Libertà va cercando. Educare alla libertà
Relazione tenuta da Mariagrazia Contini*, professore di Pedagogia generale e sociale all’Università di Bologna, al ciclo d’incontri “Libertà va cercando”** l’11 dicembre 2007, sbobinatura rivista dalla relatrice e realizzata da Carlo del gruppo Kairos di Firenze
1) Postazione di partenza, la “gettatezza”
Ha senso parlare di “educazione alla libertà”, oppure si tratta di un’espressione che rivela una contraddictio in terminis, dati i condizionamenti impliciti ed espliciti, previsti e prevedibili in ogni azione educativa? Dipende. Dal punto di vista della mia prospettiva pedagogica – il problematicismo razionalista – ha senso, anzi: si deve parlare di educazione alla libertà e vedremo perché.
Preliminarmente vorrei chiarire che per educazione intendo quell’insieme di pratiche, di relazioni e di interventi tramite i quali aprire e promuovere direzioni di possibilità per i soggetti con cui si lavora. Lo dico a me stessa e lo dico alle studentesse e agli studenti, ai genitori e agli insegnanti: guai a quell’educatore o quell’educatrice, incontrando il quale o la quale, il soggetto non abbia occasione di arricchire la sua esperienza, le sue conoscenze, la sua esistenza. Guai a noi educatori, se invece di far espandere e dilatare il possibile, lo impoveriamo e mortifichiamo tradendo così l’impegno costitutivo della deontologia educativa per cui, chi ci incontra, deve potersene andare per la sua strada avendo ampliato-approfondito il proprio repertorio esistenziale sui piani del conoscere, del sentire, del rapportarsi all’altro da sé e su quello, fondamentale, della progettualità. E’ in questi termini, in quanto mirata a favorire l’espansione delle possibilità dei soggetti, che l’educazione può/deve porre, fra i suoi obiettivi fondamentali, anche quello di promuovere in essi la tensione alla libertà.
Ma andiamo per ordine, prendendo le mosse dalla nota affermazione di Heidegger secondo la quale il soggetto umano, quando si rende conto di se stesso, si scopre “gettato nel mondo”. Ovvero: scopre che è figlio di quei genitori, appartiene a quella nazione, vive in una certa città a partire dagli anni x di quel secolo, ha un determinato DNA, un certo aspetto fisico e non ha potuto scegliere nulla di tutto questo. Non solo, si trova immerso in una “condizione data” come la definiva il mio Maestro, Giovanni M.Bertin, dove tutto è presistente: la lingua, le idee, gli usi e i costumi costituiscono la cornice al cui interno egli deve collocarsi e orientarsi. Si tratta di condizionamenti pesanti: anche se fossero tutti di segno positivo, sarebbero, comunque, un immenso fardello!
E tuttavia, Heidegger sostiene che siamo gettati, ma il come della nostra gettatezza non è già deciso, così come Bertin, quando richiama la condizione data, la correla alla destinazione prescelta: entrambi suggeriscono cioè che il “come” si realizzerà il percorso del soggetto e la fisionomia complessiva che assumerà la sua personalità dipendono anche e in ampia misura dalla progettualità di quel soggetto, dalle scelte che opererà, in un orizzonte che risulta limitato, ma libero.
Molto si è discusso intorno a quella libertà tanto condizionata eppure fondamentale, in un certo senso vincolante ai fini della progettualità e costruzione esistenziale del soggetto: non a caso, Sartre sosteneva che “l’uomo è condannato a essere libero. Condannato perché non si è creato da solo, e cionondimeno libero perché una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto quello che fa”[1]. Certo, i condizionamenti a volte possono porsi in termini pesantissimi, tanto da sembrare davvero determinanti e da non far intravedere la possibilità di scelta da parte del soggetto: si pensi, ad esempio, a chi nasce con gravissime e incurabili patologie che impediscono di intendere e volere o a chi nasce in un contesto di guerra, di oppressione, di sterminio. Il più delle volte non è così, per fortuna e i condizionamenti, pur pesanti, possono lasciare aperto uno spazio: anche l’irrompere improvviso di una grave malattia ha la libertà del “come” davanti a sé: sappiamo di persone che riescono a vivere la malattia come momento di scoperta, di individuazione di senso, di capacità di dialogo con gli altri, di ricchezza. Dunque, perfino una malattia grave, evento che accade, che non abbiamo scelto, che condiziona e dà una svolta alla nostra vita, ha il suo “come”. Può essere vissuta in un modo o in un altro: e dipende anche da noi.
Ma a proposito della gettatezza voglio aprire una parentesi e inserire un dato che può essere utile ai fini complessivi di queste riflessioni.
