Anche Dio fa coming out. Alla scoperta della “teologia indecente”
Riflessioni del sociologo Luis Martínez Andrade pubblicate sulla rivista online Círculo de Poesía (Messico) nel gennaio 2014, liberamente tradotte da Sara Ciuti, prima parte
La teologia della liberazione rappresenta uno dei filoni più importanti del pensiero critico sviluppatosi in America Latina. È evidente che il contesto storico, politico, sociale e culturale che ha fatto da cornice alla nascita della teologia della liberazione è cambiato e, di conseguenza, sono cambiate tanto i temi di interesse, quanto le strategie teorico-pratiche.
Per alcuni, tale trasformazione è dovuta dallo smarrimento teorico e ideologico prodotto dalla rinuncia alle categorie marxiste; per altri, essa esprime un’apertura dell’agenda dei liberazionisti. Per questo motivo, il nostro scopo è quello di analizzare l’adeguatezza, il contributo e le limitazioni di una linea di pensiero ubicata all’interno del paradigma liberazionista, quale è la “teologia indecente” o la “teologia senza mutande”, proposta da Marcella Althaus-Reid.
Va da sé che accettiamo di mostrare le tensioni all’interno della teologia della liberazione per poterle articolare in un progetto di emancipazione: in altre parole, come aveva intuito Walter Benjamin (2001), “Bisogna sempre sconfiggere il fantoccio chiamato ‘materialismo storico’, se quest’ultimo prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, oggi è brutta e non deve farsi scorgere da nessuno”.
La nostra strategia discorsiva parte dall’esporre a grandi linee la teologia della liberazione femminista. Parimenti, in maniera concisa, affronteremo il tema dell’importanza dell’analisi femminista e della “teoria queer”. Successivamente, verrà effettuata una revisione dei punti cardine della proposta di Althaus con lo scopo di osservare la posizione di sfida e la provocazione che implica questo progetto teologico e politico. Infine, andremo a ponderare la critica della teologia indecente e la sua articolazione non solo teorica, ma anche in termini di prassi.
Teologia femminista della liberazione
François Houtart (2005) sostiene che la teologia della liberazione degli anni Sessanta e Settanta sia stata tacciata di essere una teoria dell’uomo bianco e maschilista, incentrata principalmente sui rapporti di classe. Perciò, con il consolidarsi del progetto neoliberista, l’”eclissi” del marxismo, l’apogeo del postmodernismo, l’”inverno della Chiesa” e la diffusione delle correnti pentecostali nel continente [latinoamericano], la teologia della liberazione ha dovuto fare i conti con i tempi che cambiano.
Riguardo a ciò, sulla stessa linea, Díaz Nuñez (2009) indica la necessità di considerare la teologia della liberazione in relazione a quei fattori strutturali che hanno creato un luogo dove le sovranità mutilate, le democrazie senza cittadini, l’emarginazione, la povertà estrema e l’impunità sono monete di uso corrente e, di conseguenza, i cambiamenti politici e culturali degli ultimi decenni hanno portato all’insorgere di nuove sfide alla teoria della liberazione.
Con l’approfondimento e la discussione di certe tematiche che nel passato erano state evitate, i teologi della liberazione hanno formulato nuove domande e proposto nuove alternative, che spaziano dalla teologia ecologica fino alla teologia afro-indigena, passando per la teologia femminista della liberazione. Per la precisione, è quest’ultima teoria quella che ha attirato il nostro interesse, dal momento che essa rappresenta una sfida non solo alla teologia della liberazione, ma anche al pensiero critico.
Per Houtart (2005), Díaz Núñez (2009), e Juan José Tamayo (2004), tra i contributi della teologia femminista della liberazione si annoverano la denuncia della società patriarcale e del carattere androcentrico della teologia, la rivendicazione del corpo sessuato della donna, lo sviluppo di specifiche mariologie, il puntare su una spiritualità cosmoteandrica che stabilisca un nuovo rapporto con la natura [1].
Tra le esponenti di questa corrente si menzionano Ivone Gebara, Elsa Tamez, Elizabeth Schüssler Fiorenza, Maria C. Bingemer, María Pilar Aquino ed Elisabeth Johnson. Tuttavia, non si fa menzione all’importanza di Marcella Althaus-Reid, né tantomeno si allude (neanche in modo marginale) alla sua proposta della “teologia indecente”. È interessante osservare che, non solo Houtart, Díaz Núñez o Tamayo non la prendono in considerazione nei vari panorami della teologia femminista della liberazione, ma che perfino alcune teologhe della liberazione commettono la stessa omissione.
Tuttavia, prima di affrontare la “teologia indecente”, dobbiamo considerare alcuni punti del femminismo e della teoria queer che hanno reso possibile un’apertura verso il fenomeno socio-religioso.
Dio fa coming out [2]
Per Stéphane Lavignotte (2005) il dominio culturale del patriarcato e dell’eterosessismo ha generato un’implosione di correnti di teologie critiche che, da una prospettiva femminista, gay, lesbica o queer, rimproveravano alla Chiesa cristiana lo stato di segregazione delle donne nel magistero e, allo stesso tempo, svelavano il carattere storico del costrutto chiamato sessualità.
