Cristo Re dell’universo, una regalità che splende nella mancanza
Riflessioni di Massimo de Il ramo del Mandorlo, gruppo di cristiani LGBT+ di Roma sulla XXXIV domenica del tempo ordinario, Solennità di Cristo Re dell’universo
“La regalità che splende nella mancanza” (Luca 23:35-43)
La Solennità di Cristo Re dell’universo è una festività istituita nel 1925 da Pio XI. La data parla da sé, collocata, dopo il Concilio Vaticano II, alla fine dell’anno liturgico, in questa domenica la Chiesa celebra la sovranità di Cristo sulla storia, esaltandone la regalità.
Sorge spontaneo chiedersi quale sia la regalità che la Chiesa vuole sottolineare. E poi: a che idea di regalità pensano i credenti e i non credenti? E soprattutto, Qual è la regalità incarnata da Cristo, nel testo del Vangelo?
Nel dirci credenti, e nel seguire Colui che chiamiamo “Nostro Re”, chissà se abbiamo realmente capito la forma della sua, e dunque della nostra, regalità.
Il Vangelo sembra parlare di una regalità inclusiva che splende nella mancanza. Una regalità che è tale perché dalla croce Gesù si misura con un dolore in cui rinuncia ad assumere la posizione della vittima.
Si sa, le idee fanno la storia più della storia stessa. Sulle idee sono costruite le Costituzioni dei Paesi democratici, e la stessa Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo è un’idea verso cui tendono i vari Paesi, pur senza che essa abbia valore legislativo.
Ma noi preferiamo le idee alla realtà, e lo stesso vale per la regalità di Cristo che trionfa sulla croce, compiendo così l’incarnazione. Il popolo acclama: “Crocifiggilo, crocifiggilo”, e poi, una volta sulla croce, grida: “Se sei Figlio di Dio, beh, ora scendi dalla croce. Salva te stesso e ti crederemo”.
E in questa ballata in cui chiediamo a Dio di essere più forte della realtà, per tutto il Vangelo si racconta di un Uomo che si fa prossimo al malato e lo risana, all’affamato e lo sfama, al morto e lo risorge, preferendo rinunciare alla sua onnipotenza per abbracciare la nostra umanità.
Una regalità orizzontale e condivisa, che stona con le nostre convinzioni di credenti che preferirebbero credere in un Dio che salva se stesso, così da poterne avere stima.
“Salva te stesso e anche noi e ti crederemo.” Splendido il Vangelo che ha il coraggio di toccare la condizione che poniamo a Dio per poter credere in lui. Salvaci dalla nostra umanità, che ci pesa, che ci sta stretta. San Paolo ha capito, e lo dice in maniera chiara nella II lettura: “Ringraziate perché siete stati resi capaci di partecipare alla sorte dei santi”.
Una santità, una regalità che è arrendersi al fatto che siamo umani, e che questa umanità in cui Gesù ha deciso di farsi nostro compagno è la cifra della nostra regalità, quando siamo finalmente spogliati di tutte le nostre difese, convinzioni, curriculum e like di cui vantarci.
Cristo, senza pretese, ha esteso il suo trono facendoci sedere affianco a lui, perché vedessimo dall’alto della croce la realtà della nostra vita, le dinamiche delle relazioni che abbiamo, e in questa verità scoprirci guardati da Cristo innocente.
Nella mancanza vediamo chi realmente sta accanto a noi, nella mancanza nascono in noi energie inaspettate, nella mancanza guardiamo le persone alla pari, come il ladrone e Gesù si guardano sulla croce.
E se siamo credenti è perché in quelle mancanze, che spesso sono la struttura della realtà, la presenza di Cristo è entrata sussurrando, come sussurrò a San Francesco: “Perfetta letizia”, così come il buon ladrone si sente dire “Ecco, hai capito ora, per questo oggi sarai con me in paradiso”. “Non sono un Dio che salva se stesso, non sono un Dio onnipotente” (cfr. Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz).
Sono un Dio che esprime la sua regalità “stando vicino”, sapendo che neanche il mio Amore basterà, finché tu non lo accoglierai. Io posso solo dirti “Senti come mi batte forte il tuo cuore” (W.S)