L’etica tra indifferenza e in-differenza
Articolo di Giannino Piana pubblicato sul bimestrale Servitium n. 262 di ottobre/dicembre 2023.
Indifferenza e in-differenza sono due categorie contrapposte che hanno entrambe a che fare con l’etica. La prima in negativo, in quanto designa un atteggiamento che sta alla radice dell’immoralità; anzi ne costituisce l’anima più profonda.
La seconda in positivo, in quanto pone l’accento sulla struttura originaria dell’agire morale, la quale implica il necessario riferimento all’altro nel rispetto della sua alterità. Mentre dunque l’indifferenza impedisce in partenza l’esercizio della moralità, l’in-differenza ne costituisce il fattore costitutivo, quello che sta alla base del suo esercizio.
Questa fondamentale distinzione (e opposizione) consente un approccio all’etica nei due aspetti che ne definiscono il campo. Da una parte, il ruolo del giudizio nei confronti delle varie espressioni dell’agire umano. Dall’altra, quello dell’offerta di indicazioni che orientino la condotta umana al perseguimento del bene. Tra questi due atteggiamenti, e la loro immediata ricaduta nelle scelte e nei comportamenti tanto della vita privata quanto di quella pubblica, è necessario trovare un equilibrio armonico, che conferisca alle due facce dell’etica piena giustificazione e spinga la persona umana e scegliere in ogni situazione il bene comune.
L’etica del giudizio: origini e sviluppo
Purtroppo non sempre questo equilibrio è stato mantenuto. Per lunghi secoli, a partire dalla patristica fino all’epoca moderna, a prevalere è stato un modello negativo di scienza morale. Tale modello aveva come fine la determinazione delle condizioni di peccato e assumeva come strumento per perseguire con rigore l’obiettivo il diritto canonico e civile, in quanto discipline in grado di fornire con precisione le necessarie distinzioni. Si trattava di un’etica rivolta ai confessori. Era prevalentemente destinata ad essi per consentire loro una corretta amministrazione del sacramento della penitenza, la possibilità di mettere in atto un puntuale discernimento, che segnalasse l’esistenza del peccato, ne definisse la natura e ne mettesse a fuoco la gravità.
Dietro a questa concezione della penitenza, che prevedeva – così si è espresso il concilio di Trento – la denuncia dei peccati «secondo la specie, il numero e le circostanze che modificano la specie» vi è una visione della vita cristiana, dove ad avere il sopravvento è il timore di Dio (timor Domini) giudice severo, e viene alimentata la paura dell’inferno come luogo di eterna dannazione, spesso descritto dai confessori in termini terrificanti con l’obiettivo di scuotere la coscienza dei fedeli e metterli in allerta con la minaccia di finire dannati in tale luogo di pena.
In questo contesto l’indifferenza non trova una precisa collocazione. Essa non è immediatamente inseribile né nell’ambito dei comandamenti. Questi infatti seguono uno schema che occupa il primo posto nell’esposizione sistematica della morale cattolica. Ma non è neppure inseribile nell’ambito delle virtù morali (le cosiddette virtù cardinali), che costituiscono la struttura portante della vita morale secondo la scuola domenicana. Per questo essa viene considerata una realtà amorale, che non rientra propriamente nell’elenco dettagliato dei peccati presenti nei Penitenziali e successivamente nelle Summae confessariorum ed è, per questa ragione, del tutto trascurata come realtà estranea al giudizio etico.
Il ricupero dell’indifferenza nella sua valenza etica e in tutta la sua gravità avviene in epoca moderna. L’individualismo egoistico esasperato e il fenomeno della globalizzazione hanno concorso, in misura determinante, a favorire l’affermarsi di questa tendenza. Essa ha assunto i connotati – come spesso ricorda papa Francesco – di “cultura dell’indifferenza”. Si tratta di un sentimento diffuso, alimentato anche dalla vastità degli orizzonti che si aprono e dalla oggettiva difficoltà a circoscriverli e a far fronte a situazioni di disagio – da quelle dei paesi del sud del mondo dove si vive in condizione di radicale povertà a quelli occidentali, dove le crescenti e sempre più accentuate diseguaglianze minacciano la vita del ceto medio – provocando una sensazione di impotenza la quale sfocia nella passività e nella destituzione di responsabilità; in definitiva, nell’indifferenza.
