“Ostentare”: la parola chiave dell’omofobia
Riflessioni inviateci da Massimo Battaglio
Periodicamente mi tocca tornare a discutere con qualcuno che chiede ai gay di non “ostentare”. A volte sono persone a cui fa senso che un individuo non corrisponda perfettamente alle attese sociali a cui dovrebbe attenersi in campo di ruolo di genere. Ovvero: “il maschio deve fare il maschio; la femmina deve fare la femmina. Chi non ci sta, lo faccia lontano dai miei occhi”. Si tratta quindi di omofobi belli e buoni, anche se non hanno il coraggio di venire allo scontro.
Ma c’è anche la “velata”
Altre volte, chi chiede di “non ostentare”, lo fa perché non vuole fare i conti con la sessualità propria. Teme di essere a sua volta omosessuale (o lo sa benissimo e magari lo mette pure in pratica). Ma ha ricevuto un’idea talmente negativa dell’omosessualità, che non vuole vederla. Soprattutto, non vuole vedere immagini di gay e lesbiche felici, essendo convinto che l’omosessualità sia dolore e tristezza. Secondo lui, un omosessuale che sorride, che balla o dà un bacio al proprio compagno, è falso, finge, “ostenta”.
Provo una gran pietà per queste persone. Vivere nella mestizia dev’essere proprio brutto. Ma siccome non sono uno psicologo, non posso offrire loro che la mia amicizia, se non li scandalizza troppo. E, da amico, consiglio loro di farsi aiutare da qualcuno più esperto di me; per esempio un bravo psicologo.
E quello “fuori dai giri”
Spesso, quelli che chiedono di “non ostentare” sono apertamente gay loro stessi ma intendono prendere distanze da una comunità nella quale faticano a riconoscersi. E lì mi domando: a che pro?
Personalmente, ho imparato che far parte di una comunità non significa condividerne tutto. Ad esempio, se dovessi condividere assolutamente tutto della Chiesa, forse sarei già diventato induista. O forse no perché, a sua volta, non penso di condividere l’induismo per filo e per segno. Magari agnostico? Beh… la maggior parte dei miei amici è agnostica, e allora perché no? Ma so che riconoscersi cristiano non è una questione così leggera. Non si tratta di prendere una tessera, come se la fede fosse un partito o un’associazione. E allora ho escogitato il mio modo di esserlo nonostante tutte le contraddizioni e grazie a esse, e ci sto. In ciò, devo dire che mi sento in buona compagnia.
Essere gay o lesbiche, bisessuali o trans, e quindi far parte della comunità lgbt che lo si voglia o no, è la stessa cosa. Magari non si condivide tutto. Magari ci saranno discussioni. Ma si accettano perché, in mezzo ad altri come noi, si vive meglio. Si sperimenta che non si è soli; che qualcuno ci somiglia; che si può contare su di lui.
Il “chiodo fisso”
Ciò che più dà fastidio a chi chiede di “non ostentare” è, oltre all’allegria di cui abbiamo già parlato, il cosiddetto “chiodo fisso”. Non si sopporta che tra persone omosessuali si parli spesso di sesso.
Ma cari amici: avete mai provato ad ascoltare i discorsi dei vostri colleghi alla macchinetta del caffè? Vacanze, partita, cibo e sesso (non uso la parola più ricorrente perché mi si direbbe che “ostento”). A volte, le persone sposate, per decenza, invece che di sesso parlano dei figli. Non c’è nulla di strano: sono i quattro argomenti su cui, da sempre, l’umanità sente il bisogno di confrontarsi. E se non bastano i luoghi e i momenti in cui ci si confronta seriamente, lo si fa per scherzo, negli scampoli di tempo libero.
Se questo vale per tutti, non vedo perché non dovrebbe valere per noi che, in più, viviamo nel sesso proprio l’elemento che ci differenzia dalla maggioranza. Per noi, l’approccio con la sessualità richiede un lavoro doppio: prima riconoscersi sessuati e poi scoprire di esserlo in modo “speciale”. E’ del tutto naturale che si senta il bisogno di parlarne, di confrontarsi, di imparare. Non è naturale che degli appassionati di fotografia parlino tra loro di inquadrature e macchine fotografiche? Non è normale che si riuniscano apposta per farlo?
Il problema allora non è l’omosessualità in sè ma il pudore ingiustificato che abbiamo ancora del sesso. Pudore che, come sappiamo, diventa repressione e può fare danni gravi.
Il “farfallone”
Altra ragione per “non ostentare” è la paura di dover affrontare i pregiudizi. Si sa: i gay sono farfalloni, infedeli, irresponsabili. Si sa? E chi l’ha detto?
Io so, per esempio, che due terzi delle persone omosessuali dai trent’anni in su, vivono in rapporto di coppia stabile. Fonti ISTAT mi dicono che è la stessa percentuale che si riscontra per gli individui eterosessuali. Poi so che, nei tre anni da che esistono le Unioni Civili, il 3,6% della popolazione omosessuale ne ha giovato. Una percentuale più alta di quella dei matrimoni di primo letto rapportati alla popolazione eterosessuale. Chi si lascia ancora impaurire dallo stereotipo del gay incapace di relazioni significative, vive in un mondo vecchio, posto che sia mai esistito.
Eh ma c’è tanta promiscuità!
Ma siamo proprio sicuri che sia un problema nostro? Un mio vecchio amico, un prete, diversi anni fa, mi diceva che i motivi più ricorrenti nelle confessioni che raccoglieva, riguardavano proprio questioni di promiscuità. Il fenomeno, mi diceva, era particolarmente intenso tra i giovani ma si ripresentava a tutte le età. E attenzione: si parlava solo di persone che andavano a confessarsi, cioè di cattolici molto praticanti. Il tema dell’infedeltà e della promiscuità accompagna il genere umano da sempre, a prescindere dagli orientamenti sessuali. E le valutazioni morali che se ne danno sono sempre state le più varie: è una cosa brutta; si fa ma non si dice; si fa e va benissimo.
Lo specifico della cultura omosessuale è che, tra di noi, se ne parla. E questo non è “ostentare” ma confrontarsi. E’ mettersi in discussione, accettare e in qualche misura chiedere il sostegno degli altri, della comunità.
Resta una questione estetica
Talvolta mi tocca di sentire esplicitamente che “a ostentare ci si rende ridicoli”. Ma qui siamo di nuovo su un terreno da psicologi.
Diciamolo chiaro. Non so cosa ci sia di male se un ragazzo che ha appena compiuto il suo percorso di accettazione, vuole mostrarsi per quel che ha scoperto di essere. E non vedo perché non possa farlo con orgoglio, passione e allegria. Anche con ironia, perché no? Più avanti raggiungerà la maturità piena e non avrà più bisogno di proclamarsi incessantemente. Per ora, non posso che accettare il suo invito a condividere la sua felicità.
Viceversa, se il ragazzo un po’ frufrù ci “fa effetto”, qualche problemino, ce l’abbiamo noi. Non solo lo stiamo giudicando male ma temiamo che possa danneggiarci. Temiamo di essere come lui. E questo, se non si chiama omofobia interiorizzata, ha un nome ancora peggiore: razzismo.