Libertà va cercando. Quale verità per quale libertà?
Relazione tenuta da Elmar Salmann*, docente di filosofia e teologia sistematica alla Pontificia Universita Gregoriana (Roma), al ciclo d’incontri “Libertà va cercando”** il 10 aprile 2008, sbobinatura non rivista dall’autore realizzata da Carlo del gruppo Kairos di Firenze
Avete sentito cinque altri relatori. Già i nomi, una perla di nomi famosi: Sergio Givone – pensatore del tragico, della bellezza, un dostojevskiano; una professoressa di educazione – Maria Grazia Contini – già il nome è una musica; poi un uomo conturbante, austero, con una storia travagliata, tormentata – Luigi Lombardi Vallauri – filosofo del diritto; poi uno vicino al mondo tedesco, politologo, sicuramente con un’anima laicale – Gian Enrico Rusconi; ed Enzo Bianchi, un monaco come me, ma monaco di una statura ben diversa dalla mia, già per il linguaggio del corpo e della voce, rimbombante, profetico, imponente, mentre io paragonato a lui sono epifenomeno esile della storia […] esistente dello spirito.
Dunque, cinque arcipelaghi di libertà e di verità, cinque mondi incomparabili, incommensurabili, che non hanno quasi nulla in comune. E già questo la dice lunga sulla libertà e sulla verità di ognuno. Ognuno di noi è un solitario, un gioiello, un solitaire, e poi forse risplende per qualcuno, viene illuminato da qualcosa, da una luce per rendere un po’ di gioia all’altro.
Dunque mettendomi in questo filone mi trovo un po’ in una situazione di pudore, di umiltà; ma mi trovo anche sollevato, perché tutto è già detto e io aggiungo adesso soltanto la mia piccola melodia.
Inizio con qualche citazione da un libro di René Habachi, Il momento dell’uomo, Jakabook 1985: “Che cosa è la verità? Una domanda così formulata astrattamente chiede una risposta altrettanto astratta. Per avere un senso, dovrebbe riguardare un caso preciso, dovrebbe incarnarsi in una situazione concreta e diventare l’inquietudine di una persona. La domanda di Pilato – Che cos’è la verità? – non ha quella forza di commuovere. Egli la fece per lavarsene le mani. Cristo, da parte sua, ritenne inutile rispondere”.
Chi non cerca niente è già […]. Se Pilato avesse detto: “Sei tu la verità? Che verità porti? Quale la mia posizione nei confronti della tua verità? Come mi vedi tu?” – forse, si sarebbe innescato un dialogo serrato. L’astrazione, invece, è solo una forma tramutata di indifferenza, mentre la verità è, se si invera, se si mette in moto, è una comunicazione che sussiste solo se un uomo o alcuni uomini mantengono un rapporto con lei, con la verità.
La verità non è una costatazione, non è un’ideologia, non si deve soltanto a una definizione o a una incombenza, imposizione. Non è una verità blocco, ma una verità invito. Non si impone a noi con violenza, non irrompe in noi forzando la porta. Sembra che esca da noi, che la rinveniamo, che ne rintracciamo le forme.
Ecco mi pare questo sia un punto di partenza e ancora un’ultima citazione: “La verità potrebbe essere definita come una comunicazione che ci chiama ad una collaborazione che crea quella stessa verità. Creando nello stesso tempo noi stessi.” (Rusconi, Givone, Enzo Bianchi, e perfino, in fin dei conti, me).
Ogni verità richiede un superamento dei nostri limiti, un superamento del nostro livello di personalità. La verità è una invocazione e un esaudimento. Non è fatta, ma si fa ad ogni istante. La verità è una confidenza promessa da tutto il creato a colui che le si avvicina trepidante, attento e con un modo con-creativo.
Ecco vorrei scavare la galleria sotto il monte analogo a partire da due punti di partenza. Uno è quello della conquista e del darsi della verità e nella seconda parte parlo delle coordinate della libertà. Non c’è garanzia alcuna che queste due squadre di scavo si incontreranno, ma forse si avvicineranno l’un l’altro ed essi sentono bussare l’altra squadra alla parete. Cosa avviene se ci avviciniamo a ciò che chiamiamo audacemente e spudoratamente verità?
Prima alcune cose.
Primo approccio: possiamo e dobbiamo cimentarci, misurarci, avventurarci con l’oggettività del mondo, del testo, di un volto, di ciò che si oppone al mio piglio.