Quando si parla di gettatezza e di casualità qualcuno potrebbe legittimamente pensare e dire che, in quanto credente, non si riconosce nella dimensione della gettatezza, ma si considera pensato, creato da Dio, in quel tempo e in quel luogo, secondo un disegno della divina provvidenza. Dunque, abbiamo concezioni contrastanti per cui non possiamo intenderci? Non credo. La mia filosofia dell’educazione è una prospettiva laica, nel senso che non richiede, ai suoi interlocutori, preliminarmente, alcun atto di fede religiosa e, neppure, alcun atto di non fede. E dunque, quando si parla di gettatezza si prevedono due possibilità: se non sono credente, sono convinta di essere, appunto, casualmente nata in quel momento, con quelle caratteristiche, con quel DNA, in quel tempo, in quella famiglia. Se sono credente, penso che questo corrisponda a un disegno divino, quindi a un disegno, un progetto che Dio ha fatto su di me. Certo, il significato di quella “condizione data” cambia, però il suo come è aperto sia per chi crede, sia per chi non crede. Per entrambi c’è davanti una esistenza da snodare, da progettare e da realizzare. Sia chi è credente, sia chi non è credente è implicato e deve impegnarsi nella scelta, in forza di quel margine di libertà che, per i credenti, si chiama “libero arbitrio”.
Quando mi rivolgo ai miei studenti e propongo loro le mie riflessioni, ignoro quanti di essi abbiano un credo religioso e quanti no; so che il mio compito è di rivolgermi a tutti, di individuare insieme a loro uno spazio d’incontro per le diversità che ci caratterizzano, ma a partire dall’umanità che ci accomuna e, per questo, oriento il mio discorso in modo tale che nessuno debba sentirsi escluso in partenza dall’ambito di possibilità che prospetto. Vediamo dunque il senso della gettatezza e della libertà del come per due soggetti, l’uno privo, l’altro con credenza religiosa. Per il primo si tratta di assumere con lucidità i termini della condizione esistenziale di ciascuno e da lì proiettarsi in un orizzonte in cui, al caso, subentri la scelta: personale, responsabile, in linea con i propri progetti. Per il secondo, cambia il punto di partenza – si ritiene creato e non gettato – e tuttavia il mistero del disegno provvidenziale lascia irrisolti gli interrogativi sul perché qui, ora, ecc. e, soprattutto, non determina in modo necessario il come dell’esistenza, dalla creazione in poi. Entrambi hanno un compito da svolgere, esistere oltre che vivere biologicamente, rispetto al quale possono sì seguire percorsi delineati e stabiliti da altri in nome di credenze religiose o di diverso genere, ma possono anche decidere di porsi come protagonisti, per individuare la direzione di ricerca e di realizzazione più rispondente alle proprie motivazioni, ai propri interessi, alle proprie possibilità. Per un credente ciò equivarrà a riconoscere la propria “vocazione” da parte del Dio che l’ha creato, per un non credente si tratterà di scoprire la strada della propria, personale differenza.
2) L’orizzonte del possibile
Riprendendo il filo del discorso, se il come non è già definito, vuol dire che davanti a noi abbiamo l’orizzonte del possibile. La categoria del possibile assume particolare rilievo, nella filosofia contemporanea, all’interno dell’esistenzialismo, in coincidenza con il focalizzarsi dell’analisi filosofica sul rapporto del soggetto umano col mondo (cioè con gli altri soggetti, gli eventi, le cose). Tale rapporto esclude la categoria fino allora dominante, della necessità, poiché il suo realizzarsi dipende da innumerevoli variabili e da un numero indefinito di condizioni che possono verificarsi, ma non lo devono necessariamente
Contemporaneamente, anche in ambito scientifico, perfino per le scienze cosiddette esatte, accade un cambiamento e i loro procedimenti e risultati non rientrano più nell’ambito della certezza e della necessità. E’ noto il principio di indeterminazione di Heisenberg: afferma che la conoscenza fisica implica l’inserirsi dell’osservatore fisico in una serie di eventi che risultano, da questo inserimento, modificati in modo indeterminabile. Dunque, mentre la fisica classica, presupponendo un mondo necessariamente determinato nelle sue leggi e nelle sue relazioni costitutive, fondava su questa necessaria determinazione la previsione sicura e infallibile di tutti i fenomeni, la fisica contemporanea propone previsioni probabili, sostituendo il possibile al necessario. E in matematica non si afferma più che la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a 180°, bensì che può esserlo: se si fa riferimento alla geometria euclidea e, come sappiamo, il rapporto se…allora esprime una possibilità, non una necessità[2].
3) E se non si vuole scegliere? Anche quella è una scelta!
L’affermarsi della categoria del possibile, col suo rimando alla pluralità, introduce cambiamenti radicali nel modo di pensare, nelle procedure scientifiche, nella progettualità dei soggetti, nel complessivo orizzonte culturale.
Se davanti a noi avessimo un’unica strada, fosse anche una strada “dorata”, saremmo nell’ambito della necessità poiché quella sarebbe la strada da percorrere. Muoversi nella cornice del possibile vuol dire, invece, intravedere più di una strada, molteplici itinerari percorribili e un ampio ventaglio di opzioni all’interno del quale operare le nostre scelte, dato che il possibile comporta, come sua implicazione originaria e ineliminabile, la scelta.
