Fabio di Palermo: “Sogno il giorno in cui non ci sarà più bisogno di una veglia contro l’omofobia”
Intervista a Fabio del gruppo Ali d’aquila, cristiani LGBT di Palermo, 23 aprile 2013
Mi chiamo Fabio, ho 30 anni, e faccio parte del gruppo “Ali d’aquila”, sorto a Palermo nel 2008 nella Chiesa di San Francesco Saverio di Palermo come luogo di incontro di persone omosessuali credenti che volevano vivere un cammino di fede e riconciliazione.
Da allora il gruppo si riunisce settimanalmente e condivide con la Comunità di San Francesco Saverio non soltanto lo stesso spazio fisico ma anche la medesima affinità elettiva.
La nostra rettoria, infatti, ospita parecchi gruppi, tra i più diversi, e sebbene non tutti ci conosciamo bene, di certo tutti abbiamo sperimentato in questa chiesa l’abbraccio di una madre accogliente, ritrovando in don Cosimo Scordato il Padre misericordioso della parabola di Gesù. La mia esperienza di fede, però, inizia prima di questo felice incontro e non si esaurisce nell’esperienza del gruppo “Ali d’aquila”.
Sono cresciuto in una famiglia di cattolici praticanti e sin dall’infanzia ho preso confidenza con gli ambienti ecclesiali. Si inizia come un “dovere”: i tuoi genitori ti conducono ogni domenica a messa, poi ti iscrivono al catechismo e ti chiedono di fare il chierichetto, quindi ci torni per ritrovare gli amici. Così la chiesa, per uno che la pratica sin da bambino, diventa un luogo di socializzazione primaria, oltre la scuola e la famiglia, e in breve tempo finisce per diventare il tuo principale luogo di crescita e di gioco: si forma la squadra di calcetto della tua parrocchia, si fa volontariato, si organizzano i ritiri spirituali, le gite, e gran parte della tua vita ruota attorno alla chiesa.
Tutta questa inculturazione ha probabilmente influito sul mio essere credente, ma la nostra educazione spiega solo in parte ciò che siamo. E’ vero che noi siamo anche tutto ciò che siamo stati, ma è pur vero che l’esperienza della fede e soprattutto dell’amore si fa solo crescendo e vivendo. Così, crescendo e vivendo, mi sono scontrato con i miei desideri intimi e le aspirazioni profonde che apparentemente sembravano andare in opposizione a tutto ciò che avevo appreso sull’omosessualità.
Da bambino ero omofobo anch’io. Nutrivo in me desideri diversi, l’attrazione per un compagno di classe invece della compagna, ma il senso di colpa per un errata introiezione dell’omosessualità mi faceva sentire sbagliato e rimandava indietro quella richiesta di autenticità. Leggevo per capire, ma più leggevo i documenti della chiesa più aumentava il disagio per le condanne senza appello: la chiesa, da madre, mi era diventava matrigna.
Sia in casa, sia a scuola, sia in chiesa – ad eccezione del confessionale – non si era mai trattato esplicitamente il tema dell’omosessualità: gli unici riferimenti relativi agli omosessuali erano nelle battute volgari, nelle offese o nelle barzellette.
Queste accuse non sono rivolte esclusivamente a chi è visto effettivamente come persona omosessuale, ma sono le prime e più ingiuriose diffamazioni rivolte a chiunque venga assunto come nemico, anche solo per scherzo. La prima conoscenza dell’omosessualità avviene perciò in negativo: seppure da bambino non sai bene cosa sia, apprendi inconsciamente che è qualcosa di sbagliato e impari a prenderne le distanze.
Questo fatto denota quanto profondo sia il livello di omofobia, cominciando proprio dalle parole, e ciò spiega anche perché alcuni omosessuali rifiutino le parole stesse che li definiscono, per l’ombra d’infamia legata alla parola. Solo se impari a difenderti e a farti scivolare di dosso le accuse riesci ad andare avanti, altrimenti rischi di crescere con molti complessi, scarsa autostima e frustrazione o depressione.
