La Chiesa è solo maschio: la grande fuga delle donne
Articolo di Marco Marzano pubblicato sul Fatto Quotidiano del 30 agosto 2015
È simpatica Laura. È una donna gioviale, aperta, psicologicamente “risolta” verrebbe da dire. Sposata, tre figli, il lavoro lasciato quasi subito dopo la laurea, una vita dedicata al quartiere, alla scuola, alla parrocchia.
Soprattutto alla parrocchia. Da ragazza Laura frequentava poco la chiesa, complice la fede freddina dei suoi genitori, giornalista il papà, insegnante la mamma. Laura in Chiesa ci andava raramente, con i nonni. Dopo la cresima sempre meno. Poi ha conosciuto Franco, che sarebbe diventato suo marito e che in parrocchia ci passava le giornate.
“Sai come succede a quell’età – mi racconta oggi davanti ad una tazza di caffè bollente –Mi sono innamorata di lui. E del mondo che frequentava. Ho scoperto che mi piaceva l’ambiente della parrocchia, la quantità e l’intensità delle relazioni umane che permetteva di costruire”. Sono arrivati i figlioli, ora già grandicelli, i due maggiori vanno all’università. Ma quell’entusiasmo iniziale in Laura non sembra svanito. La parrocchia è diventata per lei un luogo di impegno costante: prima nei corsi di preparazione al matrimonio, oggi nello “spazio compiti”, dove si aiutano i bambini in difficoltà scolastiche.
È anche una donna di sinistra Laura, “cittadina attiva”, impegnata. “Ma questo clima democratico che tanto ti piace lo trovi anche in parrocchia?” le chiedo. “Non sempre – risponde –perché lì c’è un uomo solo che decide per tutti, il parroco. È aperto, disponibile ad ascoltarci. Però alla fine decide sempre lui. A volte è frustrante”. Certo è frustrante, penso, però fa parte delle “regole del gioco”parrocchiale: il parroco decide e i parrocchiani obbediscono. Questo è l’assetto tradizionale, l’eredità tridentina, della Chiesa Cattolica e non ci sono avvisaglie di un cambiamento. Le chiedo ancora se non si senta talvolta mortificata come donna dal dover accettare l’autorità indiscutibile (e inevitabilmente maschile) del suo parroco, se non sia mai stata tentata dal mollare tutto. Mi risponde che quella tentazione non l’ha mai sfiorata. “Perché non sono spinta da ambizioni di potere, ma dal desiderio di vivere la fede con la mia comunità. Riguardo alla femminilità, penso che la Chiesa perda molte risorse non usando come potrebbe le capacità delle donne. Che riguardano di più l’abilità di tessere relazioni, il pragmatismo, il realismo e molto meno la decisione, il potere, il governo. Le donne conoscono il senso della misura, sanno far tornare gli uomini con i piedi per terra. Non hanno il desiderio costante di affermarsi, non amano la competizione, il conflitto”.
Laura insiste sull’importanza di queste virtù “femminili”, su questa “dolcezza materna” che le donne dovrebbero poter far meglio sentire nella vita della Chiesa. Una dolcezza che non mette mai davvero in discussione la subordinazione gerarchica delle donne (e dei laici in generale), ma che invoca piuttosto un governo (clericale) della parrocchia più temperato e mite, un autoritarismo soft. Mentre Laura continua a parlare, mi vengono in mente le mie studentesse, ventenni come una delle figlie di Laura. Penso che loro una filosofia di vita come quella di Laura non la accetterebbero e non la accetteranno mai. Può darsi che le temute (da una parte del mondo cattolico) teorie del gender abbiano già fatto effetto e siano già diventate patrimonio comune per le giovani generazioni, ma nessuna delle mie studentesse accetterebbe di essere considerata soprattutto una creatura accudente, che cuce, che rimedia, con la pazienza di Penelope, i guasti prodotti dalla prepotenza maschile. Le mie studentesse, e forse anche la figlia di Laura, pretendono di avere le stesse chanches degli uomini, anche nel campo delle decisioni. E della leadership. Anche per questo forse, le ragazze, le ventenni di oggi, in Chiesa non ci vanno più. Sicuramente meno delle loro madri. E ancor meno delle loro nonne. Come confermano i dati della splendida ricerca di Alessandro Castegnaro e dell’Osret sulla “fede nel Nord-Est”. Il dato che impressiona di più è proprio il venir meno, anche in questo campo, delle differenze di genere, quelle che un tempo facevano sì che gli uomini smettessero presto di andare in Chiesa e molte donne vi rimanessero invece tutta la vita. Le ragazze nate intorno al 1990 che assegnano molta importanza alla religione sono il 14,5% del campione dell’Osret. Contro il l’’11,6% dei loro coetanei maschi. Una differenza minima se confrontata con quella dei nati intono al 1940: tra costoro le donne “molto religiose” sono il doppio degli uomini.
