Say Goodbye to Cosmobimbo. Un racconto contro l’omofobia
Un racconto di Matteo B. Bianchi
“Non ricordo quando è stata la prima volta che qualcuno mi ha chiamato “frocio”. So solo che è incominciato tutto in classe. Un po’ per la storia che ascolto Miguel Bosé, un po’ perché sono una segna a calcio (e, in generale, in qualsiasi sport) e un po’ per invidia, perché sono il primo della classe. I ragazzini sanno essere crudeli, molto più degli adulti, se vogliono. … Penso ai ragazzi che ho aiutato e ai tanti, ai troppi, che ancora ci sarebbero da aiutare. Penso agli eroi silenziosi che stanno combattendo da soli contro una malattia più grande di loro. Penso al secolo che è appena sfumato e alle rivoluzioni sociali che porterà il nuovo. E, certe volte, penso anche a me stesso. Penso che, in fondo, mi piacerebbe esistere realmente”. Un bel racconto che parla di omofobia scritto dalla scrittore Matteo B. Bianchi.
Lato A: 1979
“Super! Superman!” urla Miguel Bosé dal televisore in cucina e io urlo con lui. Bosé indossa una magliettina aderente a righe e un paio di jeans slavati dalle cui tasche posteriori fuoriesce un fazzoletto rosso. La canzone è il suo nuovo successo, tratto dall’album Chicas, che vuol dire ragazze. Lo so perché l’ho comprato. È la prima volta che compro un LP intero, fino a oggi avevo comprato solo dei 45. Ma Miguel è Miguel.
In classe mi prendono in giro, perché dicono che è un cantante da femmine, e che i maschi devono ascoltare il rock. Ma a me il rock non piace per niente e, a costo di litigare, continuo difendere Miguel Bosé, che fa tante canzoni belle, come Anna, Olympic Games e anche Vote Johnny 23, dedicata al Papa. Quindi è un cantante importante, se può dedicare una canzone al Papa.
Ma la vera verità non ho il coraggio di dirla.
Il fatto è che a me non piace Miguel Bosé come cantante, ma mi piace proprio lui. Sono innamorato di Miguel Bosé. Anche adesso, mentre balla in tv, vorrei essere lì insieme al pubblico di Discoring, ma non per battergli le mani, no, proprio per stare dove sta lui, respirare la sua aria, sentire il suo odore, fargli vedere che esisto.
Non ricordo quando è stata la prima volta che qualcuno mi ha chiamato “frocio”. So solo che è incominciato tutto in classe. Un po’ per la storia che ascolto Miguel Bosé, un po’ perché sono una segna a calcio (e, in generale, in qualsiasi sport) e un po’ per invidia, perché sono il primo della classe. I ragazzini sanno essere crudeli, molto più degli adulti, se vogliono.
All’inizio non è stato facile sopportarlo. Voglio dire, ho solo quattordici anni. Ma poi ho pensato che non è colpa mia se il mondo è pieno di deficienti stronzi e ho deciso di ignorarli, di lasciar cadere gli insulti come se non fossero rivolti a me. Il fatto è che riesci a tollerare le crudeltà finché riguardano solo te, ma quando cominciano a toccare anche le persone che hai vicino allora il discorso cambia.
Vedo mia mamma al di la del cancello della scuola. Anche lei mi vede scendere di corsa gli scalini esterni dell’istituto e mi sventola ciao con la mano. Sto per raggiungerla quando mi accorgo che il solito gruppetto di rozzi mi sta fissando con insistenza. Sono appollaiati su una panchina vicino all’ingresso e sembrano aspettare solo me. Infatti, appena sono a un passo, quello che gioca a essere il capo della banda mi fa: “Cos’è? Non sei neanche capace di andare a casa da solo? Hai ancora bisogno della mamma?” e subito dopo conclude: “Frocio”.
A quella parola io mi paralizzo. Mia mamma è a un metro da noi e ha sentito tutto, sicuramente.
Comincio a tremare, come scosso da un terremoto interno. È la vergogna la forza che mi scoppia dentro. La sento partire dalla pancia per poi spargersi dappertutto, in ogni muscolo, dalla bocca dello stomaco sino alle gambe e alle braccia. Ed è proprio nelle braccia, alla fine, che si concentra. Un formicolio pazzesco, un’eccitazione nervosa che non avevo mai sentito prima.
