28 giugno 1969, la vera storia della rivolta LGBT di Stonewall
Articolo di Will Kohler* pubblicato sul suo blog Back 2 Stonewall (Stati Uniti) il 25 giugno 2016, liberamente tradotto da Silvia Lanzi
Lo Stonewall Inn, al 51 e al 53 di Christopher Street nel Greenwich Village, nel 1969 era proprietà della famiglia mafiosa dei Genovese. Dopo essere stato un ristorante ed un nightclub per eterosessuali, nel 1966 tre membri della famiglia Genovese investirono 3.500 dollari per farlo diventare un bar gay. Una volta a settimana un poliziotto del Sesto Distretto raccoglieva bustarelle per tenerlo aperto. Il bar non aveva alcuna licenza per alcolici e nemmeno acqua corrente: i bicchieri usati venivano risciacquati in una tinozza e subito riutilizzati. Non c’erano uscite di sicurezza, i bagni erano sporchi e le toilettes perennemente intasate. Era l’unico bar gay di New York in cui si potesse ballare ed era quella la sua principale caratteristica, visto che in quel periodo ballare con una persona dello stesso sesso era illegale e quelli che erano beccati a farlo venivano arrestati.
Nel 1969 gli avventori dello Stonewall Inn erano accolti da un buttafuori che li osservava da uno spioncino. A quell’epoca l’età legale per bere alcolici era di diciotto anni e per evitare che entrassero dei poliziotti sotto copertura – chiamati “Lily Law”, “Alice Blue Gown” o “Betty Badge” – chi entrava doveva già essere conosciuto, oppure amico di qualcuno che lo fosse. Nei fine settimana il costo dell’entrata era di tre dollari e il cliente riceveva due biglietti per prendersi due drink. I clienti abituali dovevano firmare un registro che provasse che il bar era un “bottle club” [locale in cui gli avventori si portavano bevande alcoliche da casa, n.d.t.] privato. Non c’è bisogno di dire che raramente i clienti firmavano con i loro veri nomi.
C’erano due piste da ballo allo Stonewall; dentro era dipinto di nero, il che lo rendeva molto cupo perché anche le luci erano nere. Se si avvistava la polizia si accendevano le normali luci bianche: il segnale che si doveva smettere di ballare o di toccarsi e le coppie dovevano sciogliersi e ricomporsi in coppie uomo-donna per evitare l’arresto. Nella parte posteriore del bar c’era una stanza più piccola, frequentata da poche “queen” che potevano entrarvi; era uno dei due bar in cui potevano andare gli uomini più effeminati, che si truccavano e si acconciavano i capelli (anche se comunque rimanevano vestiti da uomini). Il buttafuori ammetteva solo pochi travestiti (drag queen). (C’è da ricordare comunque che in America, in quel periodo, c’erano pochissimi transessuali. Una delle poche era Christine Jorgensen, che si era operata in Europa nel 1950). L’età della clientela variava dai diciotto-diciannove anni ai trenta-quaranta. La sua posizione e la possibilità di ballare fecero dello Stonewall Inn “il bar gay della città”.
Alla fine degli anni sessanta le retate della polizia nei bar gay erano frequenti; il tenutario, però, sapeva in anticipo quando dovevano succedere perché riceveva soffiate della polizia stessa, e succedevano abbastanza presto da poter poi continuare tranquillamente la serata. Durante una tipica retata si accendevano le luci e si allineavano gli avventori controllandone i documenti d’identità. Quelli senza documenti o vestiti da drag queen venivano arrestati, gli altri potevano andarsene. Le avventrici lesbiche dovevano mostrare di indossare almeno tre capi femminili, altrimenti venivano arrestate.