E non basta. “Le donne più scolarizzate sono oggi tendenzialmente più autonome e più critiche nei confronti della Chiesa cattolica dei loro coetanei maschi”: Più studiano e più si abituano a ragionare con la propria testa. E più si allontanano dalla Chiesa Cattolica. In misura maggiore rispetto agli uomini. Perché quello cattolico è un ambiente nel quale loro non sperimentano la parità di diritti che hanno conosciuto altrove.
Perché alla fine è un ambiente nel quale governano i maschi, soprattutto quelli in tonaca. E più si sale di livello, più ci si dirige verso i palazzi del potere, più il monopolio maschile del potere è feroce e inattaccabile. Basta guardare al destino delle ormai quattrocento teologhe donne italiane, in parte minima impiegate come docenti nei seminari e nelle facoltà teologiche, malgrado abbiano tutti i titoli per potervi accedere.
O dare un’occhiata agli elenchi dei responsabili degli uffici liturgici e catechistici diocesani per rintracciarvi solo nomi maschili. Spesso di sacerdoti, ma comunque di maschi. Le donne stanno solo alla base della piramide, è femminile il 90 per cento della popolazione dei catechisti.
Anche all’ultimo sinodo sulla famiglia (un tema sul quale le donne hanno qualche competenza!) le donne erano una ventina contro più di 250 uomini. Su questo terreno, papa Francesco ha fatto pochissimo. Perché sembra interpretare il ruolo delle donne in una chiave prettamente intimistica, che sottolinea la loro vocazione al “servizio”e alla cura, al conforto, alla solidarietà. Mai alla responsabilità. Quella che le donne potrebbero invece ottenere già oggi, senza sconvolgere la dottrina, nei Pontifici Consigli (per la famiglia o per la cultura) o nelle Congregazioni e nei tribunali. Incarichi di responsabilità per i quali è sufficiente la competenza e non indispensabile l’ordinazione sacerdotale. Sarebbero scelte di grande impatto simbolico. Pari a quello che avrebbe la designazione di una donna cardinale o l’istituzione del diaconato femminile. Decisioni che mostrerebbero la volontà della Chiesa di riconoscere e accettare i risultati della più grande “rivoluzione del nostro tempo”, per citare Norberto Bobbio: l’emancipazione femminile. Per giungere un giorno fino all’ordinazione sacerdotale.
Ma qui sconfiniamo nell’utopia. Se nella Chiesa prevalessero ancora a lungo gli atteggiamenti conservatori e discriminatori verso le donne, continuerebbero a frequentare la Chiesa solo quelle donne in grado di accettare, così come probabilmente fanno anche in altri ambiti, un ruolo subalterno. Cioè una porzione decrescente e marginale della nostra società. Quella priva di mezzi culturali per giungere all’emancipazione e alla parità. Le tantissime altre saranno già altrove. Non necessariamente più lontane dalla fede, ma certo non più disponibili a “obbedir tacendo”.