Gesù vorrei restassi sempre così
Riflessioni di Luigi Testa
Forse in questi giorni l’ho pensato anche io: «Vorrei restassi sempre così». Succede a tutti i genitori, a tutti quelli cui è dato un figlio – «un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato»; anche a me. Ti guardo piccolo sorridermi, ti guardo mentre dormi, mentre ti fai prendere in braccio senza opporre resistenza, ti fai mangiare di baci, e ridi alle mie smorfie che sembra che il bambino vero sia io, non tu, e penso: «Vorrei restassi sempre così». Vorrei che non crescessi mai. Perché i bambini, quando crescono, non sono più nostri.
Quando crescono, dicono cose che non avremmo voluto sentirgli dire. «Beati i poveri». «Beati voi quando vi insulteranno». «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio», addirittura. «Amate i vostri nemici». «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti». «Va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri». «Il mondo vi odia». «Non chi dice “Signore, Signore”…». «L’avete fatto a me». «Prenda la sua croce e mi segua». «Non vi affannate ad accumulare tesori sulla terra». «Chi avrà conservato la sua vita, la perderà». «Se il chicco di grano caduto a terra non muore…». «Chi è il più grande tra voi, sia il vostro servo». Era più bello, Gesù, quando eri bambino, e sorridevi alle mie smorfie.
Quando crescono, i bambini dicono cose che feriscono. «Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me». «Togli prima la trave dal tuo occhio». «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». «I pubblicani e le meretrici vi passano avanti nel Regno di Dio». E tutte quelle parabole: «Legatelo mani e piedi e gettatelo nelle tenebre»; «Verrà il padrone e lo farà a pezzi»; «In verità vi dico: Non vi conosco»; «Servo malvagio e infingardo». E poi, a quei farisei, cui somigliamo tanto: «ipocriti», «guide cieche», «razza di vipere», «serpenti». Eri così dolce, invece, Gesù, quando eri piccolo e io ti cullavo per farti addormentare.
Quando crescono, i figli fanno scelte che noi gli avremmo impedito. Forse, ad esempio, era meglio non guarire il lebbroso, né il ragazzo del centurione, né la suocera di Pietro o l’emorroissa per strada. «La notizia si divulgò per tutta quella regione», ed è lì che cominciarono i guai. Forse era meglio non mischiarsi troppo con Giovanni Battista, senza elogi, senza farsi vedere insieme.
Era meglio non moltiplicare i pani, non camminare sulle acque. Soprattutto forse era meglio non strappare quelle spighe di sabato, e lasciar perdere la mano paralizzata di quell’uomo in sinagoga. Che hai fatto, Gesù? Non stavamo meglio io e te, da soli, quando tu eri bambino e io ti tenevo in braccio?
Quando crescono, i bambini non sono più nostri. «Tutti ti cercano», e ti invitano, e ti chiamano, e ti portano via. E tu stai sempre meno con me, e stiamo sempre meno tempo da soli. Dici che non hai dove posare il capo, ma è perché sei tu che non vuoi fermarti: potresti restare qui, ad addormentarti sul mio petto, come quando eri bambino. E invece sei di chiunque ti cerchi. Cercano le tue mani per toccarle – e non sono più solo mie, come quando eri bambino, da mangiare di baci. Quella donna si mette a terra a coprirti di baci i piedi – e io ne sono geloso, perché una volta, quando eri piccolo e ti tenevo in braccio, lo facevo solo io.
In fondo, comincia e finisce tutto alle stesso modo. All’inizio c’è un parto, e ci mettiamo una vita a capire che ogni parto è una separazione: è lasciar partire. E alla fine ci sei tu nel giardino che mi dici: «Non mi trattenere» – di nuovo una distanza, di nuovo un lasciar partire.
Devo imparare questo, Gesù: a lasciare che tu sia altro da me – a partorirti, a non trattenerti, a non immaginarti come una parte di me che io posso gestire, difendere, conservare. A non proiettare le mie aspettative, le mie speranze deluse, i miei progetti falliti su di te, come si fa a volte su un figlio. Ma a lasciare che tu mi dica anche le cose che non vorrei sentirmi dire; che tu mi dica le cose che mi feriscano anche; che tu faccia anche scelte che io non capisco; che tu sia tutto di chiunque come sei tutto mio.