Il dolore dei miei genitori al mio coming out di donna trans
Riflessioni pubblicate sul blog CatholicTrans* (Stati Uniti) il 28 giugno 2015, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro, prima parte
Cari genitori (e fratelli, sorelle, parenti, persone care) di persone transgender, vi scrivo questa lettera perché non voglio che quanto è accaduto a me accada anche ad altri. Se conoscete una persona transgender, e la amate, non ho dubbi che vogliate solo il meglio per lei; spero di poter unire le mie forze alle vostre per un momento, per far sì che quella persona che voi amate riceva le vostre attenzioni.
Ciò che dirò non è un saggio, né un manifesto transessualista; vorrei solo parlare della mia esperienza personale perché possiate conoscere anche i sentimenti di una persona transgender che non conoscete, dato che certe persone ci sono talmente vicine che non riusciamo a vederle con chiarezza. Spero che con l’intrusione della mia voce possiate sentire più chiaramente la voce della persona transgender che amate.
Se vi ritrovate in qualche aspetto della mia esperienza, vi invito caldamente a farlo vostro. Non conosco la vostra situazione, non posso vivere il dolore al posto vostro, posso solamente vivere la mia esperienza e dare uno sguardo all’esperienza di chi mi è più vicino. Generalizzerò partendo dalla mia vita, ma vi invito a prendere soltanto ciò che ha senso per voi, alla luce della vostra situazione personale.
La mia esperienza
In un modo o nell’altro, per quanto mi ricordi, ho sempre avuto la disforia di genere. Da bambino questa esperienza era segreta: mi sentivo diverso dagli altri, in un modo che non sapevo esprimere a parole. I miei genitori non ne sapevano nulla: ero un bambino tranquillo, che si lamentava poco anche se era sempre malato, e che obbediva ai famigliari (e ai coetanei) senza discussioni. All’età di quattro o cinque anni cominciai a vestirmi da donna, quasi sempre segretamente. I miei genitori mi videro poche volte per sbaglio vestito da donna, e rubricarono la faccenda come “normale per un bambino”, ma non avevano idea di quanto spesso lo facessi. Non era colpa loro. Fin da piccolissimo avevo intuito che era “male” il fatto di non conformarsi, così nascondevo tutto sotto il tappeto. I miei genitori non ne sapevano nulla, perché nulla lasciavo trapelare: i bambini sanno essere sorprendentemente intuitivi, e paurosamente ingannatori.
Quando, attorno ai tredici anni, iniziò la mia pubertà maschile, la mia disforia di genere passò da una quieta perplessità a una devastante agonia, come se il cervello e il corpo stessero volando in direzioni opposte e io fossi stato in mezzo, stirato come un chewing-gum. Il mio corpo diventava sempre più maschile e i miei coetanei diventavano sempre più esigenti, così mi trovai a non poter più seguire la corrente come facevo da bambino: ora dovevo sforzami di più, e più consapevolmente, per compiacere gli altri e nascondere il mio segreto. Al mondo esterno presentavo la mia parte maschile, ma poi la sera mi rifugiavo nella mia stanza e me ne stavo lì sdraiato per ore e ore a fantasticare su vestiti da sposa e gonne anni ‘50.
Quella doppia vita mi esauriva e ogni anno ci voleva sempre più energia mentale per zittire la mia identità femminile e continuare a fingere di essere maschio. Ce la mettevo tutta per accettare ”la mascolinità che Dio mi aveva assegnato”; nel frattempo chiudevo sempre più ermeticamente il mio cuore, fino al punto di non provare quasi più nulla. Le uniche speranze e gli unici sogni che avevo erano quelli che gli altri mi imponevano.
Dopo ventun’anni di questa vita, collassai. Avevo consumato la mia vita e le mie forze per fingere di essere un maschio: avevo prosciugato ogni goccia di energia. A malapena ogni mattina riuscivo ad alzare la testa dal cuscino. Volevo continuare ad essere la persona che voleva la mia famiglia, ma semplicemente non era possibile. Soffrivo sempre più frequentemente di esaurimenti emotivi. Quando il mio serbatoio era vuoto, la cortina che tenevo disperatamente alta per nascondermi cadeva immediatamente al suolo, perché le mie mani non ce la facevano più a tenerla.
