Chi era San Luigi Gonzaga, santo protettore dei giovani
Testo di padre James Martin SJ* tratto dal suo libro My Life with the Saints (La mia vita con i santi) e pubblicato sul sito del settimanale gesuita America (Stati Uniti) il 21 giugno 2013, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Il 21 giugno cade la ricorrenza di uno dei santi meno compresi della Chiesa Cattolica: san Luigi Gonzaga. Un po’ di storia può aiutarci a comprendere meglio questo complesso giovane santo, uno dei patroni della gioventù. Cerchiamo di recuperare l’autentico Luigi nella sua vera identità.
Luigi Gonzaga va protetto dalle mani di artisti anche troppo pii. Nei santini e nelle innumerevoli raffigurazioni che lo ritraggono, il giovane gesuita è solitamente ritratto con una talare nera come la notte e una cotta del bianco più bianco, che contempla beato l’elegante crocefisso che tiene con le sue mani sottili e curate. Spesso, per non farci mancare nulla, vicino a lui troviamo un giglio, simbolo della sua castità religiosa.
In se stesse, queste immagini non hanno nulla di sbagliato, eccetto il fatto che oscurano quella che fu una vita tutt’altro che delicata e impediscono a cristiani giovani e meno giovani di identificarsi con lui che, a dire la verità, era, sotto più di un aspetto, un ribelle.
Luigi Gonzaga nacque il 9 marzo 1568 a Castiglione delle Stiviere [in provincia di Mantova] da un ramo di una delle più potenti famiglie del Rinascimento italiano. Suo padre Ferrante era marchese di Castiglione; sua madre era dama di compagnia della moglie di Filippo II di Spagna, nella cui corte il marchese Gonzaga aveva una posizione eminente.
Luigi era il maschio primogenito e in lui erano concentrate le speranze del padre per il futuro della famiglia. Fin dall’età di quattro anni Luigi riceveva in dono armi giocattolo e accompagnava suo padre nelle esercitazioni militari, così che potesse imparare “l’arte delle armi”, come scrive Joseph Tylenda SJ nel suo libro Jesuit Saints and Martyrs (Santi e martiri gesuiti). In queste occasioni imparò anche diverse parole salaci dai soldati, con grande costernazione della sua nobile famiglia. Ferrante era così ansioso di preparare il figlio al mondo degli intrighi politici e delle imprese militari che gli procurò un’armatura della sua taglia di bambino e lo teneva accanto a lui mentre passava in rivista le truppe. All’età di sette anni, tuttavia, Luigi aveva altre idee e decise di essere poco interessato al mondo di suo padre e attratto da un tipo di vita molto diverso.
Ferrante era tuttavia conscio delle potenzialità del figlio ed era entusiasta al pensiero di renderlo erede del marchesato. Nel 1577 mandò Luigi e suo fratello Rodolfo alla corte di un amico di famiglia, il granduca di Toscana Francesco de’ Medici, dove i due giovani avrebbero dovuto acquisire la maniere necessarie per ben figurare nella corte. Luigi però, lungi dal rimanere affascinato dagli intrighi e dalle pugnalate alle spalle (letterali e non figurate) che caratterizzavano il mondo decadente dei Medici, si ritirò in se stesso e si rifiutò di partecipare a quello che considerava un ambiente corrotto. A dieci anni, disgustato da ciò che vedeva, fece voto privato di non mai offendere Dio con il peccato.
Fu in quel periodo che Luigi iniziò seriamente le pratiche religiose, spesso molto severe, che lasciano perplessi i nostri contemporanei, i quali le giudicano segno di un animo abnormemente morboso, soprattutto visto che era ancora un bambino. È soprattutto per questa ragione che la sua vita oggi scandalizza anche molti devoti cattolici. Digiunava a pane e acqua tre volte la settimana. Si alzava a mezzanotte per pregare sul pavimento di pietra della sua stanza, in cui non voleva fosse acceso nessun fuoco, nemmeno nelle notti più fredde. È noto come fosse molto preoccupato di mantenere la sua castità e di salvaguardare la sua modestia. Butler, nelle sue Lives of the Saints (Vite dei santi), scrive come Luigi, fin dall’età di nove anni, “custodì i suoi occhi”, come scrivono gli autori spirituali: “Sappiamo, per esempio, che teneva gli occhi costantemente a terra in presenza delle donne e che non permetteva né al suo valletto né a chiunque altro di vedere i suoi piedi nudi”.