Succede tutto così in fretta che quasi io non mi rendo conto. Il mio braccio destro si stacca dal resto del corpo e colpisce in piena faccia il ragazzo, che cade per terra con un lamento. Poi, con la stessa facilità con cui si era separato, il braccio torna indietro e si riattacca con un soffice clack alla mia spalla.
Il gruppo di sbruffoni osserva la scena con gli occhi sbarrati e, terrorizzato, si disperde.
Io, che ancora non capisco bene quello che è appena successo, alzo gli occhi verso mia madre, testimone di troppe cose nel giro di dieci secondi. Lei mi fissa seria in volto, poi scoppia a piangere. “Lo sapevo” dice fra i singhiozzi. “Lo sapevo che qualcosa, prima o poi, doveva succedere”
Dopo un bel pianto, seduti in macchina, riparati dalle cattiverie del mondo, mia mamma mi racconta la verità. Io non sono figlio dei miei genitori. Anzi, forse non sono neanche figlio di questo pianeta. È un caso se oggi sono qui, sopravvissuto a tutta una serie di cose di cui nessuno ha notizie precise.
Mio padre mi ha trovato in una carcassa di lamiere in fumo, i resti accartocciati di una capsula spaziale, precipitata in un bosco sugli Appennini. I miei genitori (adottivi, ora posso metterci anche l’aggettivo) si trovavano lì in vacanza. Una passeggiata romantica con pic-nic.
Dice mia mamma che il rumore, come di un fischio, è stato fortissimo e che solo grazie alle fronde degli alberi, che hanno attutito la caduta, mi hanno recuperato vivo.
Loro, che non potevano avere bambini e che tanto li volevano, non ci hanno pensato su troppo. Mi hanno avvolto in una coperta e portato via, senza farsi domande sul luogo da dove venivo, senza preoccuparsi delle conseguenze. Però per settimane hanno avuto paura che la polizia suonasse alla porta, che i giornali gli dessero la caccia, come ai terroristi brigatisti, invece niente. Nessuno ha dato notizia dell’UFO, nessuno ha indagato. Forse nessuno si è accorto, ancora oggi.
Per questi quattordici anni mi hanno allevato come un bambino normale, con le pappe, il triciclo, l’asilo, le scuole, la comunione, però nel profondo del cuore sentivano che qualcosa doveva succedere. Qualcosa di misterioso, che avrebbe fatto capire chi ero.
Ed è successo. Adesso.
Di sera, a casa, mio papà mi racconta di nuovo la stessa storia, con altre parole, ma sempre con il groppo in gola, idem la mamma. Ma mi sembra anche un po’ contento e sollevato all’idea di poterne finalmente parlare.
Alla fine del suo racconto mi abbraccia e dice: “Noi ti abbiamo sempre voluto bene come a un figlio vero, più che a un figlio vero”.
Io lo stringo forte e dico che anch’io voglio tanto bene a tutt’e due. Poi lascio i miei genitori in cucina e vado a chiudermi nella mia stanza.
Penso che abbiamo tutti bisogno di silenzio.
Sono agitato e confuso dalle troppe scoperte che ho fatto in questa giornata. Mi chiedo come sarà la mia vita da ora in poi, da ora che so di essere diverso dagli altri. Mi chiedo anche se il fatto che mi piacciono i ragazzi c’entri qualcosa con la mia provenienza extraterrestre.
Resto lì a lungo a fissare la parete, perso nei miei pensieri. Poi lo sguardo viene attirato da uno strano luccichio. Vado vicino e mi abbasso per vedere cos’è. Al principio non lo so, ma dopo un po’ lo capisco: è una sfida.
La raccolgo.
Lato B: 1997
Fare il supereroe non è difficile. Basta imparare a coordinare il tuo corpo e i suoi cosiddetti “superpoteri”, che poi non sono altro che sensibilità comuni amplificate dal diverso ambiente in cui si sono sviluppate, un’altra atmosfera, altre condizioni.
Non è necessario essere così folcloristici, come vuole la tradizione popolare. Per il costume, per esempio, io ho compiuto una scelta sobria e coerente con la mia missione: una tuta azzurra di felpa, tinta pastello, con una piccola “c” in materiale catarifrangente applicata all’altezza del cuore. È una tenuta casual, ma efficace. Non ostacola i movimenti, è calda e, in caso di necessità, permette di fingermi un semplice atleta in vena di stranezze.
