In Rwanda una chiesa è il solo rifugio dei cristiani LGBT+
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Articolo pubblicato sul sito del quotidiano Le Monde (Francia) il 24 novembre 2021, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Quando il popolare cantante rwandese Albert Nabonibo ha rivelato la sua omosessualità, da un giorno all’altro ha perduto tutto: il lavoro, gli amici, la famiglia… Respinto dalla sua chiesa, ha trovato inaspettatamente rifugio in un’altra chiesa evangelica di Kigali.
Da diversi anni la Chiesa di Dio in Africa in Rwanda (EDAR) ha reso pubblica la sua apertura alle persone LGBT+, nonostante il Paese sia a grande maggioranza conservatore. Se in Rwanda l’omosessualità non è proibita, le persone LGBT+ sono però molto spesso discriminate, licenziate, rinnegate dalle loro famiglie, private delle cure mediche o vittime di pestaggi.
Albert Nabonibo, un cantante gospel che oggi ha trentotto anni, ha fatto l’amara esperienza della discriminazione quando nel 2019 ha detto in una intervista di essere gay: “Prima ero sempre invitato ai concerti cristiani, a cantare nelle chiese, e moltissima gente amava la mia musica, ma quando ho fatto coming out è cambiato tutto”.
D’improvviso non ha più ricevuto nessuna offerta di lavoro. La sua chiesa pentecostale gli ha fatto sapere di non essere più il benvenuto, a meno che non si pentisse: “Ho perduto tutti i miei amici […] la maggior parte della mia famiglia non mi parla più”.
“Demonio” e “abominio”
Poi ha scoperto la Chiesa di Dio in Africa in Rwanda, e il suo pastore Jean de Dieu Uwiragiye: “Sono rimasto sorpreso, mi hanno trattato in modo diverso rispetto agli altri cristiani, alla mia famiglia e ai miei amici”.
Jean de Dieu Uwiragiye, oggi quarantacinquenne, e che da molti anni è attivista per la causa LGBT+ in Rwanda, ha deciso di aprire la chiesa [alle persone LGBT+] quattro anni fa, quando ne ha preso la guida: “Ero convinto che bisognasse infrangere il conservatorismo della [nostra] chiesa e includervi le persone LGBT+ […] perché sapevo che molte di loro soffrivano, e che erano cacciate dalle chiese”.
La sua decisione ha sollevato un’ondata di indignazione. Nel giro di poche settimane molti fedeli hanno abbandonato la chiesa, in quanto consideravano questa apertura un abominio. I pastori di altre chiese hanno affermato che Uwiragiye era posseduto dal demonio, e sono piovuti insulti omofobi sia dai fedeli che da perfetti sconosciuti.
Oggi la chiesa annovera due pastori omosessuali e una comunità di duecento fedeli, la maggior parte dei quali si identifica come eterosessuale: “Sono stato maltrattato e cacciato da altri pastori rwandesi perché avevano paura di ciò che io rappresento, ma questa è la mia vocazione. Hanno deformato la Bibbia per dare l’impressione che Dio ci detesta, ma perché mai Dio dovrebbe detestare la sua creazione?” dice Seleman Nizeyimana, uno dei pastori omosessuali.
Gli abusi e lo stigma
Recentemente, durante il primo culto dopo la pandemia di Covid-19, la chiesa si è riempita di musica e la corale ha cantato con grande energia, invitando i fedeli ad alzarsi: “Questa chiesa mi ha offerto qualcosa che nessun altro mi ha mai offerto: l’accettazione e la comprensione. Mi piace molto cantare, ma le altre chiese ti giudicano, e non offrono a una persona come me l’opportunità di servire Dio. Qui questa opportunità ce l’ho, e posso trovare altre persone che si sentono come mi sento io” spiega Cadette, transgender di ventitré anni e membro della corale.
Il Rwanda, assieme al alcuni altri Paesi africani, ha firmato nel 2011 una dichiarazione congiunta delle Nazioni Unite che condanna le violenze contro le persone LGBT+, ma nonostante questo gli abusi e lo stigma sono molto diffusi.
L’Iniziativa per lo Sviluppo della Salute (HDI), organizzazione no profit con sede a Kigali, ha recensito trentasei casi di presunta violazione dei diritti umani contro le persone LGBT+ nella capitale nel 2019.
Raramente le vittime denunciano gli abusi, perché temono di essere insultate dai poliziotti e ritengono “poco probabile che la denuncia abbia seguito” spiega Aflodis Kagaba, direttore dell’HDI, una coalizione di ONG che esercita pressione sul governo perché emani delle leggi che proteggano le persone LGBT+ dagli arresti e dalle detenzioni arbitrarie.
Anche Jean de Dieu Uwiragiye ha organizzato un gruppo antidiscriminazione rivolto ai responsabili delle chiese, ma anche a medici e infermieri. Nulla intacca l’ottimismo del pastore: la gente “ha bisogno di tempo per cambiare le proprie convinzioni, ma vedo che piano piano sta diventando più tollerante”.
Per Albert Nabonibo l’esistenza stessa di questa chiesa è fonte di speranza, e lo fa sognare: “Nessuna chiesa, in Rwanda, permette alle persone omosessuali di sposarsi, ma speriamo che in futuro le cose cambino”.
Testo originale: Une église du Rwanda offre un refuge aux croyants LGBT+