Verità significa essere interpellato da qualcosa che è diverso da me; ed io devo cimentarmi con quella realtà, posso e devo imparare a rispondere audacemente, non adeguarmi, invece, non cedere, ma a rispondere con ciò che sono al volto altrui, a ciò che mi interpella e che ha una presa su di me.
Questo significa che prima di tutto devo costituirmi alla realtà, abbandonarmi; per certi versi anche arrendermi alla voce e presenza maggiore di ciò che mi viene incontro. Ma allo stesso momento costituisco anche io questo oggettività, le do il carattere di un fenomeno, lascio uno spazio affinché qualcosa possa affiorare, emergere, e dare il suo, dire il suo.
È un torneo cavalleresco tra me e l’alterità. E non giungo mai a capo con niente, con i miei genitori, i miei fratelli, il cristianesimo. Un testo che ho letto forse quarant’anni fa un testo di Goethe: “Niente è esauribile, tutto è incommensurabile, ha tanti risvolti, tante facce. Sempre di nuovo un altro sguardo, un altro volto, un’altra fisionomia che chiede di essere esplorata.
Questa è inesauribilità e inacessibilità delle cose forse è la cosa più affascinante. Non finiamo mai di stupirci, di meravigliarci della meraviglia dell’essere. Nella meraviglia mi desto a me stesso, i miei polmoni cominciano a respirare, il mio sguardo e il mio orecchio si aprono e allo stesso momento ciò che sembrava una cosa scontata che va male, riveste un volto inedito e sorprendente.
La verità è l’invito di leggerla alla dinamica del meravigliarsi della meraviglia del mondo. È una festa che chiede molta ascesi.
Secondo: cimentarsi con se stessi. Io posso e devo rispondere alle diverse stratificazioni del mio io. Io sono arcipelago, una casa con tante stanze, un giardino con tante aiuole. Sono stupido e intelligente. Cerco di essere credente e sono ancora agnostico, o sono di nuovo agnostico perché normalmente oggi viviamo troppo a lungo, per tenere la fede desta.
Ci passano tante cose per la testa e per il cuore; non sono una verità ma io sono composto di tante prospettive di tanti mondi, di tanti saperi, di tante intuizioni che spesso si contraddicono. Questo vale per opzioni politiche, religiose, per il mio atteggiamento verso i genitori, agli amici. Tutto questo trova in me assonanze e dissonanze ben diverse e variegate, lucide e torbide, abissali e simpatetiche.
Dunque, devo lentamente imparare a fare i conti con il mio sguardo, la ricchezza della mia storia, le stratificazioni geologiche del mio entroterra. Ognuno di noi è inesauribile. Ovviamente siamo chiamati a darci una incastonatura, una forma, un minimo di attendibilità anche per noi stessi; di crearci una persona, un personaggio, ma con qualche senso essendo di umorismo malinconico nei confronti di ciò che rappresentiamo e siamo.
Dunque un minimo di auto rapporto consapevole. Un minimo di consapevolezza di ciò che credo, di ciò che so, della propria prospettiva del mondo, della propria stupidità: cosa so veramente di Berlusconi? Forse lui non conosce nemmeno se stesso – anzi quasi sicuramente. Ma chi di noi potrebbe dire, in se stesso, di conoscersi? Cosa so delle cose che giudico? In quale ottica parlo, quando parlo della Chiesa, dei sindacati, di Bush, dell’Islam, ecc. ecc.?
Per questo faccio normalmente l’invito, prima di parlare di una cosa, di prendere una penna e un foglio bianco e di darsi venti trenta minuti e scarabocchiare tutto ciò che mi frulla per la testa, ciò che so già o credo di sapere. Quali sono le valutazioni, le informazioni, tutto ciò che ho già letto su un fenomeno. Sappiamo già moltissime cose, ovviamente anche con tutta la limitatezza. Questo resoconto, questo precipitato della preistoria del mio conoscere, ci aiuta ad orientarci nei confronti di noi stessi e dell’altro.