È evidente che all’interno di questa linea si siano prodotte delle continuità e delle rotture: per esempio, mentre la teologia femminista della “prima ondata”, impregnata di liberalismo, si preoccupava più delle questioni di uguaglianza sociale, la teologia femminista sessuale – già con influenze marxiste – fa emergere le relazioni di potere all’interno della Chiesa, muovendo inoltre una critica alla società capitalista (Althaus 2008).
Pur con antefatti e precursori (Elizabeht Cady Stanton) che risalgono alla fine del XIX secolo, la teologia femminista diventa ancor più effervescente nel 1968, anno in cui Mary Daly pubblica la sua opera La Chiesa e il secondo sesso, che ha sollevato un grande interesse non solo tra i lettori del movimento underground, ma anche tra gli studiosi di teologia.
Tanto Lavignotte (2005) quanto Althaus (2008) sono concordi sul fatto che la teologia femminista della “prima ondata” fosse focalizzata più su tematiche di uguaglianza di genere e sulla feroce critica alla visione di Dio Padre; di conseguenza, era necessario rompere con quell’immaginario patriarcale che legittimava il dominio sulla donna. Teologhe come Elsa Sorge e Dorothée Sölle avrebbero portato a termine questa missione.
Dall’altro lato, le teologie gay e lesbiche avrebbero portato ancor più lontano la critica al patriarcato e la denuncia contro il rifiuto delle comunità omosessuali. In questo contesto, le opere di Sally Gearhat, Bill Johnson, Malcom Macourt e John MacNeil hanno rappresentato dei tasselli chiave nella struttura della teologia gay e lesbica.
Nonostante tale prospettiva avesse reinterpretato in modo originale il concetto di “esodo”, la sua critica talvolta si è mantenuta all’interno del dibattito sull’identità. Pertanto, con lo sviluppo della teoria queer, intesa come corrente postmoderna [3] che considera la sessualità come un qualcosa “in movimento”, ovvero che non inquadra né fissa la sessualità in categorie chiuse, la teologia si è spinta verso terre inesplorate, dato che, se per la teoria queer la sessualità non è da intendersi da una prospettiva eterosessuale, il rischio è quello di cadere nel binarismo. Pertanto, la teologia queer interpella anche la realtà della bisessualità, del transgenderismo e della transessualità. Per dirla con le parole di Althaus (2008), il movimento queer è un “arcobaleno di identità sessuali”.
L’importanza di Elizabeht Stuart, Audre Lorde e Robert Goss nel gettare le basi teoriche di tale prospettiva teologica è cruciale, dal momento che questi autori ridimensionano l’amicizia a momento politico e sessuale. È per questo che, assorbendo criticamente presupposti foucaultiani che affrontano il tema della relazione tra il potere e il sapere, e tra il potere e la sessualità, la teoria queer opera una decostruzione degli “idoli” del matrimonio, dell’identità sessuale e della categoria di Dio. Inoltre, vengono incluse nuove prospettive affettive, nuovi orizzonti comunitari, con argomenti che contribuiscono alla riflessione dottrinale, liturgica e pastorale della Chiesa.
Inoltre, nell’impatto positivo dato tanto dal femminismo, quanto dalla teoria queer all’interno delle analisi marxiste, la filosofa italiana Cinzia Aruzza (2010) mette in risalto il fatto di aver affrontato il tema della natura non sessuata delle categorie, arrivando con ciò non solo ad un arricchimento del concetto di classe, ma anche ad una scaltra critica al binomio patriarcato-capitalismo [4]. In tal senso, la teoria queer non deve essere concepita soltanto come un ennesimo prodotto del postmodernismo spoliticizzato, ma come una provocazione verso gli studi critici della società, del potere e della cultura.
[1] Nell’America Latina sono stati organizzati alcuni congressi di teologia: Messico (1979), Buenos Aires (1985), Rio de Janeiro (1997).
[2] Riprendo questa espressione del pastore e militante ecologista Stéphane Lavignotte per fare riferimento allo spettro delle varie teologie gay e lesbiche create negli anni Settanta in California e a Londra, che successivamente si sono sviluppate grazie a figure di teologi come (tra gli altri) Robert Goss, Elisabeth Stuart e Audre Lorde.
[3] Per ragioni di spazio, non possiamo articolare qui la nostra posizione sul tema della postmodernità.
[4] Persino nei dibattiti interni al femminismo che rappresentano la dicotomia riconoscimento/redistribuzione; Aruzza (2010) mette in guardia, molto opportunamente, contro la trappla rappresentata da tale dicotomia, portando il movimento neozapatista e quello del black power come esempio per mostrare che la lotta per l’identità e quella per la giustizia sociale possono essere intimamente legate. Sebbene alcuni pensatori, come S. Zizek (2004) si mostrino scettici con questa posizione, per noi, come per S. Gandler (2009), si impone la necessità di riflettere sulla questione delle identità solamente legandola all’emancipazione della società, vale a dire al di là della società borghese-capitalista.
Testo originale: Dios sale del closet. Notas sobre teología indecente