Quando un Di Battista qualunque fa l’omofobo
Riflessioni di Massimo Battaglio
Poi uno vota quel che gli pare, per carità. E non è neanche detto che le scelte di voto debbano essere operate a partire dai diritti LGBT. Si fanno anche ragionamenti più ampi, valutando tutti i problemi del Paese.
Ma quando un Di Battista qualunque, per parlare dei problemi del Paese, sente il dovere di fare dello spirito gratuito sulla comunità LGBT, va a finire che io non lo voto.
Non tanto perché disprezza le mie istanze ma perché, disprezzando me, mi dà l’aria di disprezzare chiunque. E il disprezzo non è il miglior strumento per il governo di un Paese.
Riporto per intero il twitt in cui si è prodotto l’altro ieri e che ha fatto discutere tutti:
“Volete la regolamentazione della produzione e della vendita della cannabis? Allora evitate di farvi i selfie con una canna in mano. Si tratta di gesti infantili ed altamente controproducenti. Ricordano coloro che pretendono di ottenere un miglioramento dei diritti civili per gli omosessuali esibendosi in volgari forme di trasgressione durante i Gay Pride.
Ogni forma di comunicazione individualistica ed autoreferenziale allontana il raggiungimento del risultato. Ancor di più se riguarda battaglie che dovrebbero essere sociali e quindi collettive. La fine del proibizionismo della cannabis è una battaglia sociale, oggi ancor di più, e va fatta in modo laico e razionale”
Non posso pensare che questo capolavoro di qualunquismo non fosse ben calcolato. Somiglia troppo, nello stile, alle cazzate che altri suoi colleghi ci propinano ormai quotidianamente al solo scopo di far parlare di sè. Individua un “problema” di scarso interesse; gliene affianca un altro; grida allo scandalo.
Manca solo un bel “vergogna” (ma non sarebbe nel linguaggio del Dibba) e il pacchettino è pronto. Audience assicurata.
Al mio primo pride ero vestito con un paio di pantaloni bianchi e una camicia leggera a righe rosse. Seguivo il mito della “sobrietà”. Al secondo, la camicia era a tinta unita ma la tolsi a metà corteo.
Non ne potevo più di ripetermi che non mi sentivo “rappresentato” da quelli che vestono in piume e lustrini. D’altra parte, non erano mica lì per rappresentare me! Loro rappresentavano se stessi; io anche; tutti rappresentavamo un unico mondo in cui c’è posto per tutti e in particolare per coloro a cui un posto è negato. Sicché provai a togliermi la camicia.
E’ bello il sole che batte sulla pelle nuda. E diventa ancora più bello se è un sole di città, non quello delle spiagge ma quello di tutti i giorni, a cui normalmente neghiamo di accarezzarci.
Così iniziò il periodo in cui mi arrabbiavo per quelli che “non si sentivano rappresentati”. Arrivai a detestare i falsi schizzinosi come Di Battista. Perché non mi sentivo più come loro. E non avevo nessuna voglia di regredire al loro livello, dopo tutta la fatica che avevo fatto per togliere quella camicia!
Imparai poco più tardi che lo spirito di Stanewall prevedeva di non detestare proprio nessuno.
Nel 2015 portavo una maglietta con un arcobaleno e una scritta: “Cammino dei Diritti”. Era la réclame di un’ideuzza molto “trasgressiva” che avevamo architettato con alcuni amici.
Il mese dopo, saremmo partiti a piedi verso Roma e, seguendo la via Franchigena, avremmo provato a sensibilizzare sui nostri temi tutti coloro che incontravamo.
Quindi ci presentammo al pride vestiti così: scarpe da trakking, zaino in spalla e, negli zaini, tante cartoline con cui rendevamo nota la nostra iniziativa.
Iniziativa talmente “volgare” che ebbe un discreto successo. La voce si era diffusa e, già dal terzo giorno di cammino, altri “trasgressivi” iniziarono a unirsi a noi: chi per una tappa, chi per due, chi fino a Roma. Incontrammo le associazioni locali, quelle LGBT ma anche le altre, e i sindaci, e i consigli comunali.
Ci contattavano col cellulare, ci chiedevano quando saremmo passati, ci fissavano un appuntamento. Con tutti scambiammo belle parole; tutti si assunsero qualche impegno.
A volte ascoltammo storie stringenti, come quella della panettiera che ci aspettava per raccontarci la sua esperienza di madre di un ragazzo gay, o quella di quel frate che pianse tutti i suoi dolori.
Ci regalò un Tao. Lo misi al collo e lo tenni ben in vista per il resto del percorso, specialmente quando entrammo in piazza San Pietro con Monica Cirinnà che ci volle accompagnare per l’ultima tappa, e quando fummo ricevuti in Campidoglio (era sindaco Ignazio Marino).
Porto ancora quel Tao, ora che le Unioni Civili esistono e che la legge contro l’Omofobia è in discussione alla Camera. Sono convinto che abbia fatto il suo pezzettino nel cammino verso i nostri diritti civili. E se incontrassi Di Battista, gliene racconterei volentieri la storia.
Ma gli direi anche: caro Di Battista, non siamo carne da voto! Nè a favore, nè contro. Siamo gente dignitosa, noi.