A confermare la centralità di questo comportamento sta il fatto che l’indifferenza è diventata oggi il maggiore peccato sociale. E’ infatti in diretto contrasto con la virtù della carità. Virtù che è “il” comandamento attorno a cui ruota l’intera vita morale del credente e che ha come obiettivo il perseguimento di una fraternità universale. L’indifferenza è la “cifra” del venire meno (o almeno dell’affievolirsi) dei valori, che hanno rappresentato per molto tempo l’indice più consistente dell’influenza culturale del cristianesimo. Ma è anche il segnale preoccupante dell’avanzare di una tendenza disumanizzante. Tendenza che mette a serio repentaglio il livello di civiltà del mondo attuale, in particolare dell’occidente, la culla storica dei diritti umani e della democrazia.
L’in-differenza come struttra portante dell’etica
Di segno diverso, anzi opposto, è l’in-differenza. Essa riveste un ruolo di primo piano nell’ambito dell’etica, in quanto rinvia all’importanza della diversità quale fattore costitutivo dell’eticità. A rilevare questa importanza è il fatto che l’etica ha le proprie radici in una concezione relazionale del soggetto umano. Tale relazionalità implica il riconoscimento e la valorizzazione della diversità o, se si vuole, dell’alterità. Questa visione non è in realtà nuova: è presente, fin dall’inizio, nella tradizione ebraicocristiana e nel pensiero della classicità greco-romana.
Nel caso della tradizione ebraico-cristiana, i contenuti della vita morale che il buon israelita doveva fare propri trovavano la loro espressione, in forma imperativo-negativa nel “decalogo”. Le due tavole della Legge riguardano rispettivamente la relazione con Dio e quella con il proprio simile. A questi aderisce in piena continuità la successiva tradizione cristiana. In essa, l’eticità ha come fulcro – lo si è già ricordato – l’amore di Dio e quello del prossimo.
Nel caso del pensiero greco-romano, a sua volta il fondamento dell’esperienza morale consiste analogamente in una prospettiva relazionale. Tale prospettiva viene chiaramente delineandosi in chiave strettamente razionale a partire dall’Etica nicomachea di Aristotele. Nell’etica aristotelica, a definire l’eticità è anzitutto la virtù-principe della giustizia, il cui contenuto essenziale è la relazione nei confronti dell’altro (iustitia est ad alterum). Questa prospettiva viene confermata dal ricorso al diritto romano. E il diritto rappresenta la norma di valutazione delle relazioni interumane, in quanto al riconoscimento dell’uguaglianza di tutti si unisce l’attenzione a ciò che spetta a ciascuno (unicuique suum tribuere).
Questa concezione dell’eticità viene – purtroppo – accantonata dalla successiva tradizione cristiana. Qui preval infatti, fin dagli inizi, un modello oggettivo-materiale, che cancella qualsiasi riferimento alla soggettività, dunque alla persona. Nascono i Penitenziali e le Summae confessariorum, che hanno come destinatari i sacerdoti perché amministrino (non celebrino) correttamente il “sacramento della penitenza”. In essi, occupa il primo posto la confessione. Non sono altro che cataloghi di peccati con l’offerta di appositi criteri per valutarne la gravità e assegnare al penitente la corrispettiva tariffa penitenziale.
Tale visione si perpetua nel tempo. Viene confermata anche con la nascita, nella modernità, della teologia morale come disciplina autonoma con una propria metodologia e un proprio impianto strutturale, quello della casistica che ha come preoccupazione fondamentale la circoscrizione del peccato e la rilevazione dello stato di colpevolezza proprio del penitente. Non manca di per sé fin da allora nella definizione del peccato il riferimento al dato soggettivo che interagisce con quello oggettivo, come risulta dalle condizioni richieste perché il peccato sussista: la materia grave, la piena avvertenza e il deliberato consenso. Gli ultimi due elementi rinviano alla soggettività. Sono tuttavia del tutto trascurati nella esposizione dei contenuti della moralità in favore del dato oggettivo, che non ha soltanto la preminenza ma l’esclusività.
Alcuni fermenti che vanno in direzione opposta vengono man mano facendosi strada, sia pure in posizione minoritaria, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Rosmini è stato al riguardo un pioniere (1). Essi, oltre che ribaltare la visione negativa del passato, rifacendosi in particolare ad alcune grandi categorie bibliche – alleanza, sequela di Cristo, carità (per non ricordare che le principali) – riportano al centro della riflessione la persona, mettendo in evidenza le dinamiche psicologiche e i condizionamenti socioculturali dell’agire mediante il ricorso ai risultati forniti dalle scienze umane.