Che cos’è la libertà, se non è possibilità di scelta? Il possibile comporta la scelta e la libertà è possibilità di scegliere, è avere un orizzonte all’interno del quale non ci siano impedimenti al nostro scegliere, e quindi ci sia la libertà da, dagli ostacoli, dagli impedimenti per scegliere.
E la scelta, per essere una scelta di libertà, deve permettere, promuovere altre possibilità di scelta: povera e impoverente, quella scelta fatta la quale, non abbiamo più possibilità di scelta!
La pluralità di strade, di idee, di ipotesi di ricerca cui rimanda il possibile ha come ricaduta il pluralismo a proposito del quale scriveva Bertin nel 1983: “ Il pluralismo costituisce un elemento imprescindibile del sapere tanto sul versante filosofico che in quello scientifico, concordi nel respingere ogni presupposto dogmatico; rappresenta un’acquisizione che dopo il Concilio Vaticano II sembra ormai irreversibile nella coscienza reliogiosa cattolica; è condizione indiscussa di una libera e produttiva vita dell’arte; è confermato, per quanto riguarda la vita morale, tanto dall’antropologia culturale, quanto dalla storia della coscienza etica.”[3]
Va precisato che parlare di pluralismo non equivale a parlare di un relativismo per cui, dato il riconoscimento di una legittima pluralità dei valori, ne consegue la convinzione che un valore vale l’altro. Ci sono valori e valori. Ci sono scelte e scelte. L’interrogativo da porsi riguarda allora il come si fa a definire, a chiarire, a indicare i criteri per operare una scelta, nell’ambito della pluralità, che sia preferibile ad altre scelte. A questo proposito vorrei richiamare un monito centrale della nostra scuola di filosofia dell’educazione che indica l’obiettivo etico razionale a cui tendere: “realizza te stesso realizzando gli altri”.
Bertin diceva di non aver ripreso il monito evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso”, perché dopo la psicanalisi non si può più parlare di amore senza riconoscerne i tratti di complessità a volte ambigua e conflittuale, sia esso rivolto agli altri o a noi stessi. Ambivalenze, contraddizioni e tensioni negative nei nostri confronti possono implicare, come diceva scherzosamente Bertin, che quando diciamo “ama il prossimo tuo come te stesso” finiamo per dire…“detesta il prossimo tuo come detesti te stesso”. Anche se chi l’ha detto la prima volta, non voleva certamente dire questo.
“Realizza te stesso realizzando l’altro”, pur non sfuggendo completamente al rischio dell’ambiguità implicita nel termine “realizzazione”, sembra poterne eludere gli elementi di maggiore drammaticità indicando, inoltre, una gamma di situazioni e percorsi più vasta rispetto a quella dell’amore. Se poniamo come obiettivo “realizza te stesso realizzando l’altro”, a chi chiede come scegliere per fare una scelta di libertà, rispondiamo di scegliere tendendo alla realizzazione di sé e, nello stesso tempo e con lo stesso impegno, alla realizzazione altrui. Vuoi diventare un soggetto libero dai tanti condizionamenti che ti provengono dall’esterno e da te stesso? Ti trovi in una situazione per cui intravedi diverse possibilità e ne devi scegliere una? Fai le tue scelte, scegli i valori, intraprendi i percorsi che vanno in direzione della tua-altrui realizzazione. Non ti dico quale Dio devi adorare, quali valori devi privilegiare, o da che parte ti devi collocare politicamente. La scelta deve essere tua; come educatrice e studiosa di educazione ho un compito, quello di promuovere la tua capacità di scelta affinché tu scelga di tendere alla libertà, ma non tocca a me indicarti da che parte devi andare. Io ti dico: “Realizza te stesso realizzando gli altri” ricordandoti che il pluralismo significa dire di no al fondamentalismo, no alla credenza che ci sia una verità con la lettera maiuscola, unica e implicante il rifiuto di altre verità, no alla fuga dal confronto e dal dialogo con gli altri. E poi, sei tu che devi andare per la tua strada, e progettarti secondo le tue scelte: l’importante, per me, è che il cammino che percorri e le direzioni verso cui tendi siano occasioni per la tua realizzazione: hai il diritto e il dovere di realizzare te stesso.
Su tutti i piani: non diventare un uomo o una donna a una dimensione, non il lavoro soltanto, non l’affetto soltanto, non la politica soltanto. La realizzazione cui miri sia il più possibile vasta e profonda, multilaterale e poli-dimensionale. E mentre tendi alla realizzazione di te stesso, in queste dimensioni, anziché sgomitare, anziché opprimere gli altri per farti spazio, cerca di promuovere anche la loro realizzazione. E non soltanto dell’altro vicino a te, non del tuo sosia, ma del lontano, del prossimo che è lontano, perché vive nell’altra parte del mondo o, anche solo perché è diverso, il che ti rende più difficile agevolarlo nel suo percorso. Io ti propongo di andare in questa direzione e poi.. la scelta interpella solo te.