Queste pratiche, molto ammirate dalle passate generazioni, sono proprio ciò che allontanano da Luigi molti credenti contemporanei e che appaiono manifestazioni di una pietà quasi disumana.
Considerando questi aspetti della sua vita, dobbiamo però ricordare tre cose. Primo, la pietà cattolica prevalente a quel tempo, la quale raccomandava fortemente tali pratiche e che esercitò ovviamente una forte influenza su Luigi; il giovane aristocratico era, come tutti noi, un uomo del suo tempo. Secondo, quando faceva tutto questo, era ancora giovanissimo, e come molti giovanissimi di oggi, era trasportato da un entusiasmo adolescenziale più che da considerazioni da persona matura. Il terzo aspetto, forse il più importante, è che Luigi, in mancanza di modelli religiosi, in un certo senso fu costretto a creare la sua spiritualità personale (non aveva nessun adulto che gli dicesse “Basta così, Luigi”). Nella sua fuga disperata dal mondo corrotto e licenzioso in cui si trovò a vivere, il caparbio Luigi, a cui mancava una guida adulta, andò troppo in là nel suo tentativo di essere santo.
Negli anni seguenti, tuttavia, riconobbe i suoi eccessi. Quando entrò nella Società di Gesù disse questo di sé: “Sono un pezzo di ferro contorto, e sono entrato nella vita religiosa per essere raddrizzato” (questa famosa frase, secondo lo studioso gesuita John Padberg, poteva anche riferirsi al carattere contorto della famiglia Gonzaga).
Nel 1579, dopo due anni passati a Firenze, il marchese mandò i suoi due figli a Mantova, presso dei parenti; a dispetto dei piani di Ferrante, la casa di uno di essi vantava una bella cappella privata e Luigi prese a passarvi molto tempo, leggendo le vite dei santi e meditando sui Salmi. Fu lì che al figlio del marchese venne in mente l’ipotesi del sacerdozio. Anche dopo il ritorno a Castiglione Luigi continuò le sue letture e le sue meditazioni, e quando il cardinale Carlo Borromeo visitò la famiglia fu fortemente impressionato dalla serietà e dalla cultura del dodicenne. Il cardinale scoprì che Luigi non aveva ancora fatto la prima comunione e così lo preparò a riceverla (in questo modo, un futuro santo ricevette la prima comunione da un altro futuro santo).
Nel 1581 Ferrante, che ancora intendeva fare di Luigi il suo erede, decise che la famiglia sarebbe andata in Spagna con Maria d’Austria. Maria era la vedova dell’imperatore Massimiliano II [d’Asburgo] e Ferrante vide nel suo ritorno in Spagna un’eccellente opportunità per il figlio. Luigi divenne un paggio al seguito dell’erede al trono spagnolo, il duca delle Asturie, e fu fatto cavaliere dell’Ordine di San Giacomo di Compostela.
Ma tutti questi onori non fecero che rafforzare la sua determinazione a non vivere una tale vita. A Madrid ebbe un confessore gesuita e decise di diventare anch’egli un gesuita, ma il suo confessore lo avvertì che, prima di entrare nel noviziato, avrebbe dovuto chiedere il permesso di suo padre.
Quando Luigi parlò con suo padre, Ferrante ebbe un accesso d’ira e minacciò di frustarlo. Ne seguì uno scontro tra il fiero e intransigente marchese di Castiglione e l’egualmente determinato sedicenne. Sperando di fargli cambiare idea, riportò il figlio in Italia e lo mandò, assieme al fratello, per diciotto mesi in giro per le corti d’Italia; ma quando tornò a Castiglione, Luigi non aveva cambiato idea.
Di fronte alla perseveranza del figlio, Ferrante diede finalmente il suo permesso. Nel novembre [1585] Luigi, all’età di diciassette anni, rinunciò alla sua eredità in favore del fratello Rodolfo, che era un tipico Gonzaga con tutti i difetti di quella famiglia. Lasciatosi alle spalle la sua vecchia vita, partì per Roma.
Mentre andava verso il suo noviziato, Luigi portava con sé una lettera di suo padre al superiore generale dei gesuiti, che conteneva questa frase: “Voglio dire semplicemente che sto consegnando nelle mani di Sua Eccellenza Reverendissima la cosa più preziosa che possegga al mondo”.