Purtroppo c’è chi non ce la fa, chi non regge il dolore, chi pur non arrivando all’estremo gesto, vive una vita nel nascondimento, o peggio senza passione, senza amore, ed è come un fiore che non sboccia e porta frutto, ed è già morto pur essendo ancora vivo. La voglia di vivere mi ha portato ad uscire dal mio guscio, a cercare fuori di casa, fuori la mia chiesa, fuori il mio stesso territorio.
All’inizio era più che altro un desiderio di fuga, per conoscere altri modi di vivere, altri modi di pensare, altre realtà. Ho compiuto così dei viaggi per cercare me stesso. A 21 anni mi sono iscritto ad un campo di volontariato internazionale in Germania, il mio primo viaggio da solo, un’esperienza che ha rafforzato il mio fare e il mio essere, ma è soprattutto negli anni successivi con l’esperienza dei campi “Agape”, a Prali e ad Albano Laziale, sui temi di fede e omosessualità, che sono riuscito ad affrontare alcuni nodi importanti della mia vita legati pure all’omofobia.
Intanto nel 2005 si andava formando anche a Palermo un gruppo di cristiani omosessuali, l’associazione “Koinonia”, che poi sarebbe confluita nell’Arcigay, pur mantenendo all’interno la possibilità di vivere e approfondire le tematiche di fede con incontri biblici che si svolgevano presso la chiesa valdese di via Spezio.
Conoscere la parola di Dio sotto una luce diversa, non più come condanna ma come amore, mi ha fatto scoprire il vero volto del Padre e ha rafforzato il mio essere più autentico.
Come hai scoperto le veglie per le vittime dell’omofobia?
Attraverso Internet siamo venuti a conoscenza della veglia per ricordare le vittime dell’omofobia e della transfobia in alcune città italiane e con il gruppo “Koinonia” abbiamo realizzato la prima veglia nella città di Palermo nel maggio 2007. La scelta della chiesa valdese fu quasi obbligata, poiché lì avevamo accoglienza come gruppo. Nello stesso periodo si chiuse l’esperienza di quell’associazione, ma l’anno successivo fu forte l’esigenza di riproporre una veglia di preghiera per ricordare le vittime della violenza omofobica.
Alcune delle persone che presero parte a quella prima esperienza, insieme ad altre nuove, organizzarono una nuova veglia, chiedendo ospitalità alla chiesa cattolica di San Francesco Saverio. Da quell’esperienza di preghiera nacque il nuovo gruppo “Ali d’aquila”, per la volontà di proseguire un cammino di fede e verità, conoscenza e consapevolezza, e per crescere sia come cristiani che come omosessuali, dando valore alla nostra vita proprio a partire dal nostro essere. In questi anni il gruppo ha cercato di riproporre le veglie in chiese diverse, per non rimanere chiusi nella nostra isola felice ma per gettare questi semi di pace nella chiesa universale.
Tutto questo ci ha portati a fare passi di visibilità imprevisti e ad avere un’attenzione mediatica non ricercata, soprattutto nel momento in cui il Cardinale ci ha vietato di realizzare la veglia in una chiesa cattolica, chiudendoci la chiesa prescelta sia nel 2010 che nel 2011. Quegli eventi dolorosi hanno poi avviato un dialogo con l’Arcidiocesi e nell’ultima veglia del 2012 abbiamo potuto pregare in un’affollata parrocchia cattolica, la chiesa di S. Gabriele Arcangelo, con la presenza di un delegato arcivescovile, segno visibile della riconciliazione e di un cambiamento che abbiamo sperato e vissuto.
Secondo te quale messaggio importante le veglie di preghiera per le vittime dell’omofobia lanciano a tutti i credenti delle nostre chiese.
Le veglie di preghiera sono un segno di pace, rispetto e fratellanza, che non può non essere accolto da tutte le chiese cristiane. L’amore è ciò che ci accomuna e che ci rende fratelli e simili al Padre. Questa veglia è in particolare contro l’omofobia e la transfobia, ovvero contro la violenza che si ritorce verso le persone omosessuali e transessuali per il solo fatto di essere se stessi ed esistere in quanto tali.