All’una e venti di notte di sabato 28 giugno 1969 si presentarono alla porta dello Stonewall Inn quattro poliziotti in uniforme, uomini di pattuglia anch’essi in uniforme, il detective Charles Smythe e il vice ispettore Seymour Pine dicendo: “Polizia! Stiamo occupando il locale!”. Gli impiegati e gli avventori del locale non erano stati avvertiti della retata. Alcuni hanno detto che la ragione di questa retata a sorpresa era che i proprietari e il tenutario dello Stonewall stavano ricattando alcuni dei loro clienti più facoltosi, in particolare quelli che lavoravano nel distretto finanziario e che guadagnavano di più dalle estorsioni che dagli alcolici venduti al bar. Con il fiato sul collo della polizia non potevano più ricevere le tangenti dei ricatti e rubare bond negoziabili (facilitati dalla pressione dei clienti gay che lavoravano a Wall Street), così decisero di chiudere in pianta stabile lo Stonewall Inn. Ma questa è solo una congettura.
Una volta dentro, la polizia chiese l’appoggio del Sesto Distretto usando il telefono a pagamento del bar. La musica era stata spenta e le luci accese. Quella sera nel bar c’erano più o meno 205 persone. Gli avventori a cui non era mai capitato di assistere ad una retata erano confusi. I pochi che capivano cosa stava succedendo iniziarono a correre verso le porte e le finestre dei bagni, ma la polizia le aveva già sbarrate. Michael Fader che quella sera era allo Stonewall: “Le cose successero così in fretta che non si riusciva a capire niente. Tutto ad un tratto c’era la polizia e ci fu detto di metterci in fila e mostrare i documenti per poi essere scortati fuori dal locale”.
La procedura standard era di mettere in fila gli avventori, controllare la loro identità e usare poliziotte per controllare il sesso dei clienti vestiti da donna in bagno che, se erano uomini, venivano arrestati. Ma quella sera le cose non andarono esattamente come la polizia si aspettava. Andò così: chi era vestito da donna si rifiutò di andare con le poliziotte e gli uomini in fila si rifiutarono di mostrare i loro documenti d’identità. La polizia decise di portarli tutti in commissariato, dopo aver fatto accomodare le drag queen in una stanza sul retro del bar. Maria Ritter, Steve per i suoi famigliari, ricorda: “La mia paura più grande era essere arrestata. La seconda era che una mia foto con gli abiti di mia madre potesse apparire sui giornali o in un programma televisivo!”. Sia i poliziotti che i clienti ricordano che ci fu prestissimo un senso di imbarazzo, acuito dalla polizia che assaliva alcune lesbiche “trattandole in modo inappropriato” mentre le perquisivano.
La polizia stava confiscando gli alcolici del bar per stiparli negli automezzi di pattuglia. Si raccolsero ventotto casse di birra e diciannove di liquori, ma gli automezzi non erano ancora arrivati, così si chiese agli avventori di starsene in fila per una quindicina di minuti. Quelli che non erano in arresto vennero rilasciati e fatti uscire dalla porta principale, ma non se ne andarono alla svelta come al solito: si fermarono lì fuori e iniziò a formarsi una folla di curiosi in aumento. Nel giro di qualche minuto si ammassarono tra le cento e le centocinquanta persone. Dopo un po’ vennero rilasciate dallo Stonewall alcune persone, che notarono le macchine della polizia e la folla. Anche se i poliziotti avevano spinto o addirittura fatto uscire a calci i clienti dal bar, alcuni di quelli che erano stati rilasciati si misero in posa per la folla, salutando la polizia con atteggiamento eccessivamente appariscente. L’applauso della folla li incoraggiò a continuare: “Piegavano i polsi in modo civettuolo, si agghindavano i capelli: ci furono applausi e ovazioni”.
All’arrivo del primo furgone della pattuglia la folla era aumentata, fino a raggiungere, come minimo, dieci volte il numero delle persone arrestate e si erano calmati tutti. La confusione delle comunicazioni radio ritardò l’arrivo del secondo furgone. Mentre la polizia stava portando fuori quelli che erano dentro il bar, una persona che stava lì gridò: “Potere ai gay!”, altri iniziarono a cantare We Shall Overcome. Allora gettarono monetine e alcune bottiglie di birra contro il furgone: mentre un sussurro attraversava la folla, gli avventori ancora dentro venivano picchiati.