Al Metropolitan Museum of Art [di New York] è esposto un colossale dipinto del Guercino che mostra allegoricamente il momento della decisione di Luigi. Grazie ai ritratti contemporanei conosciamo abbastanza bene il suo volto e il Guercino lo ritrae con il lungo naso e il volto magro dei Gonzaga. Sotto un arco marmoreo e un gruppo di cherubini e serafini che suonano e cantano vediamo Luigi, con una talare gesuita nera e una cotta bianca; osserva assorto un angelo davanti a un altare, che indica un crocefisso. Lontano sullo sfondo, sotto un bel cielo italiano, sta il castello di suo padre. Ai piedi di Luigi un giglio, simbolo della castità. Dietro di lui, per terra, la corona del marchesato, che il giovane ha ceduto. Sopra di lui scende un cherubino che pone sulla testa di Luigi un altro tipo di corona, quella della santità.
La sua determinazione a entrare nella vita religiosa nonostante la fiera opposizione di suo padre mi riempiva di ammirazione durante il mio noviziato gesuita. Quando annunciai ai miei genitori la mia intenzione di abbandonare il mondo del business per entrare nel noviziato, anche loro non furono contenti, almeno all’inizio, e speravano che non sarei entrato nei gesuiti (ma non minacciarono di frustarmi). Dopo alcuni anni giunsero ad accettare la mia decisione e a sostenere con gioia la mia vocazione; ma nei primi tempi, quando io ero determinato e lo erano anche loro [in senso contrario], Luigi fu il mio patrono.
Nella sua instancabile ricerca di Dio, e soprattutto nella sua volontà di disfarsi delle ricchezze materiali, Luigi è l’emblema perfetto di una meditazione fondamentale degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, quella dei “Due vessilli”. In questa meditazione bisogna immaginare che ci chiedano di combattere sotto il vessillo di uno dei due capi, Cristo Re o Satana. Se uno sceglie di servire Cristo, deve necessariamente imitare la vita di Gesù e scegliere “la povertà opposta alla ricchezza […] gli insulti e il disprezzo opposti agli onori di questo mondo […] l’umiltà opposta all’orgoglio”. Pochi hanno impersonato tutto questo come Luigi; per me è stato un grande eroe.
Date le severissime pratiche adottate in precedenza, il noviziato gesuita fu sorprendentemente facile per lui. Scrive padre Tylenda: “La vita da novizio si rivelò meno esigente di quella che si era imposta da se stesso a casa” (anche la mancanza dei continui litigi con il padre deve avergli donato un certo sollievo). Fortunatamente i suoi superiori gli prescrissero di mangiare con più regolarità, di pregare meno, di fare attività più rilassanti, e in generale di ridurre le sue penitenze. Luigi accettò queste limitazioni. Richard Hermes SJ, in un saggio intitolato On Understanding the Saints (Capire i santi), ha scritto che, come fu la ferrea volontà di adempiere alla volontà di Dio che lo portò alle sue penitenze estreme, “fu una egualmente ferrea obbedienza che lo portò a moderarle una volta nella Compagnia”.
“C’è poco da dire sulla vita di san Luigi nei successivi due anni, salvo che si dimostrò un novizio ideale” scrive Butler nelle Lives of the Saints. Nel 1587 pronunciò i voti di povertà, castità e obbedienza; l’anno seguente ricevette gli ordini minori e cominciò i suoi studi di teologia.
All’inizio del 1591 scoppiò un’epidemia di peste a Roma. Dopo aver raccolto elemosine per le vittime, Luigi cominciò a lavorare con i malati, a togliere dalle strade chi stava morendo e a portarli nell’ospedale fondato dai gesuiti; lì lavava e dava da mangiare ai malati e li preparava meglio che poteva a ricevere i sacramenti. Ma, sebbene si mettesse anima e corpo in questo compito, in privato confessava al suo direttore spirituale, Roberto Bellarmino, che gli rivoltava la vista e l’odore dei malati e che gli era estremamente penoso vincere quel disgusto fisico.
In quel periodo molti dei gesuiti più giovani erano già stati infettati, così i suoi superiori gli proibirono di tornare all’ospedale: Luigi, abituato per molto tempo ai rifiuti del padre, insistette e chiese il permesso di tornare, che gli fu concesso. Gli diedero il permesso di occuparsi dai malati, ma solo nell’ospedale chiamato Nostra Signora della Consolazione, dove non era ammesso chi aveva una malattia contagiosa. Un giorno, Luigi sollevò un malato dal suo lettuccio, lo medicò, poi lo rimise steso. Quell’uomo era appestato: Luigi si ammalò e si mise a letto il 3 marzo 1591.