L’unica difficoltà reale che ho incontrato è stata quella di dover discriminare le richieste d’aiuto: gli impulsi di pericolo che sentivo provenire erano tanti e tali che in un primo tempo ho temuto d’impazzire. Poi ho capito che solo una selezione rigorosa e necessaria mi avrebbe salvato.
Adesso sono un vero esperto: quando sento vibrare il terrore, il dolore, l’umiliazione nell’aria riesco immediatamente a individuarne l’intensità. Sino a un certo grado non mi sposto neanche.
E che cazzo, un po’ di dolore nella vita è normale, capita a tutti, mica posso preoccuparmene io. Però quando percepisco che la dose di sofferenza è alta, allora mi attivo immediatamente. Mi infilo la tuta, salgo in macchina e mi lascio guidare dagli impulsi, via via più forti, man mano che raggiungo l’epicentro d’emissione.
Molto spesso si tratta di un ragazzino, come lo sono stato io quando ho scoperto la mia vera natura. Un quindicenne impacciato, schernito dai coetanei, additato con crudeltà, talvolta in pericolo fisico di percosse. In questi casi io resto in disparte, studio la scena. Sono in tre, quattro, cinque, lo circondano, lo spintonano. “Cosa c’è, signorina? Hai paura? Vuoi la mamma? Dai, reagisci, se hai coraggio, finocchio”.
“Reagisco io” dichiaro, emergendo dal nulla (vale a dire: da dietro la porta, se sono a scuola, dall’ombra delle tribune, se sono in un campo di calcio, da una vetrina, se sono in un centro commerciale, e così via)
Di solito restano tutti a bocca a aperta, ma la più meravigliosamente aperta è la bocca della vittima, che mi fissa come se vedesse la Madonna (icona o cantante fa lo stesso: un’apparizione destinata comunque a cambiarle la vita).
Il mio famoso pugno snodabile lo uso raramente. Basta la mia comparsa, il tono di sfida, che subito i quattro o cinque bastardi si ridimensionano, cambiano tono, chiedono scusa, spariscono.
Ed è allora che entro veramente in scena, quando mi avvicino al ragazzetto spaventato e gli metto un braccio intorno alle spalle, e dico, con tutta la complicità e la tenerezza di cui sono capace: “Ehi, tutto bene?”.
Lui mi sembra confuso, grato e balbettante. “Si… ma… ma tu chi sei?”
“Se ti dico il mio nome prometti di non ridere?”
Il quindicenne annuisce serio.
“Cosmobimbo”
Lui sorride, immancabilmente. Ho scelto il nome apposta.
“Avevi promesso di non ridere!” lo riprendo, fintamente seccato.
“Scusa”
Gli do una pacca sulla testa. “Ma va là, dài. Hai ragione a ridere. È un nome cretino”.
A quel punto è successo tutto: il ragazzino sorride ancora, stavolta seriamente sollevato e soprattutto già dimentico della freschissima brutta avventura di cui è stato vittima.
“Chi erano quegli stronzetti?”
Lui scrolla le spalle. “Pfff… compagni di classe”
“Bella classe, complimenti”
“Non sono tutti così”
“Meno male”
Lo faccio parlare per un po’. Di se stesso, di quello che fa a scuola, degli amici, se ne ha. Poi lo guardo dritto negli occhi e affronto l’argomento: “Posso chiederti una cosa?”
“Certo” risponde lui, ubbidientissimo.
“Quand’è che hai scoperto che ti piacciono i ragazzi?”
Il lampo di terrore riattraversa il suo sguardo. Si sente improvvisamente spogliato, tradito, raggi-x-sato. Vorrebbe ribellarsi, negare, ma capisce che stavolta non ha senso farlo.
Io sono la consapevolezza.
Allora abbassa il viso, la voce, la guardia. “Da un anno, più o meno” mormora.
Adoro quest’attimo. L’ultimo baluardo della fragilità.
Da domani sarà forte, determinato, pronto.
