Il nostro matrimonio queer benedetto da un prete e da Dio deve essere per tutti
Articolo di Katherine Hunt* pubblicato sul sito The Lily del Washington Post (Stati Uniti) il 29 marzo 2021, liberamente tradotto da Silvia Lanzi
Un prete ha benedetto il mio matrimonio queer. Le coppie cattoliche meritano altrettanto. Un recente documento vaticano ha deciso di privare i cattolici LGBTQ di qualcosa di più sostanziale di una cerimonia. Un decreto ufficiale del Vaticano ha fatto scoppiare la bolla di beatitudine per il mio recente matrimonio.
Il mese scorso, un sacerdote episcopaliano ha benedetto il mio matrimonio omosessuale. L’esperienza mi ha profondamente commossa; mi ha offerto qualcosa di inaspettatamente intenso.
Ma un recente decreto proibisce ai sacerdoti cattolici di benedire qualunque tipo di unione omosessuale. Capisco che i cattolici LGBTQ abbiano ragione di sentirsi addolorati per questa speranza perduta: la proibizione priva i cattolici LGBTQ di qualcosa di più importante di una cerimonia.
Far parte della comunità queer e di quella ecclesiale è come cercare di stare in equilibrio. Quando io e mia moglie abbiamo mandato gli inviti per il nostro matrimonio di febbraio via Zoom, ho pensato di includervi un avviso — qualcosa del tipo, “Sarà una cosa un po’ tradizionale”
Per molte persone queer, le Chiese sono una fonte comune di traumi. L’eterosessismo religioso legittima l’omofobia. Rende il mondo meno sicuro per noi. Quando si confondono stigma e dogma, si può percepire il livore come santità.
Molte inclinazioni nocive hanno trovato giustificazione nelle Chiese: dall’ostracizzare i ragazzi queer, al legittimare le terapie di conversione, al giustificare la violenza omofoba.
Usare la dottrina per giustificare le discriminazioni, significa rafforzare i pregiudizi e dare una legittimazione morale agli stereotipi sociali. Spinge persino le persone intorno a noi a mettere in discussione la nostra moralità e il nostro senso di appartenenza, escludendoci improvvisamente supporti sociali legati ai luoghi di culto.
Così mi sembrava di chiedere molto ai nostri ospiti ovvero di celebrare il nostro matrimonio queer in un luogo legato esplicitamente alla non-accettazione e all’odio nei nostri confronti.
Anche alcuni dei nostri ospiti avevano delle riserve. Una manciata di nostri parenti cristiani e conservatori percepivano come offensivo un matrimonio lesbico celebrato in una chiesa. Qualcuno rifiutò addirittura di partecipare.
Per diverse ragioni, alcuni dei nostri cari faticavano ad immaginare noi due che iniziavamo la nostra vita di coppia sposata in una chiesa. Ma mia moglie ha la notevole capacità di immaginarsi in posti che vorrebbero farla sentire totalmente estranea.
Nata nel South Carolina, mia moglie è cresciuta nella chiesa. È stata fondamentale per la sua cultura e la sua vita famigliare. Quando capì di essere lesbica, ha resistito allo stigma della sua Chiesa e della sua famiglia. Ha sopportato le ferite ed è andata avanti.
Mi moglie ha interpretato la sua omosessualità come una complessa prova spirituale datale da Dio. È rimasta nella sua Chiesa, determinata a discernere i suoi doni all’interno della sua diversità.
Anche la mia fanciullezza nella Chiesa è stata nascosta. Mi avevano insegnato che la mia corporeità era peccato. Come queer, amare in modo conforme a come Dio mi aveva creato era peccato. Allo stesso tempo, mi insegnavano che Dio era amore. L’ipocrisia spezzò il mio spirito. Dopo parecchie ferite, lasciai. È successo quindici anni fa. Non potevo resistere alla vergogna, quanto la donna coraggiosa che ho sposato.
Nel luglio 2019, abbiamo scelto gli anelli e le ho chiesto di sposarmi. Lei mi ha chiesto se volevo sposarla con una cerimonia cristiana. Per me era molto importante onorare il suo coraggio spirituale.
Trovammo, vicino casa, una piccola chiesa di pietra a Manhattan che esponeva una bandiera Rainbow e uno striscione del Black Lives Matter. Chi ci andava credeva in una versione di Dio che assomigliava a quella della nostra infanzia, che non sembrava far odiare se stessi e, per estensione, gli altri.