NOTA: È a questo punto che si inserisce la leggenda di Sylvia Rivera. È già stato sottolineato che non c’è prova da parte degli arrestati, o di chi fu testimone dell’inizio della rivolta, che durante la rivolta Sylvia fosse allo Stonewall. Secondo la sua cara amica Marsha P. Johnson, la stessa Marsha dice di essere stata lei a parlare a Sylvia della retata dopo che era già iniziata ed era in pieno svolgimento. Più tardi Sylvia affermò di essere stata dentro il bar; disse anche di essere stata fuori a gettare “quarti di dollaro”, “scarpe coi tacchi” e la “prima pietra”. Ho conosciuto personalmente entrambe. Sylvia ha sempre detto di essere stata allo Stonewall Inn più di vent’anni dopo, quando cercava di raccogliere fondi per il Trans-Youth Shelter Project (Progetto alloggio per i giovani trans). In un’intervista a questo sito Miss Major Griffin-Gracy, leader per i diritti delle persone transessuali, con una sensibilità particolare per le donne di colore e direttrice esecutiva di Transgender GenderVariant Intersex Justice Project, la cui presenza allo Stonewall è testimoniata in modo inoppugnabile da diversi documenti, disse che né Rivera né Johnson erano nel locale. Anche il defunto Uncle Bob Kohler (un altro di cui è stata verificata la presenza allo Stonewall e amico molto caro di Rivera) non può collocarla allo Stonewall Inn quel giorno, ma solo nei tre giorni di disordini che seguirono. Ci sia stata o no, Sylvia Rivera è stata una grande donna che ha aiutato i giovani senzatetto LGBT ed anche solo per questo è un’eroina. Ma, davanti alla mancanza di prove che collochino Sylvia allo Stonewall Inn durante la retata “che lancia la prima scarpa col tacco”, la congettura rimane più una leggenda che un fatto storico. W.K.
Si dice che, mentre il dipartimento di polizia di New York stava portando fuori dal bar gli arrestati, mentre scortavano una lesbica in manette dal bar al furgoncino della polizia che aspettava fuori, scoppiò un tafferuglio. Questa cercò di scappare più volte e lottò con quattro agenti, urlando e bestemmiando per una decina di minuti. Mentre un testimone si lamentava che le sue manette erano troppo strette, un poliziotto la prese a manganellate sulla testa. I presenti ricordano che la donna, la cui identità rimane sconosciuta, incitò la folla a combattere quando guardò la gente gridando: “Perché voi ragazzi non fate niente?”. Quando un agente la prese con forza spingendola all’interno del veicolo, la folla diventò “frenetica”. Fu allora che la scena diventò esplosiva e la gente lottò per la nostra libertà e i nostri diritti. La folla fuori dallo Stonewall Inn iniziò a premere sulla polizia, che a sua volta cercava di resistere e contrattaccava stendendo qualche persona a suon di pugni. Si dice che si vide Storme De Laverie, una lesbica crossdresser, mollare il primo pugno a un poliziotto che incitava i presenti. Quando i poliziotti li lasciarono incustoditi, alcuni che erano stati ammanettati nel furgone riuscirono a scappare. Mentre la folla cercava di rovesciare i loro mezzi, due macchine e un furgone della polizia schizzarono via, con l’ispettore Pine che li incalzava a ritornare il prima possibile. La turba, intanto, attirava molte persone che volevano sapere cosa stava succedendo.
Qualcuno nella folla disse che c’era stata la retata nel bar perché “i proprietari non pagavano il pizzo agli sbirri”, al che qualcun altro urlava: “Pagateli per l’ultima volta!”. Si gettarono lattine di birra e la polizia intervenne disperdendo parte della folla, che lì vicino trovò un cantiere pieno di mattoni. A quel punto i pochi agenti rimasti furono circondati da cinque-seicento persone e presero parecchia gente, tra cui il cantante folk Dave Van Ronk, che, era in un bar due porte più in là dello Stonewall ed era stato attirato dalla folla. Sebbene Van Ronk non fosse gay, aveva già sperimentato la brutalità della polizia in alcune dimostrazioni contro la guerra: “Per quanto mi riguardava, chiunque fosse contro i poliziotti era mio amico”. Dieci poliziotti – tra i quali due donne – si barricarono con Van Ronk, Howard Smith (giornalista del Village Voice) e parecchi prigionieri ammanettati all’interno dello Stonewall Inn “per la loro stessa sicurezza”.
