La crociata di Wilde contro le ipocrisie della società, non solo del suo tempo
Brano tratto da un articolo di Alex Ros* pubblicato sul settimanale The New Yorker (Stati Uniti) del 8 agosto 2011, liberamente tradotto da Innocenzo Pontillo, parte terza
In “The Soul of Man” (L’anima dell’uomo sotto il socialismo”, pubblicato nel 1891), Oscar Wilde immaginava una rivoluzione che avrebbe spazzato via tutto il gretto filisteismo della classe media.
I progressi tecnologici, preannunciava, libereranno anche le classi lavoratrici, garantendo loro una vita dove troverà posto il godimento della bellezza. La vaga logica economica dell’argomento è un pretesto per Wilde per sfogare la sua rabbia su un pubblico che lo ha trattato come un divertente spettacolo secondario:
“Il pubblico si serve dei classici di un paese come mezzo per verificare lo stato di avanzamento dell’arte. Degradano i classici ad autorità. Li usano come mazze per impedire la libera espressione della bellezza in nuove forme. Chiedono sempre a uno scrittore perché non scrive come qualcun altro, o a un pittore perché non dipinge come qualcun altro, del tutto ignari del fatto che se uno dei due facesse qualcosa del genere cesserebbe di essere un artista.
Una nuova modalità di bellezza per loro è assolutamente sgradevole e ogni volta che appare qualcosa di nuovo si arrabbiano e ne rimangono stupiti così tanto che usano dire sempre due stupide espressioni: che l’opera d’arte è grossolanamente incomprensibile; oppure, che l’opera d’arte è grossolanamente immorale. Quello che intendono con queste parole mi sembra chiaro.
Quando dicono che un’opera è grossolanamente incomprensibile, intendono che l’artista ha detto o realizzato una cosa bella che è nuova; quando descrivono un’opera come grossolanamente immorale, vuol dire che l’artista ha detto o realizzato una cosa bella che è vera“.
Queste fulminee affermazioni di Wilde anticipano la retorica del modernismo. Yeats e Joyce, in particolare, sentivano un forte legame con il loro predecessore irlandese. Yeats, credeva che Wilde sarebbe stato un grande soldato o un politico, lo elogiò per aver lanciato “una stravagante crociata celtica contro la stupidità anglosassone”. Joyce ha evidentemente attinto alle prove del processo a Wilde del 1895 per creare la persecuzione allucinogena di Leopold Bloom nel capitolo “Circe” del suo romanzo “Ulisse”.
Anche il tema dell’attrazione omosessuale nel lavoro di Wilde fa parte di una più ampia guerra che lui fa alle convenzioni. Nel suo libro del 1889 “Il ritratto di Mr W.H. (The Portrait of Mr. W. H.), un’indagine pseudo-accademica e di metafiction sui sonetti di Shakespeare, Wilde suggerisce astutamente che il pilastro della letteratura britannica fosse qualcuno di diverso da un ordinario padre di famiglia.
Nella commedia “Salomé”, del 1891, Wilde trasforma un aneddoto biblico in un sontuoso racconto corale sulla decadenza.
Gli anarchici di fin de siècle, soprattutto in Germania, consideravano Wilde uno di loro: Gustav Landauer acclamava Wilde come il Nietzsche inglese. Thomas Mann ha ampliato questa analogia, osservando che vari versi di Wilde potrebbero essere scritti da Nietzsche (“Non c’è realtà nelle cose, al di fuori delle loro esperienze”) e che vari versi di Nietzsche potrebbero provenire da Wilde (“Siamo fondamentalmente inclini a sostenere che i giudizi sbagliati siano i più indispensabili per noi”). Nietzsche e Wilde erano, secondo Mann, “ribelli in nome della bellezza”.
All’inizio del 1892, Wilde godette di un enorme successo teatrale con “Il ventaglio di Lady Windermere (Lady Windermere’s Fan) e fino a quando non andò in prigione si limitò alla commedia sociale. Ma il suo impulso sovversivo rimase. Richard Le Gallienne afferma plausibilmente che Wilde “facesse ridere la morente società vittoriana di se stessa, ma si può dire che alla fine sia morto lui per le risate”.
Ma il crescente virtuosismo della tecnica drammatica usata da Wilde mascherava anche un indebolimento del suo impulso creativo; le sue commedie furono scritte in mezzo a lunghi periodi di inattività e si basavano a intermittenza spesso su sue vecchie battute. “L’importanza di chiamarsi Ernesto”, per quanto brillante, era diventata una compilation di grandi successi. Wilde incolpò Alfred Douglas per il rallentamento della sua produttività dopo il 1892; anno in cui iniziò la loro relazione, dopo che Wilde aveva pagato un ricattatore per conto di Douglas.
Dopo aver letto i libri più recenti su Wilde, sono tornato alla biografia di Richard Ellmann del 1988 che, nonostante alcuni errori ed eccentricità, domina ancora il campo.
Ellmann svolge il servizio supremo di prendere Wilde sul serio, prima come scrittore e poi come personaggio. Riesce a catturare così il moralismo senza legge di Wilde e il suo tono da predicatore emarginato. “Le sue opere creative finiscono quasi sempre con lo smascheramento”, scrive Ellmann. “La mano che aggiusta il garofano verde scuote infine un dito ammonitore.”
Ellmann spiega meglio di qualsiasi altro cronista perché, nel 1895, Wilde scelse di affrontare i suoi accusatori invece di fuggire nel continente. Non fu un atto di martirio, né di arroganza o di autoillusione, ma, piuttosto, un esercizio di coerenza intellettuale.
Ellmann scrive: “Si sottomise alla società che aveva criticato, e così si guadagnò il diritto di criticarla ulteriormente”.
* Alex Ross è il critico musicale della rivista The New Yorker dal 1996. Il suo primo libro, il bestseller internazionale The Rest Is Noise: Listening to the Twentieth Century, è stato finalista al Premio Pulitzer e ha vinto un National Book Critics Circle Award. Il suo secondo libro, la raccolta di saggi Listen to This, ha ricevuto un ASCAP Deems Taylor Award.
Testo originale: How Oscar Wilde Painted Over Dorian Gray