Alla fine feci i conti con ciò che avevo vissuto per ventun’anni, ma non fu una mia scelta. Ammisi la mia forte disforia di genere e concessi al mio cuore, per la prima volta dopo molti anni, di parlare e di ammettere il motivo della mia disforia di genere: Mi sento una ragazza. No, non mi sento femminile, mi sento una ragazza nel senso pieno del termine, fino al midollo delle mie ossa, una ragazza che tutti, proprio tutti, scambiano per un ragazzo.
Lo dissi ai miei genitori: fu l’esperienza più terrificante della mia vita. Dopo aver pensato per ventun’anni che dovevo presentare una certa facciata al mondo perché questo mi accettasse, in quel momento di rivelazione il mio amor proprio conobbe una svolta. I miei genitori erano comprensibilmente scioccati, confusi, feriti, impauriti, e la loro prima reazione fu affermare che quella era una menzogna di Satana e che dovevano pregare molto per me in modo da espellere il demone transessuale.
Non rimasi particolarmente colpita dalla loro reazione iniziale, perché riuscivo a mettermi nei loro panni. Era una cosa di cui non avevano avuto il minimo sentore (ma era mia la colpa). Per far fronte allo shock, ricorsero alla spiegazione più semplice e più a portata di mano: mi ci aveva spinto Satana.
Dopo d’allora avemmo molte discussioni, il più delle volte molto dolorose per tutti e tre. Avevamo molto da dire, ma non potevamo parlare, perché le nostre emozioni ci travolgevano. Avevano molte teorie sul fatto che quello che stavo dicendo era sbagliato; mia madre mi allungò in lacrime un album da disegno di quando ero bambino e mi mostrò disegni di pirati e cowboys: “Questo è il bambino che conoscevo. Tu eri maschio!”.
In quelle discussioni, in realtà, ognuno parlava per conto suo. Parlavamo delle Scritture, della tradizione della nostra Chiesa, di cosa aveva potuto farmi diventare transgender e di molte altre cose ancora, ma il dolore dell’altro, quello non riuscivamo a percepirlo. Né io né loro eravamo consapevoli del dolore dell’altro, perché già soffrivamo per conto nostro. Non penso fosse colpa di qualcuno, ma andò in quel modo perché non eravamo in grado di dire da dove venisse davvero tutto quel dolore.
Ora è troppo tardi per discutere. Il nostro rapporto è talmente compromesso che solo un miracolo divino potrebbe guarirlo. La mia famiglia ha rotto i ponti con me, e non posso nemmeno vedere i miei fratelli e sorelle più giovani. La mia famiglia si è spezzata, e io sono sola al mondo. I miei genitori soffrono più del sopportabile, come me del resto. Riscriverei tutta la nostra vicenda, se potessi, ma una cosa che posso fare è aiutarvi in ogni modo possibile. Soffrirete comunque, ma un po’ di dolore può essere evitato.
* Salve, e benvenut* su CatholicTrans. Questo blog è partito da un’iniziativa personale mirante a conciliare la fede in cui sono cresciuta con la mia identità transgender; nel tempo è poi cresciuto organicamente, fino a diventare una risorsa non solo per me stessa, ma anche per altr*. CatholicTrans è un tentativo di contrastare la marea di disinformazione sul tema e di creare uno spazio web che fornisse informazioni affidabili e non impregnate di paura sulle tematiche transgender da un punto di vista cattolico e cristiano. Questo blog è un progetto intersezionale, che tratta in maniera molto specifica delle identità e delle esperienze trans da un punto di vista decisamente cattolico. Detto questo, tenete conto del fatto che esso non rappresenta necessariamente né il mio punto di vista personale (non sono più cattolica), né quello del movimento transgender nella sua interezza. Anche se questo blog rappresenta solo una piccola parte di ciò in cui credo, rimango fortemente convinta che l’unico modo per la tradizione teologica cattolica di essere logicamente coerente e autenticamente compassionevole è accettare di tutto cuore i suoi figli e le sue figlie trans*.
Testo originale: TO GRIEVING CHRISTIAN PARENTS OF A TRANSGENDER PERSON