Terzo: cimentarsi con l’istanza dello sguardo altrui. So che l’altro riflette su di se, guarda me, giudica me, ha ed è una sua visione del mondo. Nella verità ci aiutiamo a definire ed inabitare il nostro rispettivo universo che siamo. Per me è un fascino inesauribile, non mi stanco quasi mai di cogliere, cercare di cogliere, la gestualità individuale di un altro. Ogni mio dottorando, ogni persona con la quale ho a che fare nella cura d’anime è un universo, e si crea un altro stile di rapporto con lui, un altro linguaggio, un altro modo di collaborazione, mai prevedibile.
Io per dieci anni ho lavorato nella cura d’anime di gente in crisi, di preti che lasciavano l’abito, poi sono stato cappellano in due manicomi, e dunque ogni giorno avevo a che fare con una decina di micro- biografie, di narrazioni inenarrabili di una storia. Ed ogni volta dovevo espormi a questo, non ero mai sicuro di che cosa si nasconde dietro questa porta, cosa mi viene incontro. E mi ricordo che ho inventato un po’ la preghiera sulla soglia, un minimo di sguardo in alto per creare uno spazio di accoglienza e di sorpresa con la preghiera che io possa essere, non dico all’altezza della vicenda altrui, ma almeno regger all’impatto con l’enigma e il mistero della biografia dell’altro. Salutare in modo accogliente ospitale ciò che mi viene incontro dal mito e dalla biografia abissale di ognuno.
Nella nostra Chiesa abbiamo favorito negli ultimi quarant’anni il discorso della comunione, ma la religione di per se trova la sua distanza incisiva e maggiore nella solitudine. Ognuno è pensato come originale; e da questo si crea come una comunanza ilare e sofferta con l’altro, con gli altri. Ci sono molte chiacchiere nella nostra Chiesa attuale che non convincono nessuno. Sono mitologeni della piattezza. Non c’è un minimo di profondità in queste cose. Ognuno è un io segnato, basta guardare nello specchio.
Quarto: io devo e posso intendere, comprendere, il mondo che me, nella nostra rispettiva comunanza. Questo è, posso, mi è dato e devo. È un comandamento ed una grazia – adesso ci avviciniamo alla lettera ai Romani. È un comandamento ed una grazia. Tu devi comprende, imparare a comprendere, te l’altro, intenderti del mondo, trovare il linguaggio adeguato.
Del resto anche la lingua italiana è uno strumento, un serbatoio, una miniera di rivelazione. La lingua italiana sa tutto. Devo soltanto captare il messaggio che si sussurra. Ora questo vale anche per il tedesco. Io ho il privilegio di vivere tra due lingue e ognuna ha una sequenza musicale diversa, dice qualcos’altro sulla realtà divina umana e mondana.
Dunque, tu puoi e tu devi, è una legge, un comandamento per la tua libertà: non è una legge estranea a me, un comandamento della via di libertà e il tedesco il comandamento è anche offerta. Mi è dato ed imposto di intendermi del mondo, di comprendere me e te.
Forse se avviene è una grazia: non siamo padroni del processo della verità. Possiamo investire molto, sforzarci, ma che la verità si dà che emerge, che rifulge, che mi illumina, che avviene tra di noi anche stasera, questo succede. È un successo tra di noi, di cui non sono padrone: è una grazia. Per questo la verità va anche implorata. La preghiera fa parte del processo dell’inveramento.
Ultimo punto di questa sezione: la verità si sottrae. Ha un preistoria sconfinata. In ogni vita, nella storia dell’Italia, del cristianesimo, della religione, della politica, da Platone e dall’Egitto in poi, la storia fra l’Islam e il Cristianesimo ha conosciuto tantissime stagioni da 1300 anni. Non ho mai sentito una predica intelligente sul rapporto tra l’Islam e il cristianesimo.
Ma saperlo oggi la cosa più elementare. Per fare soltanto un esempio: tutto ha una preistoria immemorabile e noi preti, la Chiesa, colti dovrebbero scavare dentro la miniera dell’immemorabile. Tutto è simbolo di una tautologia scoordinata e tutto rinvia ad un eschaton, non ci spetta un giudizio definitivo; nessuno qui in sala sa come fare politica oggi, forse perché la politica non esiste più schiacciata tra economia, Europa, globalizzazione e processi della nostra società. Probabilmente siamo ingovernabili. E tutte le alternative che si pongono sono misere, perché non si dà più la possibilità di grandi politiche. Abbiamo perso l’ideologia e ogni riscontro fortemente politico, perché altre logiche determinano la società. Ma questa è un’ipotesi, niente di più.
