La sessualità nelle religioni. L’ambivalenza dell’ebraismo
Articolo Salmon Malka tratto Le monde des Réligions (Francia), 1 luglio 2009, liberamente tradotto da Roxana Balena
Perpetuare la specie o sostenere il bisogno di soddisfare il desiderio sessuale: la tradizione ebraica ha da sempre oscillato fra la necessità di riservare la sessualità alla procreazione e la legittimazione del piacere.
Le lingue italiana e francese hanno un lessico abbastanza ricco per designare l’atto sessuale, l’espressione più bella è ancora “fare l’amore”.
Nella lingua della Bibbia ne troviamo la presenza sin dall’inizio della Genesi, dove l’amore è legato alla “conoscenza”: “E Adamo conobbe sua moglie Eva.”
Rachi, il più illustre esegeta biblico francese, non rispetta il senso comune che sarebbe, siamo concordi, un po’ stupido (immaginiamo male il primo uomo fare la conoscenza della sua promessa sposa lungo una strada). Egli traduce giustamente “conoscere” con “fare l’amore”.
È come se nell’atto amoroso si raggiungesse un grado superiore di conoscenza. Come se il desiderio del congiunto non fosse un bisogno fisico, ma al contrario una forma di coronamento. Come se, infine, la conoscenza dell’altro conferisse all’atto sessuale una dignità particolare.
Accoppiamento, riso e gioco
La seconda presenza dell’atto sessuale è ancora nella Genesi. La moglie di Isacco è ambita dal re Abimelekh, che cambia idea quando scorge il patriarca “Che ride con la sua donna Rebecca”.
Il riso, anche qui, è una leggerezza interpretata dal commentatore francese come un’unione carnale. L’accoppiamento sessuale è considerato come un miscuglio di riso e gioco.
Terza presenza, sempre nella Genesi; Giuseppe è alle prese con i tentativi di seduzione della moglie di Potiphar, che gli resiste, fatto che gli conferisce, secondo i testi midraici, il titolo di “santo”, senza dubbio perché secondo la tradizione non vi è niente di più irresistibile e di più difficile da dominare che il desiderio sessuale.
Il testo dice: “Non vi è niente che il mio maestro Potiphar mi abbia negato, se non il suo pane”. Rachi, che era viticultore, ma avrebbe potuto essere anche panettiere, traduce “pane” con “sposa”.
Questa metafora cibaria usata per designare la donna è strana, e allo stesso tempo evocatrice di sostanze di eternità e anche di santità (nel mobile del Tempio di Gerusalemme, il pane detto di “offerta” doveva essere “in modo permanente” davanti all’Arco santo).
Delle belle storie d’amore
Nel Talmud e nella letteratura rabbinica, vi è un’altra parola molto più prosaica: tachmich, che potremmo tradurre come “uso” o “servizio”. È sicuramente meno poetica. La conoscenza? Il riso? Il gioco? Il pane? L’uso?
Nel suo approccio con la sessualità, la tradizione ebraica ha costantemente oscillato fra queste metafore, evolvendo così da una posizione più stretta, che riserva la sessualità alle sole necessità della procreazione – “Crescete e moltiplicatevi” è un imperativo, un comandamento, una Mitzva – ad un atteggiamento più aperto che sostiene la legittimità e persino il diritto al piacere.
La Bibbia è attraversata da belle storie d’amore. Quella di Isacco e Rebecca – “Vayeehaveha” – “e lui l’amò”, con la particolare sonorità poetica di queste coniugazione dell’ebraico.
E il testo aggiunge ciò che sarebbe piaciuto al grande Sigmund se avesse avuto come svago la lettura della Bibbia e non quello di sfogliarne solo le pagine: “E lui si consolò della perdita di sua madre”.
La storia di Giacobbe e Rachele, il racconto di un colpo di fulmine davanti ad un pozzo con il giovane bell’uomo che fa bere i cammelli della sua amata prima di lavorare per quattordici anni presso suo padre Làbano e poter convolare a giuste nozze: “E quegli anni apparvero agli occhi di Giacobbe come pochi giorni, tanto l’amava”.
Le unioni illecite
L’amore e la procreazione sono legate nella Bibbia. Così come il matrimonio e la “santificazione” (il matrimonio è chiamato kiddouchin). L’erotismo non è condannato, sia come puro oggetto di soddisfazione, sia che preservi la continuità delle generazioni; esso è sempre in qualche modo sublimato.
Tutto il Cantico dei Cantici è permeato dall’idea di una santificazione delle relazioni fra l’amante e la sua amata, come metafora dei legami fra Dio e la sua creatura, o fra Dio e la comunità d’Israele.
La Bibbia non ignora neppure le unioni sessuali illecite. Ad esempio quella di Giuda e Tamara. Giuda, figlio di Giacobbe, viene condannato perché si abbandona ai favori di una prostituta incontrata per strada, donna che scoprirà essere in realtà sua nipote.
Quella di Davide ed Elisabetta, un amore adulterino che valse al sovrano l’ammonimento del profeta Nathan, che decretò che egli non era degno di costruire il Tempio di Gerusalemme.
L’onanismo è condannato. Onan, che doveva sposare la vedova di suo fratello e donargli una discendenza e che preferì “disperdere il suo seme a terra” morirà per il suo sbaglio.
L’omosessualità è denunciata come un’ “abominio” – gli esegeti più aperti precisano allo stesso tempo che l’omosessuale non è considerato “abominevole”, è l’atto che è condannato non chi lo pratica.
La vita sessuale della coppia è ritmata dai comandamenti della nidda, il ciclo mestruale della sposa, durante il quale è prescritta l’astinenza sessuale. La sessualità è ridotta, limitata, inquadrata.
Nessuna ingenuità in questo approccio, alcuna fiducia in delle virtù presupposte come naturali o in una presunta innocenza.
Un atto privato
Il Talmud enuncia che “in materia di sessualità non vi è sicurezza”. Niente è garantito, tutto è possibile, persino il peggio. Semplicemente, in modo poco originale, la nozione di peccato non è direttamente associata alla pratica sessuale. L’atteggiamento è costantemente ambiguo.
La sessualità ha come vocazione principale quella di perpetuare la specie, e allo stesso tempo il piacere sessuale non è proibito. Soltanto le manifestazioni pubbliche sono naturalmente vietate.
Anche se vi è un racconto nel Talmud di un allievo nascosto sotto il letto del suo maestro. Sorpreso e rimproverato, l’allievo risponde con tutta franchezza che vuole apprendere tutto dal suo rabbino, come egli si lega le scarpe, come bisogna nutrirsi e anche come bisogna onorare la propria sposa: “È la Torah che sono venuto ad apprendere!”.
Immagino che questo racconto – carino del resto – non venga divulgato nelle scuole talmudiche per l’edificazione dei giovani rabbini. Preso alla lettera provocherebbe qualche guaio!
Testo originale: Le sexe et les religions. L’ambivalence du judaïsme