Esistono molti racconti dei disordini di quella notte, ma c’è una cosa su cui concordano tutti: si trattò di qualcosa di estremamente potente e spontaneo. Spiega Michael Fader: “Provavamo tutti delle sensazioni che ci univano: ne avevamo abbastanza di quella merda. Non era qualcosa di tangibile che qualcuno diceva all’altro. Era come se tutto quello che ci era capitato anno dopo anno si concentrasse in una determinata sera e in un determinato posto: non era una dimostrazione organizzata… Ognuno, in quella folla, sapeva che non si poteva più tornare indietro. Era l’ultima goccia. Era arrivato il momento di reclamare qualcosa che ci era stato sempre negato… Tutte persone diverse, tutti motivi diversi ma, per la maggior parte, c’era indignazione, rabbia, dolore, tutto insieme e tutto stava semplicemente facendo il suo corso. Era la polizia che faceva la maggior parte dei danni. Noi cercavamo solo di tirarci indietro per liberarci e sentivamo che, alla fine, ce l’avevamo davvero la libertà, o almeno avevamo la libertà di chiederla. Non stavamo semplicemente camminando e lasciando che ci spintonassero: era come combattere per i nostri diritti, per la prima volta in modo compatto, e questo colse la polizia di sorpresa. C’era qualcosa nell’aria, una sorta di libertà a scoppio ritardato, e avevamo intenzione di combattere per ottenerla. C’erano diversi motivi per rimanere, ma la questione di fondo era che non avevamo intenzione di andarcene. E non lo facemmo”.
Bob Kohler: “Nessuno sapeva chi iniziò e nessuno poteva [saperlo] perché non si sapeva nemmeno che stava iniziando un tafferuglio, così non ci aspettavamo che qualcuno facesse qualcosa. Sentiamo qualcosa. Forse è una bottiglia che si rompe, forse è un bidone della spazzatura andato a fuoco: ed ecco che inizia la rivolta. Così quelle persone di merda che dicono ‘Ho visto questo, ho visto quello’. Non hanno visto niente. Sicuramente una cosa che non avete visto sono le drag queen sui loro tacchi alti. Ve lo posso dire per certo, perché non erano lì. Sono stati i ragazzi ad iniziare e tutta la strada è esplosa. Era divertente. Si spezzava la settimana lavorativa ed erano felici che succedesse il mercoledì sera. Ed erano felici anche quando successe ancora. E sabato sera erano ancora lì e nessuno di loro sapeva quello che succedeva, perché non ne capivano appieno il significato”.
Scagliarono sull’edificio spazzatura, bidoni della spazzatura e mattoni, rompendo le finestre. Un parchimetro venne usato come ariete per forzare le porte dello Stonewall Inn. La folla diede fuoco alla spazzatura e la lanciò attraverso le finestre rotte mentre la polizia prendeva una manichetta antincendio. Dal momento che l’acqua non aveva abbastanza pressione, non si riuscì a disperdere la folla e sembra che quel tentativo la incitasse, al contrario, a continuare. Quando i dimostranti entrarono dalle finestre – che erano state ricoperte da assi di compensato – la polizia sfoderò le pistole. Le porte si aprirono di colpo e gli agenti puntarono le armi contro la folla arrabbiata, minacciando di sparare. Il giornalista del Village Voice Howard Smith prese una chiave inglese e se la mise nei pantaloni, indeciso se usarla contro la polizia o la folla. Vide schizzare del liquido infiammabile nel bar, che venne incendiato e la polizia prese la mira, si sentirono delle sirene e la arrivò la Tactical Police Force (TPF) insieme ai vigili del fuoco, per liberare i poliziotti all’interno dello Stonewall Inn.
