Cari vescovi a proposito di omofobia, quale Dio avete servito oggi?
Lettera aperta inviata dal prof. Antonio De Caro di Parma* ad Avvenire, il giornale della Conferenza Episcopale Italiana
Adriano ha 50 anni. Quando per la prima volta il tema della sua omosessualità è emerso nella sua famiglia, non aveva ancora 13 anni, ed è stato picchiato. A 19 anni ha iniziato un percorso di psicanalisi che ha troncato energicamente dopo 11 anni.
Undici anni, in cui uno zelante psicanalista, subdolo e omofobo, ha cercato in tutti i modi di “guarirlo”, perché così volevano i suoi genitori, la società e il Magistero cattolico. Undici anni di sofferenza, in cui ogni volta che non “era all’altezza” delle aspettative del “guaritore” i suoi sensi di colpa aumentavano. E con i sensi di colpa, il disprezzo di se stesso, e la convinzione profonda di essere talmente contaminato dal male da non potere contare nemmeno sull’amore di Dio.
I giovani omosessuali preferiscono passare inosservati, non essere visti, per non soffrire, con la dolorosa conseguenza che non essere visti dagli altri, non essere previsti o nominati nelle storie che gli esseri umani raccontano su di sé li porta a percepirsi come non reali e come persone indegne di essere riconosciute ed amate.
Anzi, tenderanno ad assimilare l’ostilità contro gli omosessuali, a costruire dentro di sé una omofobia introiettata che non è altro se non odio verso di sé. Giorno dopo giorno, tutto questo scatena una sofferenza silenziosa, nascosta e distruttiva, che poi può manifestarsi attraverso problemi a scuola o all’università, la sessualità compulsiva e, non di rado, i tentativi di suicidio.
Sapete a che cosa possono portare certe ferite? Quando ti alzi tutti i giorni, quando frequenti chiesa ed oratorio, ritiri e sacramenti, sperando che sia la volta buona, e rimani solo quello che sei? Sapete che cosa provano i giovani e le giovani cui si rivolgono i gruppi e le terapie “riparative”?
Provano odio per se stessi. Un odio che a volte diventa insopportabile, al punto che… che pare non esserci altra scelta che farsi del male. Saltare dal nono piano, o gettarsi sotto un treno. No, non sto raccontando fantasie, ma ciò che diverse volte nella vita Adriano è stato sul punto di fare, trattenuto in extremis da amici che il Signore gli aveva mandato incontro perché non perdesse la vita.
Lui non ha rischiato di morire per un’ideologia, ma per difendere la sua identità, che la Chiesa raramente ha voluto vedere, ascoltare, conoscere o riconoscere. La sua identità di figlio amato da Dio, che non deve cambiare per essere gradito a Lui.
Tutto questo Adriano l’ha vissuto dai 19 ai 30 anni, che di solito sono, in una vita umana, gli anni della progettualità: gli anni in cui costruiamo la nostra identità cognitiva, professionale, affettiva, relazionale. In cui facciamo le scelte che probabilmente influenzeranno tutta la nostra vita. Immaginate che cosa significhi essere deprivati di quegli anni, del loro slancio e delle loro benedizioni: e questo solo perché la Chiesa e la società hanno deciso di tormentare le persone omosessuali.
Adriano non è mai stato aggredito fisicamente e non ha subito traumi corporei: ma il suo spirito è stato spezzato molte volte. Gli anni della progettualità lui li ha passati cercando con sforzi disumani di cambiare quello che era, di trovare una ragazza e di sposarsi, perché TUTTI gli dicevano che era la cosa giusta da fare, che così il problema si sarebbe risolto da solo.
Gli anni della progettualità Adriano li ha trascorsi cercando di diventare la persona che non era. Fino a quando, a 30 anni, ha deciso di spezzare le sue catene e di dire -a se stesso e a tutti gli altri- la verità che lo ha reso libero.
Sono passati più di 35 anni: gli anni della formazione, della crescita, della costruzione psicologica e professionale, della maturazione umana e spirituale. È plausibile che Adriano abbia potuto sprecarli per quella che viene superficialmente definita, in senso spregiativo, ideologia?
Adriano, gli altri e le altre come lui, non rischiano la loro serenità in questo mondo e la loro salvezza nell’altro in nome di una ideologia. Nessuna ideologia varrebbe le sofferenze di essere e sentirsi maltrattati, esclusi, disprezzati, minacciati. Noi difendiamo fino allo stremo solo ciò che siamo, nel più profondo del nostro essere. Noi difendiamo ciò che tutti avrebbero voluto portarci via, cioè il nostro modo (unico, splendido, sacro) di essere e di amare.
Perché Dio ci ha voluti così, ed è così che noi possiamo e dobbiamo coltivare in noi l’immagine e la somiglianza. Ciascuno di noi è responsabile, di fronte a se stesso e a Dio, delle sintesi che la nostra coscienza fa e farà prima dell’ultimo giorno. Non è ideologia: è fedeltà alla nostra intima natura; è impegno, responsabilità, gratitudine. E fatica, sofferenza, qualche volta anche lotta. Di questo facciamo memoria ogni anno il 17 maggio: una memoria che ci ricorda la croce, ma anche la resurrezione, come il cero pasquale che splende, silenzioso e potente, simile al sorriso di Dio.
«La verità vi farà liberi»: queste parole di Gesù (Gv 8.32) possono significare che non dobbiamo negare noi stessi, né cadere nella trappola dell’omofobia introiettata che condanna e avvelena dall’interno ogni espressione dell’individuo. Significa combattere ogni tentativo di chi vorrebbe forzare l’identità delle persone con il pretesto di “guarirle”; significa smettere di vivere nella finzione.
Molti di noi sanno bene come si vive quando si è “spaccati” dentro, per il desiderio disperato di aderire ad un’identità che non è la propria; e molti, anche se non arrivano realmente al suicidio, imparano giorno per giorno a odiare se stessi e a ritenersi indegni dell’amore di Dio e della propria comunità. Questo è l’effetto dell’omofobia, anche quando le persone LGBT+ scelgono loro malgrado una relazione eterosessuale, cui non appartengono, condannandosi alla disperazione di una vita interiormente ed esteriormente infelice.
Quale Dio avete servito, voi, oggi?