Certo se scegli nell’ambito del possibile, il possibile è: “possibile che sì”, “possibile che no”. Non ci offre garanzie, non ci offre sicurezze. Sarà la strada giusta, quella che sto imboccando? Tendendo a questo obiettivo, mi guadagnerò veramente uno spazio di libertà? Impegnandomi riuscirò a realizzare questo mio progetto? Il possibile è “possibile che sì”, “possibile che no”. Non è necessità, quindi contiene al suo interno il rischio: di sbagliare, di non arrivare dove vogliamo arrivare, di investire nei nostri progetti tanto impegno e di non ottenere, di non raggiungere il risultato che vorremmo, ma che non è garantito. Non c’è garanzia di successo, non c’è garanzia di scacco: “possibile che sì, possibile che no”. C’è un rischio da correre, ma la scelta prevede il rischio al suo interno, altrimenti, dove sarebbe la libertà? Il rischio della scelta è misura di libertà: tanto più siamo tutelati, tanto meno rischiamo, tanto meno siamo liberi.
4) Dall’impegno alla progettualità, alla differenza
Finora ho posto premesse per arrivare poi a indicare come, concretamente, si può impostare un’educazione alla libertà. Preannuncio che in proposito ho un triplice obiettivo da proporre che sintetizzerei in questi termini: “la testa ben fatta”, “l’alfabetizzazione emozionale”, “la resistenza solidale con gli altri”. Ma ci arrivo pian piano.
L’obiettivo nella nostra azione educativa è – dicevo prima – promuovere possibilità. Per promuovere possibilità, dobbiamo promuovere la capacità di progettare la propria esistenza, di diventarne protagonisti, non delegandola agli altri, ai tanti altri che non aspettano altro che dare indicazioni di strade da seguire. Bisogna che il soggetto diventi capace di protagonismo esistenziale, capace di prefigurare il suo futuro, i suoi percorsi, i suoi obiettivi. Ovviamente, non da solo, poiché rischierebbe di perdersi in una dimensione di titanismo individualista, ma insieme agli altri, pur con i suoi progetti, le sue scelte, il suo impegno: termine, quest’ultimo, tanto usato e indagato, un tempo, e che ora sembra evocare solo fatica e, spesso, fatica inutile quanto ineludibile. A proposito di impegno e di scelta, ecco quanto scrive Savater, rivolgendosi al figlio adolescente, in Etica per un figlio:
“E se mi dici che basta così, che sei stufo e non vuoi continuare a essere libero? Se decidi di venderti come schiavo al miglior offerente o di giurare obbedienza eterna e assoluta a un tiranno qualsiasi? Beh, lo farai perché lo vuoi, usando la tua libertà e anche se ubbedisci ad altri o ti lasci trascinare dalla massa comunque continuerai ad agire come preferisci: non rinuncerai a scegliere ma avrei scelto di non scegliere…”[4]
Non si sfugge alla scelta, poiché anche la non scelta, anche la delega sono una scelta. “Siamo condannati a essere liberi”, ci ricorda Sartre, aggiungendo che, quando non riconosciamo tale libertà, cadiamo nella malafede ovvero in quell’atteggiamento per cui trasferiamo su altri la responsabilità di nostri insuccessi o di progetti interrotti, abbandonati. A tutti è capitato di sentir raccontare da qualcuno che non è diventato ciò che poteva diventare, a causa delle condizioni economiche, delle convinzioni dei genitori e di altri fattori esterni che glielo hanno impedito. Malafede, secondo Sartre: ciascuno di noi, negli ambiti fondamentali dell’esistenza, diventa ciò che vuole diventare; non è colpa degli altri se non lo diventa.
Non condivido la radicalità di Sartre e invito i giovani a progettare l’esistenza con tanto impegno come se quello che potranno realizzare dipendesse solo da loro, ma senza perdere di vista il come se! E se mi rivolgo a una persona che ha già vissuto parte della sua vita e non ha realizzato i suoi progetti, procedo sul piano della comprensione perché è vero che siamo “condannati a essere liberi”, è vero che abbiamo la responsabilità della scelta, ma è altrettanto vero che abbiamo condizionamenti, che essi possono essere molto pesanti e, se non lo sono, a volte basta che sembrino o siano rappresentati come tali.
Su un piano “regolativo” e di “tensione a”, l’impegno va comunque considerato come assunzione radicale di responsabilità, nei confronti del proprio esistere nel mondo, con gli altri, procedendo in direzione di “differenza”, categoria che non coincide con la “diversità” e cerco di spiegarlo.
La diversità si riferisce a caratteristiche di tipo biopsicologico e sociale che ci ritroviamo a possedere come “dato di fatto” Se, ad esempio, siamo in un gruppo, nella sala d’imbarco di un aeroporto internazionale, è probabile che tra di noi vi siano uomini e donne, persone con la pelle chiara e altre con la pelle scura, qualcuno molto ansioso per il volo e qualcun altro sereno e disteso, alcuni ricchi e altri poveri e così via, fino alla probabile presenza di soggetti colpiti da malattie o da qualche handicap di tipo fisico o psichico. Ecco, in quella sala siamo tutti diversi tra di noi e non occorre che qualcuno lo dichiari o lo legittimi: è un dato di fatto, un’espressione della condizione data. Occorre, piuttosto, che il prendere atto di quella diversità non si traduca in comportamenti e atteggiamenti discriminanti, poiché, se la diversità non è scelta e non ha a che fare con la nostra libertà, non dovrebbe costituire né un merito né un demerito, non dovrebbe comportare né privilegi, né discriminazioni.
La differenza, invece, è un obiettivo che ci poniamo, verso il quale procediamo, sapendo di non poterlo raggiungere mai completamente ma sapendo anche che il tendere ad esso prefigura uno spazio per la nostra possibile libertà. La differenza equivale, infatti, al superamento dei condizionamenti che ci provengono dagli altri e da noi stessi.
C’è un libro molto bello di Doris Lessing, che ha vinto ultimamente il premio Nobel, intitolato “Le prigioni che abbiamo dentro”. Ci sono prigioni dentro di noi, così come ci sono condizionamenti fuori di noi. Tendere alla differenza vuol dire tendere alla libertà, a liberarsi sia dal peso schiacciante dei condizionamenti esterni, sia dal peso schiacciante delle nostre prigioni interiori.
5) Una testa ben fatta, l’alfabetizzazione emozionale, l’apertura all’altro da sé
E dunque, cosa vuol dire educare alla libertà? Venendo al nocciolo del nostro tema, dal mio punto di vista vuol dire, da un lato e innanzi tutto, promuovere la possibilità, per i soggetti che educhiamo, di costruirsi una testa ben fatta.
“La testa ben fatta”[5] è un libro di Edgar Morin che con quell’espressione si riferisce alla capacità di un conoscere che conosce se stesso, che scopre i propri vincoli, i pregiudizi, le stereotipie, e gli autoinganni, ma anche le proprie possibilità. Viviamo nel tempo del pensiero unico, in cui circola tanta informazione, ma quanta conoscenza ci toglie, invece di offrircela, quell’eccesso di informazione? Allora bisogna che noi sviluppiamo il senso critico. Se siamo impegnati a educare alla libertà, bisogna che favoriamo lo sviluppo, nei soggetti, del senso critico affinché diventino capaci di “smontare”, decostruire la realtà per guardarci dentro e ricomporla. Guardare la realtà di fuori, di dentro, di sopra, di sotto, davanti, di dietro, non fermandosi alla trasparenza immediata, a ciò che appare, alla chiacchiera. Essere lì, decifrare, cercare di capire, sapendo, tenendo presente che ciò che si vede non è mai LA realtà, ma la rappresentazione di una realtà. Non so se avete presente quel celebre disegno di Magritte dove compare una pipa e sotto c’è scritto “Ceci n’est pas une pipe”, “Questa non è una pipa”.
Ma come?, ci chiediamo, leggendo quelle parole. È una pipa, si vede benissimo che questa è una pipa. No. È la rappresentazione di una pipa. Cosa significa? Significa che ciascuno di noi ha la propria rappresentazione della realtà, degli avvenimenti, delle cose, delle persone, delle relazioni con le persone. Ce le rappresentiamo, noi, con i nostri occhiali, ovvero attraverso la nostra storia, attraverso i giudizi e i pregiudizi, le idee e i valori che abbiamo maturato negli anni. Ma quegli occhiali possono diventare trappole che ci impediscono di essere liberi, se sono rigidi, chiusi, intolleranti, se riescono a vedere solo quello che conoscono già, che è già familiare, che è già sedimentato nel senso comune. Per questo, quegli occhiali dobbiamo essere in grado di vederli e il senso critico che svilupperemo dovrà permetterci di guardare criticamente il nostro sguardo sulle cose e sulle persone, di interrogarlo e di rimetterlo continuamente in discussione. Altrimenti, quegli occhiali diventano vincoli che noi stessi ci creiamo e, mentre riteniamo di essere liberi, perché siamo liberi da condizioni esterne che potrebbero vincolarci, rischiamo di non poter essere liberi per, per costruire, per arricchire, per dare senso alla nostra esistenza.
Per tendere a questa libertà, che è “libertà per”, dobbiamo conquistarci una mente aperta, uno sguardo aperto, una capacità di riconoscere e combattere i pregiudizi che rifiutiamo ma che spesso ospitiamo nella nostra mente. Sei contro il razzismo? Bene, combatti il razzista che c’è in te. Questo vuol dire essere contro il pregiudizio e conoscere il proprio conoscere diventa la strada per andare verso una libertà che non è solo una libertà da ma è una libertà per: conoscere di più, ampliare il nostro repertorio cognitivo, arricchendolo di una riflessività che non dà nulla per scontato.