Dunque tutto invia ad un giudizio escatologico, all’uomo non spetta né la prima né l’ultima parola – grazie a Dio – nemmeno su di noi. Per questo ha un senso di rinviare all’eschaton, ad un volto, ad una voce, una luce, una chiarezza che non viene tra noi. La verità rinvia ad un giudizio nell’’ultimo giorno. E speriamo che qui, all’insegna di un amore più grande e maggiore di noi, ci sarà un’illuminazione sul paesaggio della nostra esistenza.
Ecco questo era una prima passeggiatina serale attorno al concetto, o meglio, alla realizzazione della verità. Come vediamo adesso la seconda scena, la verità non è una cosa astratta, costatabile, non è una sentenza, non è ideologica ma fa leva sul concetto del riconoscimento della verità. La verità va riconosciuta, e per questo fa leva sulla libertà, ché il poter riconoscere qualcosa non è un atto dovuto ma è un atto di libertà.
Adesso la seconda squadra di scavo verso il baricentro dell’essere: scoperta della libertà. Di nuovo due citazioni molto brevi. Dal libro di René Habachi: “La libertà non si dimostra” – come oggi vogliono i teologi, i filosofi, le discussioni attorno al determinismo e indeterminismo (si può discutere all’infinito su queste cose e non si giunge mai a capo). Perché la libertà non si lascia dimostrare come la struttura di uno scarabeo, non è oggettivabile; la libertà è per definizione la freschezza della genesi permanente del mio mondo. Non si dimostra ma è vissuta da chi ha il coraggio di correre il rischio.
Questa è la libertà. La libertà, infatti, non si dimostra ma si incontra, si sviluppa, si conquista; essa diventa presenza per chi si rende presente a lei. La libertà consiste nel proiettare davanti a se come uno spazio che prima non esisteva, si inventa se stessa. Si innesca quasi a se stessa. È una auto-creazione imprevedibile. In questo momento quando parlo invento la mia libertà, creo in modo con-creativo il paesaggio di verità e di libertà.
Prima sono stato a letto in albergo, ero un altro uomo perché stavo riposando; adesso comincio ad inventare davanti a voi, per farvi un po’ di piacere, tutto lì.
La creatura umana inventa se stessa; la libertà nasce da noi e ci lascia trasfigurati. Questo – voi lo conoscete – non è soltanto il momento della decisione – anche questo fa parte della libertà – ma quando comincio a lavorare, quando esco dalla [protusità] e comincio a scrivere, mi vengono tante cose che prima non avevo pensato. Nell’atto creativo del comporre Beethoven diventa Beethoven quando è depressivo litiga con i miei amici, non è Beethoven, ma è un nevrotico. Beethoven diventa Beethoven quando comincia a comporre e nasce un nuovo mondo suo e della composizione. È in questo diventa libero. Beethoven un nevrotico non è libero, è inceppato, è insopportabile, è improponibile. E implora permanentemente. Ma appena esce dal guscio e comincia a creare un mondo musicale, diventa Beethoven; assistiamo alla palingenesi, alla nascita di un mondo di libertà creativa.
Alcune coordinate adesso sulla libertà.
Il primo è riconoscersi passivi: essa si [inabita]. Ognuno deve, non ci inventiamo da zero, ma dobbiamo riconoscere che siamo passivi, che ci siamo nati. Nessuno ha assistito alla sua nascita, ognuno deve confessarsi proveniente da, figlio o figlia di una stirpe, di una tradizione, di questi genitori. Il che è sempre una cosa umiliante. Grande e umiliante.
Io sono rampollo di due genitori che casualmente si sono incontrati e biologicamente costellati, con tutte le loro doti, ma anche tutte le loro nevrosi che visibilmente si rispecchiano anche in me. Tutte le nevrosi di mio padre, quasi ebreo, patriarca industriale, peggio ancora di mia madre tutto, ovviamente anche le doti, risplendono, rifulgono adesso davanti a noi. Che sono soltanto tedesco e non russo-italiano. Non sono nato a Firenze ma in una città insignificante, protestante, industriale dove non c’è nessun edificio nato prima del 1880. Qui è un’altra cosa.