Ma una vera e propria svolta si avrà soltanto con la celebrazione del Vaticano II. Esso sollecita un radicale “cambiamento di prospettiva”. Assegna il dovuto rilievo alla soggettività. Adotta infatti una visione formale-personale dell’eticità – in verità già anticipata da alcuni teologi, Karl Rahner in primis – dove l’aspetto oggettivo non viene trascurato ma inglobato nel concetto di persona, in quanto soggetto unico e irripetibile e, nello stesso tempo, soggetto costitutivamente relazionale, perciò aperto all’alterità.
I connotati di un’etica dell’in-differenza
A ben guardare la ragione profonda del sopravvento nella modernità del modello oggettivo- materiale va ascritta alla riduzione della persona ad individuo. Va dunque ascritta all’eliminazione della relazione come elemento costitutivo dell’identità soggettiva. Il che è avvenuto attraverso un lungo percorso, i cui inizi vanno ricondotti all’avvento del Nominalismo (2) che, considerando i concetti come semplici etichette imposte dall’esterno alla realtà per motivi convenzionali, i quali nulla hanno a che fare con la sua essenza reale (i concetti sono meri flatus vocis), finisce per negare alla moralità ogni riferimento all’alterità, che viene sostituita come criterio di giudizio dal principio di autorità (l’auctoritas divina).
Questo processo è venuto sviluppandosi (e intensificandosi) in seguito in due direzioni. La prima è costituita dall’assolutismo politico. Il quale fa del principio di autorità l’asse portante della vita sociale (non veritas sed auctoritas facit legem), la quale ha nel patto garantito dal Leviatano – è questa la formula del contrattualismo hobbesiano (3) – il proprio fondamento.
La seconda direzione è quella della nascita e della diffusione dell’ideologia liberale. Si deve senz’altro riconoscere a essa il merito di aver dato vita a una prima forma di democrazia e di aver introdotto la categoria dei diritti dell’uomo fornendone una prima formulazione. Ma non si possono misconoscere anche i limiti di questa dottrina. In particolare, bisogna riconoscere la centralità assegnata al presupposto individualistico nell’ambito della scienza economica e dell’esercizio dell’economia reale, dove le finalità perseguite sono l’interesse soggettivo e la ricerca del profitto, perciò l’assenza di attenzione ai beni relazionali e alla qualità della vita. Così non si può misconoscere che la stessa categoria dei diritti umani non ha più, in questo contesto, alcun fondamento nella natura dell’uomo (si pensi alla categoria di diritto naturale). I suoi contenuti vengono definiti attraverso la ricerca di un punto di convergenza tra posizioni diverse.
L’etica della in-differenza è fondata proprio sul rifiuto dell’antropologia individualistica descritta e sulla sua sostituzione con un’antropologia relazionale.
La riscoperta del concetto di persona da parte di alcune correnti del pensiero contemporaneo – dalla fenomenologia al personalismo fino al pensiero ebraico – ha trovato sbocco nella produzione di un modello etico che ha come fondamento la relazionalità. La relazione, in quanto elemento costitutivo (e dunque non accidentale o contingente) della persona, assume qui i connotati di struttura portante dell’etica, con il ricupero – lo sottolineiamo con chiarezza – del modello presente fin dalle origini – come si è rilevato – nell’ambito dell’etica occidentale.
L’etica relazionale non implica l’abbandono della soggettività. Non implica cioè l’abbandono dell’unicità e dell’irrepetibilità del singolo e della sua specificità identitaria. Al contrario, la integra inserendola in un contesto che la valorizza, connettendola al mondo delle relazioni, mettendone meglio in luce l’alterità e sollecitandone la crescita, nonché arricchendola mediante il confronto e la reciproca interazione.
L’indifferenza (L’in-differenza) conferisce così piena possibilità di espressione alla libertà da cui l’etica trae la sua insorgenza e a cui occorre riferirsi per valutare realisticamente lo spessore morale dell’agire umano.
La libertà qui richiamata non coincide tuttavia con una forma di anarchia o di libertarismo selvaggio. Si collega invece strettamente alla responsabilità: è una libertà responsabile, che si esercita con un’attenzione costante alla varietà delle vocazioni soggettive e alla pluralità delle circostanze situazionali.
Connotati di un’etica della responsabilità
L’in-differenza ha dunque come naturale conseguenza l’adesione alla proposta dell’“etica della responsabilità” considerata da Max Weber (4) come l’etica del politico e del professionista. E’ però estensibile a tutto l’arco dell’agire umano.