In più, sappiamo che il conoscere non è disgiungibile dal sentire, dall’affettività, dalle emozioni. Anche su questo piano si gioca la nostra possibilità di libertà, e anche su questo piano dobbiamo lavorare molto, se siamo educatori, educatrici e abbiamo giovani, ragazzi, adolescenti, adulti con cui ci rapportiamo, perché dobbiamo offrire loro la possibilità di un’alfabetizzazione emozionale. Voglio dire che siamo tutti un po’ analfabeti sul piano emozionale perché non è prevista un’educazione alle emozioni e che da questo analfabetismo possono derivare nodi, intoppi, problemi irrisolti, paure, che sedimentandosi dentro di noi diventano un ostacolo per la nostra crescita, per il nostro arricchimento, per il nostro rapporto con gli altri, oltre che con noi stessi.
Alfabetizzarsi sul piano emozionale[6] vuol dire riconoscere le proprie emozioni, imparare pian piano a riconoscere quelle degli altri, vuol dire poter entrare in un rapporto profondo con l’altro, di empatia, e mettere le emozioni in parole, farle diventare discorso che si condivide con l’altro. Pensate: ogni due giorni c’è una donna uccisa da qualcuno che l’amava troppo, e quindi l’ha uccisa. L’amava troppo? Era un marito, un fidanzato, un compagno, un ex marito, un ex compagno, un ex fidanzato che non poteva sopportare la fine del loro rapporto, deciso da lei, perché l’amava troppo e, così, l’ha uccisa. Rischiamo di abituarci, anche a questo: di sentir dire che, siccome l’amava troppo … l’ha uccisa!
Ricordo quando, molti anni fa, ho letto “Casa di bambola” un dramma di Henrik Ibsen che finisce drammaticamente, con la protagonista che se ne va, perché ha scoperto, appunto, di essere stata per tutta la vita una bambola nella rappresentazione del marito. Quando gli comunica la sua decisione di andarsene, il marito diventa afasico, non riesce a dire nulla di fronte a questa scelta della moglie, perché non è in grado di comprenderla, è inconcepibile per lui. E la porta di casa che si richiude dietro di lei rimbomba nel silenzio di lui, che non ha parole per dire quello che prova, per dire quel momento, quel distacco, quella scelta.
In seguito, vedendo ad esempio certi film di Ingmar Bergman, penso in particolare a “Scene da un matrimonio” che durava sei ore (lo vidi al cinema dalle 20 alle 2 di notte!), riflettevo sul fatto che lì erano in due che parlavano, parlavano: tutti e due soffrivano ma erano in grado di parlare di quella sofferenza. Mi sembrava così importante che anche gli uomini avessero imparato le parole per dirlo! Adesso è un momento in cui sembra che le parole per dirlo, di nuovo non ci siano più e si realizzi, al loro posto, il passaggio all’azione. Ci insegnano gli studiosi di psicologia che bisogna imparare – ma bisogna che qualcuno educhi a questo –a far diventare le emozioni parole, discorso, comunicazione con l’altro. Perché non siamo soggetti liberi se non possiamo tradurre in discorso le nostre emozioni, diventiamo loro ostaggio nel senso che hanno la meglio su di noi, che ci inducono a passare all’azione. Ma i bambini piccoli non possono fare altro che passare all’azione, gli adulti devono poter ricorrere e utilizzare le parole.
Questo è libertà, questo è uscire dalle prigioni che abbiamo dentro di noi: imparare a dare parola alle nostre emozioni, anche a quelle più negative: diventando discorso e comunicazione, creando possibilità, spazi di dialogo, spazi di libertà. Altrimenti dov’è la libertà, per chi è condannato a mettere in scena sempre lo stesso repertorio? Se tutte le volte che viviamo un conflitto mettiamo in scena lo stesso repertorio, se non riusciamo a stabilire empatia con gli altri e a comprendere le “ragioni” delle loro emozioni, vuol dire che abbiamo delle prigioni dentro di noi. Una recente scoperta delle neuroscienze[7] ci dice che i macachi hanno una certa attivazione celebrale quando fanno certi movimenti, ma anche quando li vedono fare, quando provano forti emozioni ma anche quando le vedono provare. E i neuroscienziati, denominando quei neuroni come “neuroni specchio”, hanno definito quell’attivazione come empatia. In realtà direi che si tratta di una predisposizione biologica all’empatia: da lì, alla realizzazione dell’ empatia, c’è tutto lo spazio che deve occupare l’educazione, ed è uno spazio molto ampio, c’è molto da lavorare. Per realizzare empatia, cioè approssimazione all’altro (non dico capacità di mettersi nei panni degli altri – figuriamoci facciamo già tanta fatica a metterci nei nostri panni!) per comprendere il significato che l’altro dà a ciò che vive, ecco, per fare questo percorso, occorre davvero molto lavoro anche e soprattutto sulle proprie prigioni interiori.