Mi sono nato. Il primo gesto della libertà è poter riconoscere la mia dipendenza, la mia limitatezza. Non come ristrettezza, non come condanna ma come patrimonio e matrimonio con la mia vita. Il poter riconoscere ciò che sono diventato. Questo è il primo gesto di libertà: onorare i proprio genitori per poter avere un futuro. Chi non onora le proprie sorgenti è condannato a rimanerne prigioniero e a dipendere delle nevrosi dei suoi genitori. Molti si autocondannano a ripetere ciò che hanno odiato nei loro genitori. Genitori nel senso largo, sono insegnati, maestri, maestri di noviziato, ecc. ecc.
Secondo: la decisione. Uscire dalla indolenza, dalla noia, dallo sbadiglio, dalla sonnolenza, dal torpore, dall’indifferenza, dallo squallore dell’indifferenza del banale. Decidersi di iniziare qualcosa con me e con il mio mondo. Iniziarsi all’inizio. È un salto uno deve superare se stesso, la propria infingardaggine, la propria pesantezza, esporsi a rischiare, saltare, buttarsi dentro, investirsi; e forse uno viene anche investito. Questo è il secondo passo della libertà: poter iniziare qualcosa con se stesso, con l’altro, col mondo. Questo crea la spontaneità: diventare dunque padri e madri di se stessi.
Non basta essere artista. Uno deve creare un’opera artistica. Appena uno comincia a scrivere un lavoro di seminario imparo qualcosa, scopro anche le mie sorgenti, scopro la mia ricchezza, le mie doti, i miei talenti, la miniera del mio esserci. Soltanto saltando in avanti scopro il retroterra della mia dotatezza. Decidersi con tutti i rischi anche di fallire. Noi viviamo oggi in una società con tante iniziative, tanta attività isterica, ma questo non è iniziarsi all’inizio. Noi oscilliamo oggi tra depressività e isterismo ma fra […] si collocherebbe il livello della conquista della libertà.
Terzo: non inizio qualcosa in modo velleitario, arbitrario, esplosivo, non sono l’Etna che esplode. No! Ci vuole una misura anche qua: e qui entra di nuovo la verità. Faccio qualcosa che risponde o risponda a me stesso, al mondo circostante, alle esigenze della vita? Dunque la libertà è qui anche, diciamo, apparentata alla verità. La libertà non è scapigliatura, non è un’avventura qualsiasi, non è avventurarsi sconsideratamente. Non è esplosione vulcanica, non è auto espressività ad ogni costo. Ma in tutto quello superarsi è un rispondere alle risorse mie, del mondo e a un contesto.
Non c’è libertà senza corrispondenza alla verità.
Quarto: in questo si crea un agire con excusia, con potere e potestas. Non un fare qualsiasi. Non un attivismo sfrenato, ma un accenno, un iniziare, un creare che è più di un agire qualsiasi.
Uno inabita la propria azione. Quando adesso parlo non faccio un discorsetto così. Spero di non fare adesso il chiacchierone o come molti preti la domenica che non sono preparati e farfugliano qualcosa così. Lì ovviamente non si comunica niente, non si crea né verità né libertà.
No! Si tratta qui di un agire con potenza e potestas, dunque legittimato e sorretto da un vigore, da una linfa vitale. Gesù agiva così: con exusia, con forza, legittimità e grinta. E questo vale anche per il perdonare, il guarire, il toccare, trovare la parola giusta in un colloquio, nel parlatorio, in manicomio. Molto dipendeva in manicomio dal tocco, come toccare il malato. Ovviamente non ci voleva un toccare superficiale, fare così, vabbè, tutto va bene. Non anche il tocco che ovviamente diventa anche un po’ meccanico a lungo andare ma nondimeno senza un minimo di presenza: un tocco non trasmette niente, diventa quasi un’offesa al malato.
Anzi, per dare questa forza nel discorso e nel tocco, uno deve, quasi sempre, attraversare la propria impossibilità e improponibilità. Oggi sul treno ho pensato: “Ma cosa ho da dire io a Firenze? Ho parlato sì tante volte su libertà e verità; ma in fondo perché faccio ancora questo? Predico da quasi quarant’anni: perché lo faccio? Cosa mi legittima a parlare e a strapazzare i vostri nervi stasera? A volte c’è l’impossibilità teorica, a volte quella esistenziale che va attraversata affinché nasca un discorso forte che non è soltanto un precipitato della mia forza naturale.