Essa si oppone, secondo Weber, all’etica della “convinzione” o della “coscienza”. Infatti, mette in evidenza l’insufficienza della semplicedeclamazione dei principi o dei valori – declamazione del tutto sterile, che non ha alcuna possibilità di incidere sul terreno delle scelte concrete della persona – e propone, in alternativa, come criterio di valutazione, l’analisi delle conseguenze positive e/o negative delle azioni, che sono da soppesare tra loro per giungere alla definizione del “bene possibile” in situazione (che non coincide col “bene assoluto”, mai totalmente attingibile), accontentandosi talvolta di scegliere il “male minore”.
L’assunzione di questo modello non implica il pericolo del relativismo. Infatti, la misurazione delle conseguenze (o degli effetti) delle azioni esige, per essere condotta correttamente, il riferimento a un sistema valoriale gerarchizzato in base al quale valutare la loro bontà morale, affrontando anche quelle situazioni di conflitto dei valori (o dei doveri), in cui la moralità consiste nell’adesione al valore più alto. L’etica weberiana della responsabilità non può dunque essere assimilata a un’etica machiavellica. Infatti, pur avendo di mira anzitutto il conseguimento del “fine”, non rinuncia a riconoscere lo spessore morale del “mezzo”, e non giustifica pertanto il ricorso a qualunque mezzo per perseguirlo. La preoccupazione da cui tale modello muove è l’esigenza di dare spazio al principio dell’efficacia, la quale non può tuttavia essere disgiunta dall’attenzione al contenuto valoriale dell’azione.
Ma la versione weberiana dell’etica della responsabilità non è sufficiente a conferire pienezza alla vera responsabilità morale. La figura del “rispondere di qualcosa”, cioè del peso oggettivo dell’azione, deve integrarsi con l’intenzionalità del soggetto che la promuove.
Di qui la necessità di introdurre una seconda figura, “rispondere a qualcuno”. Una figura che rinvia al volto dell’altro, che ci interpella a partire dalla sua indigenza con la sollecitazione a assentire ai suoi bisogni senza frapporre alcuna condizione, dunque con una imperatività assoluta. La questione che allora si pone come inderogabile è quella che riguarda la definizione dell’altro.
L’orizzonte universalistico entro cui ci muoviamo, conseguenza del fenomeno della globalizzazione e della connaturale interdipendenza tra i vari popoli e i diversi settori nei quali si esprime la convivenza umana impone allora di andare oltre la proposta originaria del personalismo che identifica l’altro con il vicino (il prossimo in senso stretto) per includere – come ci ricorda Paul Ricoeur (5) – il “terzo”, colui con cui non entreremo mai direttamente in contatto, ma che ha un nome e un volto precisi, e che possiamo raggiungere attraverso la politica, cioè dando vita a “strutture giuste” ispirate a una solidarietà integrale e universale.
Questa visione non comporta che l’esercizio della responsabilità debba essere vissuto in modo omogeneo ed appiattito. Essa, al contrario, è da vivere nel doveroso rispetto di gradi diversi, dando il primato al più vicino, il “prossimo”. Occorre non rinunciare per questo a estendere l’impegno verso l’intera umanità. A ciò si deve aggiungere, inoltre, un’ulteriore apertura al mondo degli altri; apertura che include – come ci ha ricordato Hans Jonas (6) – le generazioni future. Il che implica l’adesione a un concetto più esteso di “bene comune”, non più riconducibile a una prospettiva “sincronica” (tutto l’uomo nella sua integralità e tutti gli uomini nella loro universalità), ma facendo spazio a una prospettiva “diacronica” prendendo seriamente in considerazione coloro che verranno dopo di noi ai quali dobbiamo consegnare un mondo abitabile.
L’etica deve assumere oggi, in definitiva, il carattere di antidoto all’indifferenza e di piena accoglienza della in-differenza, facendo della responsabilità la sorgente originaria di una piena liberazione umana.
Note
- A. Rosmini, Antropologia al servizio della scienza morale, a cura di C. Riva, Fratelli Bocca, Roma-Milano 1954.
- Il Nominalismo è una corrente di pensiero filosofico-teologico proprio del Medioevo, che nega ogni possibilità di concettualizzazione, ritenendo che in essa non si esprima la realtà ma si tratti soltanto di un’etichetta esterna introdotta per ragioni utilitaristiche.
- Cf. Th. Hobbes, Leviathan (1651).
- Cf. M. Weber, La politica come professione (1919).
- Cf. P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 2016.
- Cf. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino