Uno zaino per Leopoli. Una coppia gay in viaggio nell’Ucraina in guerra
Dialogo di Katya Parente con lo scrittore e attivista Giacomo Bandini
Ci ha raggiunto oggi Giacomo Bandini, che è già stato nostro ospite in precedenza. Stavolta è con noi per presentarci il suo libro “Uno zaino per Leopoli” (editrice MnM Print, 2023) nato in circostanze molto delicate e particolari.
Ce ne parli un po’?
Il libro “Uno zaino per Leopoli” nasce da un diario scritto di getto appena rientrato da un viaggio in Ucraina. Ormai poco più di un anno fa, dopo lo scoppio della guerra, io e mio marito Edoardo abbiamo deciso di aderire alla prima Carovana della Pace organizzata da #stopthewarnow, e all’alba del primo aprile ci siamo ritrovati con un gruppo di circa duecento persone a Gorizia. Da lì siamo partiti con sessanta mezzi carichi di aiuti umanitari verso il confine ucraino, attraversando Slovenia, Ungheria, Slovacchia e Polonia.
Arrivati a Leopoli, abbiamo scaricato le decine di scatoloni che stavamo trasportando, in particolare cibo e medicinali, e nel pomeriggio abbiamo incontrato alcuni rappresentanti delle istituzioni civili e religiose locali.
Siamo poi andati alla stazione ferroviaria, e da lì ci siamo divisi in due gruppi: alcuni partecipanti all’iniziativa, coordinati dagli organizzatori, hanno atteso in stazione l’arrivo dei treni provenienti dall’Ucraina orientale, in particolare da Mariupol’, per poter identificare un gruppo di profughi da caricare sui pulmini e ripartire subito in direzione Italia verso i luoghi di provenienza, dove preventivamente sono state identificate strutture di accoglienza; noi due, insieme al resto dei partecipanti, abbiamo marciato silenziosamente dalla stazione fino al centro città, con striscioni riportanti il motto STOP THE WAR NOW.
La mattina del 3 aprile siamo ripartiti verso casa, trasportando con noi un altro gruppo di profughi, identificato tramite l’organizzazione e alcune realtà locali, composto in particolare da persone fragili e con disabilità.
Questo in estrema sintesi l’intenso viaggio che abbiamo vissuto, e che ho riportato nel libro legandolo ad alcuni oggetti e parole, a partire dai quali ho scandito la suddivisione dei capitoli.
Parallelamente a questo itinerario se ne sviluppa un altro: quello più strettamente legato alla mia storia. Come sempre succede, il contatto con il conflitto dell’altro, e in questo caso l’avere anche solo sfiorato il dramma di una vera e propria guerra, ha fatto riemergere anche i conflitti e le guerre che porto dentro di me. Spesso irrisolti. Quindi, nello scrivere le storie e tratteggiare il ritratto sfocato dei volti che ho incrociato lungo il viaggio in Ucraina, non ho potuto ad un certo punto non incrociare anche il mio volto, e interrogarmi su me stesso.
Un doppio itinerario. Doloroso, ma anche riparatorio. Necessario sia per dare credibilità alle parole che ho scritto, sia per non scadere in facili perbenismi e slogan pacifisti, tipici della narrazione che noi occidentali portiamo avanti, assuefatti dalla società del benessere nella quale viviamo.
Perché rischiare la vita?
Ci tengo a chiarire subito questo punto. Non siamo stati degli eroi. Non abbiamo rischiato la vita. Leopoli è una città ucraina sul confine polacco, lontana centinaia di chilometri dalle zone dove si combatte in prima linea la guerra.
Certo, la percentuale di rischio è ovviamente più alta che rimanere seduti sul divano di casa nostra a Milano, ma non si può che constatare, con indubbia evidenza, che sono altre le persone che tutti i giorni in Ucraina rischiano la vita, e l’aspetto più atroce è che non sono solo le migliaia di militari caduti fino ad oggi nel conflitto, ma anche, e in primo luogo, civili, donne, bambini e anziani.
Loro rischiano la vita tutti i giorni. Noi no. Così come non rischiano la vita i governanti delle nazioni, che in questi mesi poco hanno fatto per avviare seriamente dei percorsi diplomatici per trovare una soluzione a questo conflitto. Questa è la guerra e questo dovrebbe bastare per dire basta, per fare tacere le armi.
Non importa da che parte si è schierati, non importano le ragioni, c’è una sola grande verità in ogni guerra: a soffrire e morire sono soprattutto le persone comuni. Il libro, in fondo, vuole essere un modo per dare loro voce; per non lasciare nell’oblio quei pochi sguardi che ho incrociato, quei gesti che ho condiviso e quelle vite che ho solo sfiorato, ma che conservano stoicamente la loro dignità, pur essendo state violate e spogliate di tutto.
Credo che la narrazione possa essere una forma di giustizia, se capace di far emergere la realtà e la verità dei vissuti, così da avviare anche potenziali processi di riconciliazione.
Non hai fatto il tuo viaggio da solo. Che senso ha avuto fare questa esperienza con tuo marito?
Non sarei mai potuto partire da solo. Lui non me l’avrebbe permesso. Anzi, è stato chiaro fin dal momento in cui ha capito che non sarebbe riuscito a farmi cambiare idea: “Se tu vai in Ucraina, io vengo con te”. E mi rendo conto che è stata una bella sfida anche per lui: io ho già vissuto esperienze simili nel passato, in particolare quando, con Operazione Colomba, una delle tante realtà che poi ha anche organizzato la Carovana, ho vissuto per alcuni anni in Albania, coordinando un progetto di mediazione di conflitti; lui invece non ha mai vissuto esperienze del genere, e devo dire che è stata prima di tutto una grande dimostrazione di amore nei miei confronti.
