“We have a dream”. Ritrovarsi al Campo gay di Agape
Intervista di Silvia Lanzi a Uber Sossi, psicoterapeuta dello staff del centro ecumenico Agape, 16 luglio 2013
Fin dalla sua fondazione, Agape ha fra i suoi obiettivi quello di offrire uno spazio di incontro e confronto su varie tematiche, legate all’attualità politica e sociale, alle questioni di genere, alla spiritualità, al dibattito teologico, alla formazione.
Una serie di obiettivi delicati e importanti che si sono evoluti e differenziati adattandosi alla realtà che man mano ci si è trovati ad affrontare.
Tra queste realtà emergenti, all’inizio degli anni ’80 c’è stata quella del rapporto tra fede e omosessualità che i promotori del centro hanno saputo cogliere. In questa breve intervista, Uber Sossi, ne racconta la storia.
Prima di tutto cos’è Agape e come nasce?
Agape è un centro ecumenico che sorge all’interno di una delle Valli Valdesi, in provincia di Torino, la sola zona in Italia dove i protestanti costituiscono una presenza sociologicamente rilevante. E’ legata al mondo protestante italiano e organizza ed ospita incontri e convegni nazionali ed internazionali.
La sua costruzione inizia nel 1947 per iniziativa di alcuni giovani protestanti guidati dal pastore valdese Tullio Vinay e sostenuti dal movimento ecumenico internazionale. Alla costruzione partecipano per anni centinaia di giovani provenienti da tutto il mondo: per la generazione appena uscita dalla guerra Agape è un segno di riconciliazione, di sforzo collettivo nel lavoro manuale, di vita comunitaria ed esperienza ecumenica.
Il nome di Agape richiama l’amore di Dio per l’umanità che si riflette nella vita di chi crede: l’apostolo Paolo afferma: “l’amore (agape in greco) non verrà mai meno” (I Corinzi 13). Fin dall’inizio il lavoro di Agape è caratterizzato dal volontariato, e da subito si costituisce una comunità residente che gestisce l’organizzazione pratica del centro ma che accompagna anche la sua elaborazione culturale, elaborazione a cui partecipano tutti gli uomini e le donne impegnate a gestire e condurre i diversi “campi” formativi nel corso dell’anno.
Il campo gay all’interno delle proposte formative di Agape nasce nel 1980, ad opera di Ferruccio Castellano, con il nome di “Fede cristiana e omosessualità”.
Per la prima volta, e per l’epoca era questa una proposta assolutamente rivoluzionaria ed “impensabile” (come ebbe a scrivere nello stesso anno Ferruccio Castellano sulla rivista OMPO di Massimo Consoli), dal 13 al 15 giugno un gruppo di omosessuali si incontra per parlare del proprio orientamento sessuale e del rapporto con la fede vissuta singolarmente e comunitariamente. Fu a partire da questa esperienza che nacquero i primi gruppi di omosessuali credenti: nel dicembre 1980 “Il Guado” a Milano, fondato da quattro “agapini”, e l’anno successivo “Davide e Gionata” a Torino.
Da quell’anno in poi il Campo “Fede e Omosessualità” divenne un appuntamento regolare ed entrò di fatto nella proposta formativa annuale del Centro Ecumenico. Quest’anno è la trentaquattresima edizione: una lunga ed intensa esperienza, un laboratorio di idee, un contenitore dinamico e complesso di storie, emozioni, relazioni, impegno politico.
In principio il campo era di impronta religiosa. Come mai questo virare verso la laicità?
Agape si definisce Centro Ecumenico e intende il suo ecumenismo in un senso molto ampio. Incontro fra credenti di diverse fedi e confessioni religiose, certamente, ma con un carattere laico che fa sì che anche chi non crede si senta a casa propria. E poi incontro tra atei, agnostici e credenti, in un dialogo in cui ognuno/a lasci cadere la presunzione di sapere e di possedere la verità.
Quindi possiamo dire che il campo è sempre stato fondamentalmente “laico”, lasciando a ciascuno la libertà di esprimere e vivere la propria dimensione spirituale e religiosa come meglio crede.
Recentemente è stato cambiato il nome del campo da “Campo Fede ed omosessualità”, al quale per molti versi eravamo molto affezionati, a “Campo gay”: è stata questa una decisione meditata a lungo e molto discussa. I motivi sono stati molteplici. Il termine “fede” per molti che non conoscevano Agape era visto come un impedimento a fare l’esperienza del Campo, generava fantasie di preghiere forzate o indottrinamento confessionale. Inoltre da dieci anni è attivo ad Agape un “Campo lesbico”.
In ogni caso l’attenzione al rispetto delle idee e delle fedi e la cura nel favorire nei partecipanti la dimensione spirituale, intesa come spinta e desiderio di ogni essere umano ad interrogarsi sul senso della vitae e alla trascendenza, resta un impegno costante dei membri che costituiscono il gruppo “staff” che è impegnato a progettare e condurre le attività.
C’è molta varietà nei campi proposti. Come mai?
In genere il tema del campo emerge spontaneamente nel corso del campo precedente, in una sorta di “passaggio del testimone” tra i gruppi che si succedono anno per anno. Scorrendo i temi dei vari anni si ha la sensazione del cambiamento culturale che l’omosessualità ha avuto nel corso degli ultimi tre decenni e dei “temi” e dei nodi critici che le persone omosessuali hanno dovuto affrontare per raggiungere una sempre maggiore visibilità e l’acquisizione dei propri diritti.
Da una prima fase in cui il campo si concentrava sui temi del disagio, della paura, della fatica a legittimarsi, si è giunti a temi meno intrapsichici e più politici, all’impegno e allo sviluppo dell’agio e del benessere con sé stessi, nella coppia, in famiglia, nel lavoro, nelle comunità e nei gruppi. Così ad esempio negli ultimi due anni abbiamo affrontato il tema del gioco e del sogno, le due funzioni umane più feconde nel permettere di “ immaginare e creare un mondo nuovo”.
Venendo al campo gay di quest’anno perché il tema “We have a dream”?
Agape è un luogo di frontiera in tutti i sensi. Ed è solo in uno spazio di frontiera che è possibile sognare, sperimentare il nuovo, permettere la riconciliazione con le parti del sé e con l’altro. Il perché della scelta del tema credo sia bene chiarito nel “trafiletto” che presenta ufficialmente il campo: “ll futuro appartiene a coloro che credono alla bellezza dei propri sogni.” (E.Roosevelt)
I sogni sono tutti veri, poiché attingono alla parte più autentica di noi stessi. I nostri sogni parlano dei nostri bisogni, dei nostri desideri, della sostanza di cui siamo fatti. Spesso ci precludiamo la possibilità di sognare, oppure ci perdiamo in sogni che non ci appartengono davvero. Contattare e riconoscere i nostri ci sembra necessario per poterci realizzare come individui, come omosessuali e come comunità.
Seguendo l’invito di Paul Valéry –secondo il quale “Il modo migliore per realizzare un sogno è quello di svegliarsi”– ci porremo all’ascolto dei nostri sogni individuali e collettivi, nella prospettiva concreta di calarli nella realtà e di individuare progetti e percorsi affinché la nostra fantasia prenda corpo e vita.
Come ogni anno il nostro stile di lavoro propone varie attività e laboratori, sia individuali che in piccolo e grande gruppo, a partire da sé e dalla propria storia, dai propri bisogni e desideri. La metodologia prevede di affrontare il tema sia a livello personale che etico e politico, nella consapevolezza che ogni crescita individuale ha una ricaduta sulla comunità e sulla possibilità di creare un mondo in cui ognuno, insieme a tutti gli altri, può avere il suo spazio di felicità.
Il titolo riecheggia il famoso discorso di Martin Luther King, contro la segregazione raziale dei neri d’America. Significa che tra noi e loro c’è qualche parallelismo? Se sì, quale?
Direi che in ogni forma di discriminazione, di rifiuto, di sopraffazione, di intolleranza, di violenza, per qualsiasi motivo, etnico, politico, religioso, di sesso, di genere e di orientamento, ci sono dei parallelismi possibili. Il parallelismo maggiore è sempre la violenza, la violenza che porta una parte dell’umanità a limitare, per un qualsiasi motivo, socialmente e culturalmente costruito, e ad impedire all’altra parte il diritto a vivere il proprio potenziale umano, la propria libertà ed autodeterminazione, la propria progettualità come singolo e come membro della comunità.