Un agente si trovò con un occhio sfregiato, detriti volanti colpirono gli altri. Bob Kohler, che quella sera stava passando vicino allo Stonewall con il suo cane, vide arrivare la TPF: “Mi ero già trovato in abbastanza risse da sapere che il divertimento era finito… Gli sbirri erano completamente umiliati. Una cosa così non era mai successa prima. Erano più arrabbiati di quanto potessi mai credere, perché tutti potevano innescare delle risse, ma non le checche… Prima di allora nessun gruppo aveva costretto la polizia a ritirarsi, cosi erano davvero molto arrabbiati. Credo che volessero uccidere qualcuno”. I rinforzi della TPF adesso formavano una falange che cercava di ripulire le strade, marciando e respingendo la folla che derideva apertamente la polizia. Le persone applaudivano, davano inizio a un balletto improvvisato e cantavano sulle note della sigla del Howdy Doody Show: “We are the Stonewall girls / We wear our hair in curls / We don’t wear underwear / We show our pubic hairs” (“Siamo le ragazze dello Stonewall / Ci arricciamo i capelli / Non indossiamo biancheria intima / E mostriamo i peli pubici”). Proprio quando il numero era al culmine, la TFP avanzò ancora disperdendo la folla e mandandola, urlante, da Christopher Street alla Settima Strada.
Una persona che era stata allo Stonewall durante la retata ricorda: “La polizia ci spintonò e fu allora che capii che non era una buona cosa, visto che mi avevano fatto arretrare con uno sfollagente”. Ecco un altro racconto: “Credo che non lo potrò mai dimenticare. Gli sbirri con gli sfollagente da una parte e la folla saltellante dall’altra. Era la cosa più stupefacente… Una vera beffa al machismo… Penso che fu allora che mi arrabbiai. Perché li colpivano con delle mazze. E per che cosa? Un balletto?”. Craig Rodwell, ex-proprietario dell’Oscar Wilde Memorial Bookshop, racconta di aver osservato la polizia inseguire la folla nei viottoli, solo per vederla spuntare di nuovo all’angolo successivo. Alcuni della folla bloccavano le macchine, ribaltandone una per bloccare Christopher Street. Jack Nichols e Lige Clarke, nel loro articolo sullo Screw, dichiararono che “tra gli isolati si inseguivano numerose folle di contestatori inferociti che gridavano: ‘Prendeteli!’”.
Alle quattro le strade erano state quasi ripulite. Molte persone, durante la mattinata, erano sedute un po’ abbacchiate o si erano riunite intorno a Christopher Park, storditi e increduli per quanto era successo. Parecchi testimoni ricordano la quiete irreale e misteriosa scesa su Christopher Street, anche se “nell’aria” continuava ad esserci “elettricità”. Uno di essi ha commentato: “C’era una certa bellezza nelle conseguenze dei disordini… Era ovvio, almeno per me, che un sacco di gente era davvero gay e quella era la nostra strada”. Furono arrestate tredici persone. Alcuni della folla finirono in ospedale e vennero feriti quattro poliziotti. Nello Stonewall Inn tutto era rotto: telefoni pubblici, jukeboxe, bagni e specchi, anche se, la sera dopo, il locale era già pronto per riaprire.
Tutti e tre i giornali di New York parlarono dei disordini; il New York Daily News scrisse un articolo in prima pagina. In tutto il Greenwich Village la notizia dei disordini si sparse velocissima. Sabato 28 giugno era un continuo viavai di persone che andavano a vedere lo Stonewall Inn bruciato ed annerito, sui muri del bar apparvero dei graffiti: “Hanno prevaricato i nostri diritti”, “Sostenete il potere dei gay”, “Legalizzate i bar gay” e “Potere alle drag queen!”. La sera dopo in Christopher Street ci furono ancora tafferugli; i partecipanti ricordano a stento quale delle due notti fu più violenta e frenetica. Molte persone erano quelle della sera prima, ma furono raggiunti da “provocatori della polizia”, curiosi e anche da turisti. Un testimone descrisse l’esibizione in pubblico di tenerezze ed effusioni omosessuali, che molti ritennero degne di nota: “Dal dover andare in posti dove per entrare si doveva bussare e parlare a qualcuno in uno spioncino, adesso eravamo fuori. Eravamo per le strade”.