Essere uno a fianco all’altro è stato importante, così come consolarci in alcuni momenti difficili vissuti in quei giorni e, a posteriori, questo viaggio, soprattutto la rielaborazione che ne è seguita, ha aperto nuovi orizzonti alla nostra relazione di coppia, che in quel momento stava vivendo anche un momento di particolare difficoltà.
A tutte queste dinamiche si aggiunge, nei giorni precedenti la partenza, una mia sproporzionata preoccupazione, forse più grande del fatto che eravamo in procinto di partire verso un territorio in guerra: gli organizzatori ci chiedono se siamo disposti ad accompagnare un prete della Comunità Papa Giovanni XXIII, che altrimenti non partirebbe da solo, e con lui un furgone carico di aiuti umanitari.
Quando ricevo la chiamata sono molto turbato, perché anni prima ho lasciato il progetto in Albania, tra le varie ragioni, anche per il fatto che i rapporti con la Comunità si erano incrinati dopo che erano venuti a conoscenza della mia omosessualità. La mia preoccupazione all’inizio di questo nuovo viaggio è prima di tutto rivolta nei confronti di Edoardo: non voglio che viva sulla sua pelle quel senso di giudizio che ho vissuto io e che mi ha fatto soffrire. E poi, più in generale, non voglio vivere un’esperienza che ha come obiettivo portare supporto materiale e morale a un popolo che sta subendo un’invasione, preoccupandomi tuttavia maggiormente del giudizio degli altri partecipanti alla Carovana.
Alla fine, nonostante il chiacchiericcio che comunque vi è stato da parte di alcuni partecipanti membri della Comunità sul fatto che due ragazzi omosessuali viaggiassero con un prete, io ed Edoardo abbiamo stretto un bellissimo legame con don Adamo, entrando in profonda confidenza, e tutt’oggi partecipiamo a degli incontri che organizza con un gruppo di giovani, credenti e non credenti, che ha conosciuto nel corso della sua vita e dei suoi numerosi viaggi.
Come scrivo nel libro, lui nel tragitto di ritorno ci confida che gli è bastato vedere l’umiltà e la sensibilità che abbiamo mostrato nel servizio verso gli altri in quei giorni: questo per lui è Vangelo. E a me il suo sguardo è bastato per capire che non è solo un prete, ma un vero uomo di fede.
Così, nel cercare di portare un gesto di pace in una terra martoriata dalla guerra, contemporaneamente, senza metterlo in conto, ho lenito una ferita del cuore che portavo con me da tempo, e che finalmente ha trovato uno sguardo e parole di cura.
Cosa porti a casa da questa esperienza?
Cerco di rispondere ponendo l’accento su quattro dimensioni relazionali: il rapporto con la mia storia, il rapporto con Edoardo, il rapporto con la mia fede, e quindi con Dio, l’incontro con la popolazione ucraina.
Entrare in stretto contatto con la sofferenza mi ha posto obbligatoriamente di fronte anche alle mie ferite, in particolare quelle che spesso non voglio vedere e vorrei tenere nascoste agli altri, e in primo luogo a me stesso. Come ho raccontato, il viaggio ha riportato alla luce il bisogno di riconciliare la mia vita, la mia storia e la consapevolezza che solo a partire da questo primo difficilissimo passo posso poi provare a immaginare, e pretendere, un mondo di pace, un futuro migliore per me e per chi mi sta a fianco.
Questa esperienza è stata una prova e un’occasione anche per il progetto di vita che giorno dopo giorno sto costruendo con Edoardo. Il rapporto, quando è chiuso nelle strette dinamiche quotidiane di coppia, si svuota di significato, mentre trova nutrimento nella condivisione e nel donarsi agli altri. In questa dimensione ci si rinnova, e ci si scopre ancora capaci di donarsi anche l’uno all’altro ogni giorno come persone nuove.
Guardando alla mia fede, mi rendo conto che senza le opere rimane una bella filosofia di vita, ma lontana dal corpo mistico di Cristo. Un mio omonimo, Giacomo, nella sue lettere direbbe addirittura che la fede senza le opere è morta (Lettera di Giacomo 2:26). E questa immagine suona ancora più stridente davanti alle migliaia di uomini e donne che stanno morendo in questa guerra, così come in tutte le altre guerre che si combattono nel mondo ogni giorno, di fronte all’indifferenza di molti.
Come scrivo anche nel libro, ho legato indissolubilmente questo viaggio alla pagina dell’Esodo (12:1-11) che narra dell’uscita dall’Egitto del popolo ebraico. Ora questo episodio non è più un racconto del passato, ma ha corpi, sguardi e respiri che io ho visto e sentito. Sono parole che pulsano, sono voci di persone in carne ed ossa. E così è la Parola di Dio: vera e viva, quando usciamo dalle nostre sicurezze e proviamo a incarnarla. A quel punto è difficile tornare indietro, se non assuefacendoci con false giustificazioni e indifferenza. Questo è il rischio e la sfida da affrontare ogni volta che poi ritorno nella mia quotidianità dopo aver vissuto esperienze totalizzanti come la Carovana in Ucraina.
Infine c’è l’incontro, seppur fatto di pochi attimi, sguardi e parole, con la vita violata di uomini, donne e bambini in fuga dalla guerra. Di queste storie mi sento responsabile e testimone, perché la loro memoria non vada perduta. Questa è anche la ragione principale per la quale ho scritto il libro, e non posso che affidarle anche a voi, affinché possiate essere, se lo vorrete, a vostra volta loro eco, con le parole e con la vita.
Incontro, memoria, empatia – vorrei dire agape: i tre momenti che dovrebbero caratterizzare ogni rapporto umano. E non solo in situazioni estreme come quelle sfiorate da Giacomo e da suo marito.