Tuttavia la scelta di citare Luther King è stata motivata dal vedere in essa un’enorme spinta rivoluzionaria ed evolutiva, quella degli ideali, ma soprattutto del sogno: solo se immagino e costruisco nella mia fantasia una realtà migliore di quella che mi appartiene, posso connettermi al mio potere interiore e fare che il mio desiderio divenga progetto. E questo è ancora più dirompente quando non è il progetto di uno solo, ma è il progetto di molti, uomini e donne, accomunati dal riconoscersi nella reciprocità e nella convivenza, nell’appartenere alla medesima avventura umana.
“Il modo migliore per realizzare un sogno è quello di svegliarsi”. Ti sembra che il mondo gay sonnecchi, dorma della grossa o si sia svegliato?
La citazione è un verso del poeta Paul Valéry. Sognare è bello, ma può restare un mero esercizio virtuale, rischioso perché illusorio ed irreale, pericolosamente psicotico, soprattutto se non intravedo il nucleo vitale che lo anima e non mi connetto con esso. Allora cosa può esserci di meglio che svegliarsi e tentare con tutte le proprie forze di realizzare il sogno?
Quale dimensione più umana della fertilità e creatività che porta a dare corpo alle idee, alla realizzazione del proprio sé, alla costruzione di un mondo migliore?
Se da una parte è vero che siamo in un momento difficile e critico, dall’altra assistiamo a movimenti, piccoli e grandi, di presa di consapevolezza individuale e di gruppo, al risveglio delle coscienze, al riconoscere il fallimento dell’avere e del potere. La storia, ma anche la psicologia, lo insegna: ad una crisi segue sempre una rottura che porta ad un adattamento migliore e ad una crescita.
Non credo che il mondo gay dorma. Forse talvolta sembra sonnecchiare, ma credo che sia oggi abbastanza sveglio da non potere e non volere più rinunciare a camminare sempre più spedito verso la pienezza dei suoi diritti. In ogni caso il pericolo di regredire, di addormentarsi, è sempre presente, la storia purtroppo nel secolo scorso ne è stata testimone.
Proprio per questo, ed il Campo gay è una di queste sentinelle, non bisogna abbassare la guardia, ma stare ben attenti e non disperdere le energie come spesso accade tra le diverse espressioni delle comunità LGBT, che purtroppo stentano a trovare un dialogo comune.
Quale è il tuo ruolo ad Agape?
Agape non può e non vuole essere un’esperienza di psicoterapia di gruppo. E piuttosto un’esperienza di condivisione e crescita individuale e comunitaria. Il tema ogni anno proposto è declinato in diversi “laboratori” che propongono varie attività e metodologie che permettono a ciascuno di approfondire il tema stesso sia nella dimensione intrapsichica che relazionale che politica, al livello di profondità che più desidera o che si sente di affrontare nel suo particolare momento di vita.
Il tema, i laboratori, le attività e le metodologie sono individuate e costruite dal gruppo di conduttori o “staff”, solitamente una decina di volontari, sia “ professionisti della relazione” (psicologi, pedagogisti, psicoanalisti, formatori) che non professionisti, tuttavia con competenza nella conduzione di gruppo o di lunga esperienza come campisti di Agape.
Faccio parte dello staff di Agape dal 1996. Fui invitato da un amico e fu, ed è, per me una tra le esperienze più importanti della mia vita. Sono di professione un analista ad orientamento filosofico ed esistenziale, ma ad Agape sono semplicemente “uno dello staff” che mette in comune con gli “altri dello staff” il proprio sapere e le proprie competenze, con grande fiducia ed affetto reciproci, è questa la nostra risorsa maggiore.
Il nostro compito è di condurre ciascuno ed il gruppo in questa comune esperienza, se pure breve tuttavia spesso profonda, tutelando il rispetto e il non giudizio, favorendo la consapevolezza e l’ascolto. Il valore ed il diritto di tutti e di ciascuno alla felicità, per quanto ci è possibile. Il tutto in un luogo splendido per natura, ricco per incontri umani. Un luogo di profondità, ma anche di tanta e vitale leggerezza, in cui parlare, emozionarsi, ma anche giocare e ridere.
Ferruccio Castellano è morto nel 1983. Chissà se ha sognato il futuro di Agape così come è andato realizzandosi. Certamente sarà felice, ovunque sia, di vedere che gli omosessuali da lui definiti con sofferenza “isolati iceberg” si sono ormai sciolti al sole della valle del Chisone. Vi aspettiamo.