Infine, il rapporto con gli altri. Può qualcuno sentirsi libero in un mondo in cui tanti non sono liberi: dalla fame, dalla malattia, dalla guerra, dalla povertà? È libertà quella di chi si sente libero in un mondo di oppressioni? O l’emancipazione nostra verso la libertà comporta necessariamente il lavorare, il darsi da fare affinché ci sia una possibilità di emancipazione anche per gli altri? Educare alla libertà può forse voler dire educare alla libertà solo nostra? O la libertà per cui lavoriamo è la libertà di tutti o significa che ci anestetizziamo o siamo già anestetizzati rispetto le schiavitù di ogni tipo di cui soffrono tanti soggetti, uomini, donne, bambini. Significa che non ce ne importa nulla, ma il “me ne frego”, non indica libertà, rivela una solitudine autoreferenziale, chiusa in se stessa che porta aridità e impoverimento. Libertà è “I care” come diceva don Milani, io mi faccio carico e condivido.
Libertà è anche resistenza. Parliamo di libertà, dalla gettatezza, dalla condizione data, ma della condizione data di chi? Dei bambini che nascono in Africa già malati di AIDS? Parliamo di quelli che vivono e muoiono nelle guerre? O parliamo sempre di noi? Di questo nostro mondo occidentale, del dio denaro, del dio mercato, del dio successo, del dio potere: anche restando all’interno di questo mondo, di quanto ci dobbiamo emancipare per tendere alla libertà? E allora pensiamoci, non dimentichiamo, non neghiamo, non buttiamo via le immagini di quei bambini, non dimentichiamocele un attimo dopo, perché sono troppe e dunque cosa possiamo farci, non posso farci niente perché non dipende da me cambiare il mondo, non dimentichiamole perché è anche attraverso la compassione, la pietas profonda, il magone, lo stare male per loro, che c’è una possibilità di emancipazione per noi, dalla schiavitù di questo mondo in cui siamo immersi, dalla schiavitù del pensiero unico che ci convince che essere liberi vuol dire avere cose. Per farne che cosa di quelle cose? Per farne che cosa delle automobili, per stare in coda per ore e ore? Per farne cosa delle case dove non stiamo perché siamo tutti a lavorare sempre di più, sempre più a lungo? Per farne cosa di tutti gli oggetti se non è in loro potere renderci felici?
E infine ci sono le parole logore: non dovremmo permettere a nessuno di dire che siamo liberi perché compriamo un dentifricio, o qualunque altra cosa. Che nessuno possa mettere parole di libertà vicino a una cosa da consumare. Che nessuno dal punto di vista politico possa utilizzare quelle parole in termini logori.
Perché vuol dire che le parole non hanno la responsabilità di quello che dicono. Non va bene. Se parlo di libertà devo parlare di libertà, non devo parlare di altro. Ma invece abbiamo questa schiavitù, abbiamo questo orizzonte, dove crediamo – e questa è la cosa grave – che noi siamo i furbi, noi siamo i privilegiati, che a noi è andata bene. E ci dimentichiamo degli altri.
Allora l’emancipazione è resistenza. Sono venute le donne di “Piazza de Mayo” alla nostra Università, perché le abbiamo insignite di aurea honoris causa. In un’aula affollata di studenti, dopo la cerimonia, ho chiesto loro: “Ma che senso ha, quello che avete fatto e che continuate a fare? I vostri figli sono morti e non avete ottenuto la giustizia che volevate. Non avete mai ottenuto niente. Che senso ha?” L’ho chiesto perché gli studenti spesso mi dicono : «Ma, la resistenza per far che cosa, se questo mondo è fatto così. Che cosa crede lei, che noi possiamo essere vittoriosi?»”.
E le madri mi hanno risposto davanti a tutti gli studenti: “Quando si è in due, a credere in un progetto, è già sufficiente per andare avanti e cercare verità, cercare giustizia. Quindi noi, eravamo in tante, e se non abbiamo ottenuto né verità né giustizia, il nostro lavoro ha dato senso al nostro dolore, ha dato senso al dolore di tanti, e ha fatto conoscere a tutto il mondo quello che era successo, dunque non è stato inutile”. La resistenza è fatta di tempi lunghi, di nascondimenti, di molta pazienza ma anche di molta capacità di lottare e non solo per se stessi, ma perché la nostra emancipazione si diffonda e comprenda l’emancipazione degli altri.
Ricordandoci che quando pensiamo agli altri, quando riusciamo ad essere empatici con gli altri, facciamo qualcosa di buono per noi. È proprio attraverso la lotta di emancipazione dei diversi, ad esempio dei “rom”, i più diversi di tutti, che passa la nostra possibilità di emancipazione. Se non ci facciamo carico di loro, dei poveri del mondo, dei diversi, la nostra emancipazione non si realizza, rimaniamo nel nostro quadro, nel nostro orizzonte convinti che lì stiamo bene. Ma non lottiamo per la libertà.
