Ci sarà una chiesa cattolica inclusiva con le persone LGBT solo quando smetteremo di discriminarle e deriderle
Riflessioni inviataci da Alessandra Bialetti*, pedagogista sociale e Consulente della coppia e della famiglia di Roma
Purtroppo, e dico purtroppo, era prevedibile che il post di Luxuria su Facebook sollevasse delle polemiche, nonostante nell’introduzione chiedesse di aprire una riflessione e di non cadere su temi ricorrenti, proposti solo al fine di creare contrasti e non confronti.
Ciò che il tweet di Luxuria voleva mettere in evidenza era l’uso e abuso della religione come fonte di discriminazione e non accoglienza di ogni persona e l’importanza di lavorare sulla creazione di contesti in cui la dignità e il valore di ognuno possa essere riconosciuto e legittimato. E su questo potremmo essere tutti d’accordo.
Il problema nasce quando quell’ognuno riguarda la persona omosessuale o transessuale. Immediatamente si alzano i muri che diventano un attacco alla persona. Così Luxuria si trasforma nella persona perversa, malata, che vuole sovvertire i canoni o delegittimare la famiglia tradizionale.
Auspicare e lavorare per creare una chiesa inclusiva non vuol dire delegittimare alcunché ma legittimare l’esistenza di ogni persona, nessuno perde diritti ma gli stessi vengono riconosciuti a tutti soprattutto se si pensa che in certi paesi, a causa dell’ordinamento governativo e della religione, ancora si rischia la vita e la si perde per la pena di morte. Forse questa avrebbe potuto essere una riflessione utile per ognuno di noi piuttosto che scagliarsi contro la persona.
Mi fanno molto male certe parole offensive e violente usate. “una minoranza che cerca di convertire il resto dell umanità a idee perverse ed assurde!”: le minoranze vanno ascoltate e sostenute per il fatto che vivere da minoranza vuol dire spesso essere invisibili e non oggetto di diritti, gli stessi che sono scontati per altri. Le idee vengono definite perverse: quindi idee perverse, uguale a persone perverse che le originano.
Perverse è sinonimo di persone che consapevolmente attuano il male: un giudizio molto, molto forte e violento. “Vladimir Luxurio… Vladimiro. Pardon, è nata anche Vladimir… Vladimiro Guadagno, in arte Luxuria”: chi si riferisce a una persona sbeffeggiando e ironizzando sul suo percorso di vita è una violenza. Si gioca sul nome, sul cambio di identità come si trattasse di animale da palcoscenico, sul suo essere uomo, donna o chissà cosa.
Mi chiedo se qualcuno si sia mai veramente chiesto cosa voglia significare avere un’identità di genere non conforme a ciò che si sente e quali siano le difficoltà che si debbano affrontare per trovare un proprio posto nella vita e sentirsi adeguati.
Mi metto nei panni di una persona transessuale o di un genitore di un figlio transessuale e provo dolore. Dolore per la non comprensione, per la non accoglienza di un vissuto pesante e delicato, per non provare a calarsi nei panni di chi ogni giorno si alza dal letto e non solo non si riconosce come persona ma non è nemmeno legittimato come essere umano.
Dolore per un percorso familiare “tradizionale” sconvolto dalla rivelazione di qualcosa che non si conosce e, in quanto tale, mette paura. Un percorso che avrebbe bisogno di sostegno e non di giudizio. Consapevolezza dolorosa di non avere gli strumenti giusti per accogliere se stessi e un figlio, parente, amico alla ricerca di se stesso.
Credo sia un dolore non facilmente comprensibile se non lo si prova sulla propria pelle e reso ancora più pesante e forte quando viene fatto oggetto di scherno, discriminazione e pregiudizio. Giocare sul nome di Vladimir, un nome che è costato lacrime, sangue e sofferenza, un nome che ha voluto significare anche iniziale allontanamento dagli affetti più cari, solitudine e isolamento, credo sia un atteggiamento molto violento.
Non è un semplice cambio di lettera alla fine di un nome ma una ricerca di sé e di un posto nel mondo degli affetti e della società. E anche della chiesa che in quanto “universale” dovrebbe accogliere tutti e mai avere porte chiuse. In nome del nostro essere credenti abbiamo il dovere di porci in ascolto, di cercare di comprendere (ovvero prendere con noi il vissuto della persona) e creare un luogo in cui la stessa possa crescere nella fede. Senza tradire l’insegnamento evangelico di un Gesù che non ha preteso un documento di identità per riconoscere il valore della persona ma ha solo fissato il suo sguardo sulla sua esistenza e sulla difficoltà di portarla avanti.
Lo stesso per altre religioni quando diventano strumento di sopraffazione, dominio ed esclusione. Da cattolica praticante mi batto per una chiesa inclusiva e mi sforzo di andare al di là di giudizi e pregiudizi per calarmi nei panni di chi vive nelle periferie e ai margini della società, quella che si considera “normale” e secondo i canoni.
Mi spiace quando dividiamo le persone in “noi” e “loro” sulla base di idee diverse, dove diverse dovrebbe significare ricchezza e non contrapposizione e discriminazione. Dovremmo costruire un nuovo“noi” in cui tutti possiamo sentirci uguali ma differenti per l’unicità che esprimiamo, un “noi” in cui condividere la stessa strada, in cui sentirci uniti nella stessa cordata o “naufraghi” sulla stessa barca alla ricerca di un luogo dove poter essere in comunione. Ma meglio lasciare da parte la barca che evoca paure e fantasmi ma che non a caso ho citato.
Per finire riporto semplicemente l’esperienza di chiesa appena vissuta. Ieri sera (10 aprile 2019) ero a San Fulgenzio, la parrocchia romana, la prima e unica finora, che ospita Nuova Proposta, un gruppo di persone omosessuali e transessuali credenti.
Si trattava di un incontro di preghiera, il settimo di questo anno pastorale, animato dal gruppo ma aperto a tutta la comunità parrocchiale sempre presente e numerosa. Sono mesi che viene portata avanti questa iniziativa e la risposta della comunità fa commuovere: nessuno si chiede o si informa su orientamento o identità della persona ma ognuno, dal proprio vissuto e con la propria vita, condivide e testimonia l’essere credente e alla ricerca di un Dio che possa dare risposte al bisogno di amare ed essere amati.
Persone di tutte le età e di tutte le provenienze che semplicemente si incontrano sulla Parola e dividono lo stesso cammino. Una chiesa inclusiva e dignitosa per tutti parte dalle piccole cose, parte da noi, parte da non usare in modo violento il nome di una persona per ghettizzarla o deriderla. Vi ringrazio per l’ascolto e mi auguro che possiamo costruire insieme ponti e non muri.
* Alessandra Bialetti, vive e opera a Roma come Pedagogista Sociale e Consulente della coppia e della famiglia in vari progetti di diverse associazioni e realtà laiche e cattoliche. Ha discusso una tesi di Baccalaureato su “Genitori sempre. Omosessualità e genitorialità” presso la Pontificia Università Salesiana, Facoltà Scienze dell’educazione e della formazione salesiana – Facoltà di Scienze dell’Educazione, Corso di Pedagogia Sociale, anno accademico 2012 – 2013.