Quinto: in tutto questo, possiamo e dobbiamo testimoniare qualcosa che è maggiore di noi, più grande di noi. Ognuno di noi testimonia un retroterra, della sua cultura, della stoffa che è e che ha, della sua forza di mare, della sua sapienza tragica del mondo, della sua esperienza, di ciò che lo ha assegnato. Ognuno di noi lo fa senza saperla: da ognuno emana un’aurea, un campo di irradiazione; appena entriamo nella stanza la gente è attratta o recalcitra. Cosa testimoniamo in noi? Di che cosa siamo simbolo, di che cosa siamo metafora?
La nostra storia con la religione negli ultimi cinquanta’anni, come ci ha segnato e cosa testimoniamo di questo? Vedete, ognuno testimonia non soltanto il suo carattere, ma anche la libertà oggettiva. Quando mi affido a un medico, deve essere non necessariamente simpatico ma almeno non un farabutto. Mi affido alla libertà oggettiva che è fatta di competenza, di umanità, di attenzione, di accoglienza, di una sapienza di mestiere; mi affido a questo e mi aspetto che il medico, il parroco, l’insegnate, i genitori, trasmettano questo. Ognuno ovviamente con la sua stoffa, il suo carattere, dunque è estremamente soggettivo. Così anche un predicatore: non vi aspettate un funzionario che sciorina un rosario o dei discorsi che fanno pietà. O che ripete le parole del Papa. Quelle non servono a niente, ripetute così. Non è un’informazione, ma volete che il predicatore sia attraversato, segnato, elevato da ciò che dice, che l’abbia inverato; ma che poi voi non volete soltanto l’esperienza di quel malcapitato: volete che lui ceda il passo al paesaggio che cerca di delucidare e di presentare. Ambedue i processi, libertà e verità, si costellano in questo.
Sesto punto: in questo ognuno si espone al giudizio altrui. Non siamo oggi troppo sensibili. No, essere giudicati è la cosa più normale. Dunque la pagella della vita. Un insegnate si espone agli alunni, un predicatore ai fedeli, un papa ai giornalisti, e se non fa bene il suo mestiere merita un bel tonfo – si merita anche una sconfitta, altrimenti non impariamo niente. Dunque siamo in cerca non di essere coccolati, o di trovare semplicemente consenso, ma di essere stimati a causa della giustizia abbiamo potuto rendere alla realtà; di essere stimati a causa della giustizia che abbiamo potuto rendere alla realtà. Vogliamo essere riconosciuti, per la nostra competenza umana e per il connubio tra libertà e verità che si è creato nella nostra fisionomia di vita. È una bella cosa poter riconoscersi a vicenda. Del resto è il processo trinitario: Dio è il mistero del riconoscersi, riconosciuto dall’altro e riconoscersi a vicenda.
Il settimo: tutto questo lo possiamo, non è una morale un richiamo alla responsabilità. Io non uso mai queste parole, mi danno grande fastidio: “Voi siete responsabili!”. Il richiamo alla responsabilità va di moda anche nella nostra Chiesa. Io non so più di cosa sono responsabile nemmeno per i miei dottorandi: cerco di rispondere alle loro esigenze ma non sono responsabile per. E purtroppo a volte succede anche questo: per i miei libri, per la pulizia in camera mia, sono anche responsabile. Ma posso, posso riconoscermi nato, posso sempre di nuovo iniziare me ad iniziare, uscire dalla depressività, dal torpore; posso rispondere e testimoniare e anche mettermi in confronto con il giudizio su di me.
Senza risentimenti, senza offendermi, sopportare lo sguardo dell’altro su di me, in modo fecondo. Posso. Questa è la mia libertà, questa è la stoffa che sono, questo è il mio onore: poter reggere fecondamente a ciò che abbiamo percorso, le diverse tappe della verità e della libertà. Questo è la potestas la potenza dell’uomo: il cristianesimo parla troppo poco della potenzialità della potenza dell’uomo. Per questo ci meritiamo il biasimo di inizio. Dunque, non siamo cani bastonati. Possiamo essere noi stessi, con tutte queste sfumature. E per questo dobbiamo: tu puoi e tu devi essere all’altezza del tuo splendore – il tuo piccolo splendore – del tuo paesaggio, delle tue esperienze, del tuo campo limitato, del tuo feudo che ti è stato affidato. Quello puoi coltivarlo.
