve avere la prima parola; facciamo silenzio prima di coricarci perché l’ultima parola appartiene a Dio. Facciamo silenzio solo per amore della Parola».
C’è, però, un terzo e ultimo percorso all’interno delle Scritture, ed è quello culturale, aperto a credenti e non credenti. Infatti, com’è noto, la Bibbia è il «grande codice» della cultura occidentale, come si intitolava un famoso saggio del critico canadese Northrop Frye (1986). Per secoli le narrazioni, le immagini, i temi, i personaggi, i simboli biblici sono stati la stella polare dell’arte in
tutte le sue forme, anche contemporanee, della filosofia, della vita sociale (si pensi al rilievo etico del Decalogo). La Bibbia in sé è già letteratura. E’ un dire Dio in modo bello. Ma ha anche generato nei secoli un immenso flusso di opere artistiche che l’hanno attualizzata, trasfigurata e talora persino deformata.
Essa è rimasta sempre il punto di riferimento. Tant’è vero che persino un pensatore ostile all’eredità ebraico-cristiana come il tedesco Friedrich Nietzsche doveva riconoscere che «tra quello che noi proviamo alla lettura di Pindaro o di Petrarca e quello che noi sentiamo leggendo i Salmi c’è la stessa differenza tra la terra straniera e la patria». Un artista ebreo che ha sempre attinto alla Bibbia come Marc Chagall concludeva: «I pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato della speranza che è la Bibbia».
* Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo. Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Per Famiglia Cristiana scrive riflessioni e commenti sui passi della Scrittura.