Il DDL Zan e le divisioni nel movimento femminista
Riflessioni di Dea Santonico
Il ddl Zan ha fatto emergere una divisione nel movimento femminista in particolare sulla questione “identità di genere”, definita così nell’art. 1 della legge: “Per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”. Esempio di non corrispondenza è una persona di sesso maschile, che si percepisce e si manifesta come donna.
Alcune femministe vedono in questo il rischio di annullamento del dato biologico, di una cancellazione, un appiattimento della differenza fra i sessi. La definizione nell’art.1 le preoccupa particolarmente nella sua conclusione: “indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”. Il rischio che viene visto è che, in assenza di una certificazione ufficiale, un uomo possa dichiararsi donna, sulla base di una percezione di sé, di una autocertificazione, e, così facendo, possa partecipare come donna a gare sportive femminili, entrare nelle carceri, nei bagni e negli spogliatoi femminili, mettendo le donne a rischio di stupro, sottrarre quote rosa, ledere quindi diritti civili e sociali conquistati dalle donne negli anni con le loro battaglie.
Molte altre parole sono state scritte da femministe che sono contrarie al ddl, che non cito per paura di sbagliare, perché, vi confesso, qualche volta ho difficoltà a capirle. Non basta essere donne, laureate, aver condiviso il cammino del movimento femminista, per capirle. La domanda è lecita: A chi parlano?
Chi conosce persone trans, le loro storie di sofferenza, gli stigmi sociali e le violenze che subiscono, i tentativi di suicidio – a volte riusciti – per liberarsi da un corpo che non sentono loro e che vivono come una gabbia, sa bene che MAI un uomo si dichiarerebbe donna se questo non fosse ciò che vive, ciò che è, se quella non fosse la verità che, nonostante tutti i disperati tentativi di negare a se stesso/a, una voce interiore, che non può essere messa a tacere, urla.
Ma tornando al ddl, la domanda fondamentale da porsi è: C’entra il ddl Zan con tutte le questioni menzionate? Con la maternità surrogata, la gestazione per altri, che qualcuno/a dice verrà sdoganata con questa legge? La risposta è NO, niente di tutto questo. Ma allora – è bene chiederselo – perché, parlando del ddl Zan, si tirano fuori tante questioni che sono assolutamente estranee alla legge?
Il ddl non regolamenta la transizione, non si occupa di certificazioni ufficiali o non. È un’altra legge che lo fa. Il ddl si occupa solo di proteggere persone vittime di violenza e discriminazione, e per farlo non richiede nessuna certificazione. È questo e solo questo il senso di ciò che l’art. 1 dice (“indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”): il ddl non cambia nulla rispetto ai processi di certificazione, dice solo che non li considera e protegge sempre e comunque una vittima, senza richiedere che abbia i documenti “in regola”, che certifichino lo stato del suo percorso di transizione.
Sulla protezione delle persone trans nessuna femminista si dichiara contro, ma cerchiamo di capire se la variazione alla legge che alcune propongono, per superare i rischi che vedono, risolverebbe o no il problema che il ddl vuole affrontare. Questa la variazione proposta: nella legge si dovrebbe parlare esplicitamente di protezione di persone trans, invece che di contrasto alla violenza e alle discriminazioni per motivi legati all’identità di genere.
Ci aiuta a capire un esempio. Se io, che non sono una donna trans, venissi aggredita da qualcuno che mi ritenesse tale, il mio aggressore verrebbe punito dalla legge Zan, perché conta il motivo dell’aggressione, non il fatto che io sia o no trans. Questo non succederebbe se la legge parlasse di protezione di persone trans, perché io non lo sono.
Ma quel che è peggio è che con questa variazione non sarebbero protette tutte quelle persone che non si riconoscono nel genere dichiarato alla nascita, ma che non possono dimostrare di essere trans, per esempio perché non si possono permettere un percorso di transizione, molto lungo e costoso dal punto di vista legale e medico. Cambiando la legge nella direzione indicata da queste femministe introdurremmo quello che un tempo chiamavamo discriminazione di classe: chi non può pagarsi il percorso di transizione, se vittima di violenza, non avrebbe protezione dalla legge.
Per ottenere il risultato di rendere il ventaglio delle tutele il più ampio possibile, serve una formulazione per definire la causa del crimine d’odio, e tale formulazione è quella usata nella legge Zan. Il punto per il ddl non è come si qualificano le vittime, ma la motivazione dell’aggressione: alle vittime non è richiesto di dimostrare niente.
Noi donne, che abbiamo gridato la nostra indignazione quando le donne vittime di violenza dovevano salire sul banco degli accusati per giustificarsi di come erano vestite, del perché erano fuori a quell’ora, e per dimostrare che non se l’erano cercata, non possiamo chiedere ad altre vittime, alle donne trans, di doversi giustificare, di dimostrare qualcosa per essere protette da atti di violenza. Non possiamo farlo nel rispetto della nostra storia.
Per punire chi commette il reato e non la vittima, la legge va lasciata com’è. E la bella notizia è che non toglie niente a noi donne. Con me lo pensano tante donne del movimento e non.
Quello che ho detto fin qui nasce dal mio approfondimento della legge, di ciò che sulla legge si è detto e dalla mia esperienza. È quello che penso, ma voglio chiudere dando spazio a ciò che sento, ed esprimere tutta l’amarezza che mi porto dentro di fronte alle tante persone, magari favorevoli al ddl, che dalla base non hanno fatto propria questa battaglia, considerandola di nicchia, non cogliendo forse la posta in gioco che c’è dietro, le implicazioni sul piano politico, sociale e umano.
La mia amarezza come persona di sinistra che vede il Senato da mesi sotto scacco da parte delle destre, anche se almeno per ora non sono la maggioranza in Parlamento, come cristiana, che vede una volta di più il messaggio evangelico umiliato da una Chiesa di potere, come donna femminista, che rischia di sentirsi straniera in un territorio che ha vissuto come casa, come mamma di un ragazzo gay, che, parlando del ddl Zan, ha davanti agli occhi volti di persone LGBT+, le loro lacrime, la loro rabbia, le loro speranze di avere anche in Italia una legge che le protegga, dopo 25 anni di tentativi falliti.