Per più di un anno, avevamo incontrato un prete episcopaliano che ci ha preparato al matrimonio. Avevamo approfondito con cura le domande di senso più importanti, sull’uguaglianza, le nostre motivazioni e su Dio.
Aspettavo sempre di sentirmi dire che, dopo tutto, non avevamo passato il corso. Ogni volta che pregavamo o leggevamo le Scritture, sostituivo mentalmente le parole “Dio” e “Gesù” con la parola “amore.”
Per me, funzionava. Mi aiutava a pensare a cosa mi era stato insegnato, piuttosto che alla bigotteria che così spesso si nascondeva in quelle regole. Quegli incontri cominciavano a piacermi.
Poi il mondo cambiò. Passammo qualche crisi familiare e di salute. Il coronavirus colpì. Il corso per fidanzati e tutte le altre attività parrocchiali diventarono online. Riprogramma il matrimonio tre volte. Pian piano il nostro parroco diventò per noi guida e fonte di conforto. Alla fine decidemmo che la data della cerimonia sarebbe stata il 13 febbraio 2021.
Non dimenticherò mai, quando vidi per la prima volta mia moglie nel giorno del matrimonio, l’espressione sul viso pieno d’amore. Sembrava piena di speranza, fiduciosa e vulnerabile. Mi sembrava di poterla vedere durante tutta la sua vita.
Potevo vedere il suo cuore sperare per cose che aveva lasciato andare. Potevo vederla da bambina. Potevo vedere i suoi piedini penzolare dal banco, imparare a non sognare di camminare, un giorno, nella navata di una chiesa per sposare un’altra donna. E poi la vedevo ancor più piccola, prima che le dicessero di essere più “contenuta”.
Il nostro prete ci incontrò nella chiesetta di pietra.
Le nostre famiglie e i nostri amici si misero in ghingheri e si unirono virtualmente a noi. Credo che nessuno sapesse esattamente cosa aspettarsi. Fortunatamente, quello a cui assisterono era assolutamente familiare: promettemmo di condividere le nostre vite. Ci furono la musica, letture, preghiere, lacrime, anelli e parecchio amore.
Il nostro prete indossava i paramenti con il collarino regolamentare, sembrando ancora di più un simbolo della Chiesa. Unì le nostre mani, le avvolse nella sua stola, e chiese a Dio di benedire la nostra unione. In quel momento, sentivo che le vecchie ferite iniziavano a rimarginarsi.
Lungi dall’essere una condanna era un balsamo. Eravamo su un terreno sacro. Mi sentivo pienamente vista, conosciuta e rispettata. Le tradizioni culturali legano le persone di generazione in generazione. Ci ricordano dell’umanità che condividiamo. Mi si spezza il cuore, sapendo che molti fratelli e sorelle LGBTQ sono ancora privi di tutto questo.
Il Vaticano ha proibito ai sacerdoti di benedire le unioni gay perché “non si può benedire il peccato.” “Peccato” è una di quelle parole taglienti, emotive, che suscitano un senso di colpa impenetrabile e nebuloso. Ma il peccato è, semplicemente, ciò che si frappone tra noi e Dio.
Nella religione cristiana, il matrimonio è un sacramento istituto da Dio. Vorrei dire ai miei fratelli e sorelle cattolici LGBTQ che matrimoni come i nostri non sono peccaminosi. Ci avvicinano l’un l’altro e ci avvicinano al divino. Peccaminoso è impedire ai sacerdoti di invocare la benedizione di Dio.
Il sacerdote che ha benedetto la nostra unione non aveva alcun potere speciale. Era una persona, proprio come noi. Ma ci sono anche sacerdoti che cercano di convincere le persone che l’amore di Dio è troppo meschino per l’uguaglianza (tra le persone omo ed eterosessuali), perchè sono tutti esseri umani. Chi ha l’autorità, ha anche la responsabilità di aiutare a ripristinare ciò che le loro istituzioni ci hanno rubato.
Il nostro matrimonio in chiesa ha realizzato, nella nostra famiglia, qualcosa che anni di dibattito teologico e dolorose discussioni a tavola non potevano nemmeno iniziare a scalfire. Ci ha concesso la dignità di reclamare il nostro posto nella comunità ecclesiale.
Si sentiva la presenza di Dio. Forse Dio è amore, come crede il mio parroco, o Gesù, come crede mia moglie, o è una bontà ineffabile, come penso io. Il mio cuore si intenerisce all’idea che, tra tutte queste definizioni, forse non c’è una differenza significativa.
* Katherine Hunt è una scrittrice freelance di New York.
Testo originale: A priest blessed my queer wedding. Catholic couples deserve the same