Per un po’ si riprese, poi la febbre e la tosse ricominciarono e andarono avanti per settimane. Mentre pregava, ebbe il presentimento che sarebbe morto nel giorno del Corpus Domini, e quando quel giorno arrivò, agli amici che erano con lui apparve migliorato rispetto ai giorni precedenti. La sera arrivarono due sacerdoti a dargli la comunione. Così racconta padre Tylenda: “Quando due gesuiti gli vennero accanto, notarono che il suo volto era mutato e compresero che il loro giovane Luigi stava per morire. I suoi occhi erano fissi sul crocefisso che teneva in mano; morì mentre tentava di pronunciare il nome di Gesù”. Come Giovanna d’Arco e i martiri dell’Uganda, Luigi Gonzaga morì con il nome di Gesù sulle labbra. Aveva 23 anni.
La sua peculiare santità era stata riconosciuta già lui vivente, soprattutto dai suoi confratelli gesuiti. Dopo la sua morte, quando il cardinale Roberto Bellarmino guidava i giovani studenti gesuiti negli esercizi spirituali a Roma, diceva di un particolare tipo di meditazione “Questo l’ho imparato da Luigi”. Fu beatificato solo quattordici anni dopo la sua morte, nel 1605, e proclamato santo nel 1726.
Durante il noviziato feci la sua conoscenza. Sarebbe stato impossibile ignorarlo: è uno dei santi patroni dei giovani gesuiti; assieme a san Stanislao Kostka e san Giovanni Berchmans compone un trio di santi gesuiti morti in giovane età. Appaiono spesso insieme nelle chiese gesuite: Luigi con il giglio, Giovanni con il rosario, Stanislao con le mani giunte e lo sguardo pio fisso al cielo.
Quando ero novizio trovavo naturale pregare questi tre santi, perché secondo me capivano bene le difficoltà del noviziato, della formazione gesuitica e della vita religiosa. San Giovanni Berchmans infatti avrebbe detto “Vita communis est mea maxima penitentia”: la vita in comunità è la mia maggiore penitenza. Questo è davvero un santo che un novizio dovrebbe pregare. D’altro canto, come disse un giorno il cardinale Avery Dulles SJ: “Be’, mi chiedo cosa la comunità pensasse di lui!”.
Solamente due anni dopo la fine del noviziato, quando cominciai a lavorare con i rifugiati in Kenya, mi misi a pregare seriamente san Luigi. Già allora mi chiedevo perché: questa improvvisa devozione era una sorpresa anche per me. Qualche volta penso che la ragione per cui cominciamo a pregare un santo è che quel santo ha già cominciato a pregare per noi.
Ogni volta che la vita a Nairobi era dura, e accadeva spesso, mi trovavo a pensare a Luigi. Quando ero frustrato perché, al mattino, improvvisamente non c’era più acqua, chiedevo silenziosamente l’intercessione di san Luigi. Quando la jeep malconcia che guidavo non si voleva accendere (ancora!), chiedevo a san Luigi un aiutino.
Quando i ladri si intrufolavano nel nostro edificio e mi portavano via le scarpe, la macchina fotografica e quel poco denaro che avevo risparmiato, chiedevo a san Luigi di non farmi perdere quella scarsa riserva di pazienza su cui potevo ancora contare. E quando sono stato costretto a letto per due mesi a causa della mononucleosi e mi chiedevo cosa ci stessi facendo in Kenya, cercai la sua intercessione e il suo incoraggiamento, perché ero sicuro che ne sapesse qualcosa della malattia.
Durante i due anni che ho passato in Kenya, avevo la sensazione che se ne stesse al suo posto in paradiso e vegliasse su di me, per quanto poteva. Avrà certamente avuto molto da fare.
* Il gesuita americano James Martin è editorialista del settimanale cattolico America ed autore del libro “Un ponte da costruire. Una relazione nuova tra Chiesa e persone Lgbt” (Editore Marcianum, 2018). Padre James ha portato un contributo sull’accoglienza delle persone LGBT nella Chiesa Cattolica all’Incontro Mondiale delle Famiglie Cattoliche di Dublino e porterà una sua riflessione anche al 5° Forum dei cristiani LGBT italiani (Albano Laziale, 5-7 ottobre 2018).
Testo originale: Recovering the real St. Aloysius Gonzaga