E’ una violenza cieca che aggredisce non tanto e non solo la persona, ma soprattutto ciò che rappresenta, la sua diversità che non viene accettata. La violenza va sempre condannata, e la preghiera si rivolge sia alle vittime che ai carnefici, come ci insegna Gesù: dobbiamo pregare anche per i nostri nemici. Qui non vi sono intenti diversi al di fuori della preghiera, del ricordo e della memoria che deve farsi viva ed attuale.
La veglia non deve restare confinata all’interno delle chiese, ma incarnarsi nelle nostre vite. Vegliare contro l’omofobia significa anzitutto riconoscere l’omonegatività in tutte le sue forme, e poi assumere ogni iniziativa per contrastarla, prendendo una posizione esplicita e non tacita, poiché il silenzio può essere letto come assenso nei confronti delle discriminazioni. L’omofobia si presenta in diversi modi e la violenza fisica è solo la parte più visibile e forse minoritaria: il più delle volte, l’omofobia che si vive nel nostro paese è una discriminazione che si attua anzitutto nel linguaggio. In ogni contesto di vita, dalla scuola al lavoro, dalla famiglia al gruppo dei pari, dallo Stato alla Chiesa, si vivono spesso discriminazioni che iniziano con il linguaggio e anche se non diventano violenze fisiche restano pur sempre violenze psicologiche, che segnano prima l’anima e poi il corpo stesso della persona, che cresce ripiegato con poca stima di sé, degli altri e della vita. Il linguaggio è una cartina al tornasole del modo di pensare e di vedere la realtà e bisogna stare molto attenti quando si parla, specie se si usano stereotipi. Le parole sono come pietre.
La discriminazione verso gli omosessuali ha inflitto una condanna a un insieme indistinto di persone, accomunate solo dalla parola “omosessuali”, a prescindere poi dai pregi o difetti delle storie di ognuno. La veglia per ricordare le vittime dell’omofobia serve a ridare dignità a umanità violate, dare senso e valore alla specificità di ogni singola vita, in particolar modo se la sua storia è stata denigrata.
Vogliamo convertire l’odio della violenza in una preghiera che possa risanare quelle ferite. Davanti alla violenza e alle offese dell’umanità nel mondo, noi cristiani non possiamo restare fermi o in silenzio ma dobbiamo operare per una trasformazione, e per i credenti il cambiamento avviene anche (ma non solo) attraverso la preghiera con cui entriamo in relazione tra noi e Dio.
Secondo te le veglie di preghiera per le vittimi dell’omofobia hanno favorito un cambiamento nelle persone che hanno condiviso con te questo momento…
Non posso essere certo che le veglie di preghiera cambino gli altri, ma di certo hanno operato un cambiamento in me. In questi anni è aumentata la mia consapevolezza della realtà circostante e di me stesso, ho vissuto un cambiamento di atteggiamento personale e della chiesa, siamo passati dalle decine di persone delle prime veglie alle trecento persone dello scorso anno. Soprattutto, abbiamo la percezione di non essere più soli.
La veglia di Palermo non è più organizzata solo da un gruppo di credenti omosessuali, ma insieme ad altre comunità cristiane di diverse confessioni, unite nella preghiera, insieme nelle diversità: questa è la chiesa di Cristo.
Con quale speranza parteciperai alla veglia di quest’anno?
Io ho un sogno: il giorno in cui non ci sarà più bisogno di una veglia contro l’omofobia e la transfobia e l’esistenza stessa di un gruppo di omosessuali credenti non sarà più necessaria per portare all’attenzione le problematiche relative alla discriminazione delle persone LGBTIQ (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, intersessuali, queer).
Quello sarà il segno dell’avvento del Regno di Dio, dove non ci sarà più giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, poiché tutti siamo uno in Cristo Gesù (Galati 3,28). Noi vogliamo vivere nella chiesa come tutti gli altri, e non crearci una nostra chiesa.
In questo momento storico c’è bisogno di fare gruppo per avere maggiore attenzione e risonanza e non certo per creare ulteriori ghetti o divisioni. La Chiesa di Cristo è una, e anche noi siamo membra del suo corpo: chi disconosce anche una sola delle sue parti, disconosce il tutto, e forse disconosce anche Dio.