Davanti allo Stonewall, che aveva riaperto, c’erano migliaia di persone che intasavano Christopher Street, talmente tante che la folla straripava negli isolati vicini. Le persone circondavano autobus e macchine, molestando gli occupanti che non si dichiarassero gay o dicessero di non essere d’accordo con i dimostranti. Come la sera precedente, nelle zone limitrofe diedero fuoco ai bidoni della spazzatura. C’erano più di un centinaio di poliziotti del Quarto, Quinto, Sesto e Nono Distretto, ma dopo le due di notte arrivò ancora la TPF. Tra i dimostranti e la polizia ci fu una sorta di tira-e-molla: quando gli agenti catturavano i dimostranti, che i burloni chiamavano “mammolette” o “sciantose”, la folla faceva di tutto per riprenderseli. La guerriglia di strada durò fini alle quattro del mattino. Allen Ginsberg, che viveva in Christopher Street ma che si era perso i disordini della prima notte, dichiarò: “Potere ai gay! Non era forte?… Era ora che facessimo qualcosa per affermare noi stessi” e quella sera andò per la prima volta allo Stonewall Inn riaperto ma ancora sottosopra. Ginsberg disse che “lì i ragazzi erano così belli. Avevano perso quell’aspetto ferito che avevano i froci dieci anni prima”.
Nei due giorni seguenti, lunedì e martedì, anche a causa della pioggia non successe molto altro. Ci fu qualche alterco tra la polizia e gli abitanti del Village, visto che entrambi i gruppi si guardavano in cagnesco. Craig Rodwell e il suo compagno Fred Sargeant approfittarono del mattino dopo la prima rivolta per stampare e distribuire cinquemila volantini che dicevano, tra l’altro: “Fuori la mafia e gli sbirri dai bar gay”. I volantini spronavano i gay a possedere i propri immobili per boicottare lo Stonewall e i bar della mafia e fare pressione sull’ufficio del sindaco perché investigasse su una “situazione ormai intollerabile”. Mercoledì, comunque, il Village Voice riportava notizie dei disordini a firma di Howard Smith e Lucian Truscott, che includevano descrizioni poco lusinghiere dei fatti e dei partecipanti: “checche in forza”, “movenze effemminate dei polsi” e “le follie delle checche della domenica”, che rinfocolarono ancora la rabbia. Ancora una volta la folla discendeva per Christopher Street minacciando di dar fuoco agli uffici del Village Voice.
Nella folla, che contava tra le cinquecento e le mille persone, c’erano altri gruppi che si erano confrontati infruttuosamente con la polizia ed erano curiosi di vedere come sarebbe stata sconfitta in quest’occasione. Ci fu un’altra esplosiva battaglia di strada, con feriti sia tra la polizia che tra i dimostranti, sciacallaggio dei negozi e l’arresto di cinque persone. Gli incidenti di mercoledì sera durarono un’ora circa. Così li riassume un testimone: “Si diceva in giro, ‘Si deve liberare Christopher Street. I froci ne hanno abbastanza dell’oppressione’”.
* Will Kohler è un noto storico, scrittore e blogger LGBT, nonché proprietario di Back2Stonewall.com. Attivista da lungo tempo, Will ha combattuto in prima linea l’epidemia di AIDS con ACT-UP e oggi continua a combattere per l’accettazione e la completa uguaglianza delle persone LGBT. Al lavoro di Will hanno fatto riferimento importanti media quali MSNBC e BBC News, il Washington Post, The Advocate, The Daily Beast, Hollywood Reporter, Raw Story, e l’Huffington Post.
Testo originale: June 28th, 1969: The Real History of the Stonewall Riots