Ecco, questo mi pare sia un po’ il punto di connubio tra la mia verità impostami e la mia libertà.
Da li nasce una etica cristiana creazionistica: favorire la crescita di me e dell’altro. Noi predichiamo normalmente la misericordia, la compassione, ma questo è già un atteggiamento dall’alto in basso, un commiserarsi con un altro poveretto.
Ovviamente, ci sono momenti dove ci vuole la pietas, dove ci vuole il coraggio di domandare perché piangi, dove ci vuole il gesto sollevante nei confronti del misero: ci vogliono! Ma non deve essere un commiserarsi, un’accondiscendenza: il gesto primordiale, anche in questi casi, è quello della con-creatività sollevante, dunque favorire la libertà e la crescita altrui, creare un campo di con-creatività, nella famiglia, nel nostro ambiente.
Questo chiede tante forme di auto superamento; ma è un ascesi bella, promuovente e promettente, che ci rincuora e rincuorerebbe. In questo nasce la libertà. Dunque è un’etica creazionistica, del tutto trascurata dal cristianesimo. Noi predichiamo sempre un po’ questa compassione, abbiamo un’etica proibitiva e inibitiva in questo cristianesimo, mentre secondo il mio discorso di stasera, vorrei favorire il clima di un’etica promuovente e con-creativa. E mi pare questo sia lo stile di Dio, come Dio tratta con se stesso. Dio non è monomade, non si annoda in se stesso, non è né depressivo né isterico. Speriamo almeno che non sia così, altrimenti rinuncio al cielo. Mentre Dio è trinitario, dunque è evento della gratia elevans, del favorire la libertà e crescita altrui: questo è la dinamica della vita divina ed io vorrei, ho voluto captare qualche riflesso di questa vita nella fenomenologia della nostra piccola esistenza.
* Elmar Salmann è nato il 12 maggio nel 1948, a Hagen (Germania), ha compiuto studi di filosofia, lettere e teologia a Paderborn, Vienna e Münster ed è divenuto monaco benedettino dell’Abbazia benedettiria di Gerleve (Westfalia) nel 1973.
Dal 1981 è docente filosofia e teologia sistematica presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo (Roma), alla Pontificia Universita Gregoriana (Roma), e alla Hochschule für Philosophie (Monaco di Baviera).
Si occupa di poesia e teologia, ebraismo e fede cristiana, modernità e cristianesimo. La sua teologia è un tentativo di verificare la possibilità di uno stile di vita e di pensiero ispirati al cristianesimo, senza per questo rinunciare ad essere uomini del nostro tempo. Tra le sue pubblicazioni segnaliamo: Memorie Italiane. Impressioni e impronte di un cammino teologico, Cittadella editrice, Assisi, 2012; Presenza di spirito. Il cristianesimo come stile di pensiero e di vita, Cittadella editrice, 2011; Il respiro della benedizione – Spiragli per un mistero vivibile, Cittadella editrice, 2010; Passi e passaggi nel Cristianesimo, Cittadella editrice, 2009.
** Pubblichiamo per la prima volta le sbobinature dei contributi presentati al ciclo di incontri “Libertà va cercando” (Firenze, novembre/aprile 2008), che tentò una riflessione a 360 gradi su libertà, fede e società. Sei incontri, a cadenza mensile, in cui testimoni del nostro tempo come il priore di Bose Enzo Bianchi, Gian Enrico Rusconi editorialista de “La Stampa”, Sergio Givone professore di Estetica, Mariagrazia Contini pedagogista, Luigi Lombardi Vallauri professore di filosofia del diritto e Elmar Salmann teologo presso la pontifica università gregoriana di Roma, cercarono di tracciare nuovi sentieri di vita e di pensiero.
Un’iniziativa ideata e voluta dal disciolto gruppo di formazione cristiana “Villa Guicciardini” di Firenze, composto da ragazzi dai 18 ai 35 anni, con la collaborazione dell’Ufficio Cultura dell’Arcidiocesi di Firenze e con l’aiuto inedito e non ufficiale di varie realtà cattoliche fiorentine. L’iniziativa allora ritenuta troppo aperta, da alcuni settori conservatori della chiesa fiorentina, non venne più ripetuta nonostante il grande riscontro ricevuto. Questa è la sbobbinatura degli interventi, curata dal gruppo Kairos per il gruppo di “Villa Guicciardini” di Firenze.