La differenza di cui vi parlavo all’inizio è demonismo e Nietzsche ha detto parole molto belle su questo, ha parlato del Frei Geist dello “spirito libero” affermando che lo spirito libero è quello che ha il coraggio di chiudersi la porta di casa, di lasciarla alle spalle e di intraprendere un cammino: accettando che ci siano, nel suo futuro, notti fredde, senza la luce delle stelle.
Cosa vuol dire? Vuol dire che se vogliamo tendere alla libertà, e vogliamo promuovere libertà, bisogna, come dicevo, accettare il rischio, accettare di andare alla ricerca, alla ricerca, e ancora alla ricerca. Bisogna essere curiosi, e interessati agli altri mondi, avere uno sguardo aperto, che vuole capire, ancora, di più. E provare, non provare di tutto, se no ci svendiamo: non è libertà quella, ma sperimentare “le altezze e le profondità”, avendo il coraggio di aprirsi a tutto ciò che è impegnativo nella vita, al grande dolore, alla grande felicità,come ci ha insegnato Nietzsche.
Ecco, al di là della retorica, lo spirito libero è quello che lavora molto. C’è molto da fare per tutti noi. Bisogna lavorare, lavorare, lavorare… Sapendo che non si può educare qualcuno a tendere alla libertà se noi, tutti i giorni, non lavoriamo per tendere alla libertà. Sapendo, io per prima, che rimango molto indietro alle parole che riesco a dire. E che le parole che riesco a dire sono un richiamo all’impegno per voi e per me. Perché abbiamo in comune questo: che siamo persone interessate all’educazione, interessate alla progettualità esistenziale dei nostri interlocutori, interessate a educarle alla libertà. E per questo, dobbiamo lavorare molto: soprattutto, a partire da noi!
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[1] JPSartre, L’esistenzialismo è un umanismo (1946), Milano, Mursia, 1963
[2] N. Abbagnano, Possibilità e libertà, …, p.132
[3] G. M. Bertin, M. Contini, Educazione alla progettualità esistenziale, Armando, Roma, 2004, p. 59, Cfr. anche M. Contini, La comunicazione intersoggettiva fra solitudine e globalizzazione, La Nuova Italia, Firenze, 2002.
[4]F. Savater, Etica per un figlio, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 36. Cfr. inoltre, M. Contini, A. Genovese, Impegno e Conflitto, La Nuova Italia, Firenze, 1997.
[5] Di E. Morin, oltre a La testa ben fatta, Raffaello Cortina, Milano 2000, cfr. anche I sette saperi per l’educazione del futuro.
[6] Cfr. M. Contini, Per una pedagogia delle emozioni, La Nuova Italia, Firenze, 1988
[7] Per le connessioni tra i temi delle neuroscienze e quelli dell’educazione cfr. M. Contini, M. Fabbri, P. Manuzzi, Non di solo cervello. Educare alle connessioni mente-corpo-significati-contesti, Raffaello Cortina, Milano, 2006
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* Mariagrazia Contini è docente di pedagogia dell’infanzia e delle famiglie (il plurale non è un caso), da anni si occupa anche di famiglie omogenitoriali. Il suo gruppo di ricerca è stato pioniere in Italia a promuovere il dibattito e gli studi in università su questo tema. Insegna Pedagogia generale alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna. Tra le sue numerose pubblicazioni: Elogio dello scarto e della resistenza, Clueb, 2009; Molte infanzie, molte famiglie (a cura di), Carocci, 2010; La comunicazione intersoggettiva fra solitudini e globalizzazione, ETS, 2011..
** Pubblichiamo per la prima volta le sbobinature dei contributi presentati al ciclo di incontri “Libertà va cercando” (Firenze, novembre/aprile 2008), che tentò una riflessione a 360 gradi su libertà, fede e società. Sei incontri, a cadenza mensile, in cui testimoni del nostro tempo come il priore di Bose Enzo Bianchi, Gian Enrico Rusconi editorialista de “La Stampa”, Sergio Givone professore di Estetica, Mariagrazia Contini pedagogista, Luigi Lombardi Vallauri professore di filosofia del diritto e Elmar Salmann teologo presso la pontifica università gregoriana di Roma, cercarono di tracciare nuovi sentieri di vita e di pensiero.
Un’iniziativa ideata e voluta dal disciolto gruppo di formazione cristiana “Villa Guicciardini” di Firenze, composto da ragazzi dai 18 ai 35 anni, con la collaborazione dell’Ufficio Cultura dell’Arcidiocesi di Firenze e con l’aiuto inedito e non ufficiale di varie realtà cattoliche fiorentine. L’iniziativa allora ritenuta troppo aperta, da alcuni settori conservatori della chiesa fiorentina, non venne più ripetuta nonostante il grande riscontro ricevuto. Questa è la sbobbinatura degli interventi, curata dal gruppo Kairos per il gruppo di “Villa Guicciardini” di Firenze.