“Non è mica una cosa grave” comincio. “Succede a migliaia, milioni di ragazzini come te, nel modo” e via che gli srotolo il discorsetto di tutta la gente che l’ha preceduto, dei libri da leggete, dei posti dove andare, delle associazioni a cui eventualmente fare riferimento, ma soprattutto lo tranquillizzo sulla legittimità delle sue sensazioni e dei suoi sentimenti. “Sì, tu sei diverso dagli altri” concludo “ma non c’è niente di esaltante nella normalità”.
È un discorso che con gli anni ho imparato a perfezionare, scegliendo i termini giusti, le pause, i riferimenti culturali idonei all’età dell’ascoltatore. Al termine del monologo posso permettermi delle divagazioni, specie nei casi più difficili.
“Poteva andare peggio”
“Per esempio?”
“Per esempio, nascere stilista”
Sdrammatizzare è il mio forte. I ragazzini capiscono, si lasciano andare, tirano un sospiro che non è di sollievo, ma di coraggio per se stessi. Hanno la vita davanti, da affrontare a mani nude. Ma ora sanno che potranno farcela.
E poi, per ultimissimo, lancio il mio asso nella manica, il mio più sorprendente regalo, prima di sparire per sempre.
Regalo loro un alleato reale. Un amico, un compagno di classe, talvolta addirittura un insegnate. È sufficiente che mi concentri un attimo per avere un’immagine abbastanza dettagliata del suo ambiente di vita, della scuola, del quartiere, della squadra di gioco. È come una visione, una diapositiva che cala davanti ai miei occhi, volti sconosciuti fra i quali individuo subito ciò che sto cercando.
“Hai presente il ragazzo con i capelli ricci e gli occhialini rotondi di quinta C?”
“Ma chi, Gianni Salvemini?”
“Si, lo conosci?”
“No, be’, solo di vista”
“Ecco: Gianni è come te”
Non è necessario specificare in che senso vada inteso quel “come te”. Lui ha già capito tutto, i suoi pensieri sono puntati verso la prospettiva di avvicinare questo Gianni, di parlargli, di diventarne amico. Il mio ruolo è svolto.
Say Goodbye to Cosmobimbo.
Ogni tanto però le cose non sono così semplici. La violenza, quella vera, è sempre in agguato. L’altra settimana ho soccorso un uomo di mezza età, assalito brutalmente da una banda di teppisti in un parco famoso per i suoi incontri notturni.
Quando sono arrivato ho scorto un picchiatore nell’atto di spaccare una bottiglia di birra sul capo del poveretto. Cocci, sangue e urla disperate. Non ho atteso di mostrarmi alla luce, di impaurirli con la mia comparsa; ho lanciato il mio braccio nello stomaco dell’aggressore, rovesciandolo a terra. Poi ho caricato anche gli altri con foga, finché erano riversi sull’erba, doloranti, macilenti, moribondi.
Ho soccorso l’uomo ferito e l’ho trasportato in ospedale. In macchina ha pianto come un vitello. Diceva: “Che vergogna!” senza capire che non era certo lui quello che doveva vergognarsi. Io tacevo la mia filosofia, gli dicevo soltanto di rilassarsi, che sarebbe andato tutto bene. I teppisti li ho abbandonati là, chiaro. Spero sempre che muoiano, ma tanto quelli se la cavano sempre.
Essere un supereroe del mio genere dà soddisfazione. Perché le tue gesta non si esauriscono in un intervento, in un salvataggio momentaneo, ma lasciano tracce destinate a svilupparsi col tempo ed è bellissimo incontrare le persone a cui hai dato una mano, gente di cui non ricordi neanche il nome, né il viso, e che improvvisamente, in discoteca, al supermercato, per la strada, ti si parano davanti gridando: “Ma tu sei Cosmobimbo!” e pieni di gratitudine ti raccontano stralci di vita che, alla fine, senti come parzialmente tuoi. E allora ti sembra davvero che tutti gli sforzi che stai affrontando valgano qualcosa.
Ogni tanto, la sera, quando non c’è nessun segnale di pericolo nell’aria, mi affaccio alla finestra e resto lì, con i gomiti appoggiati al davanzale, pensare.
Penso ai ragazzi che ho aiutato e ai tanti, ai troppi, che ancora ci sarebbero da aiutare. Penso agli eroi silenziosi che stanno combattendo da soli contro una malattia più grande di loro. Penso al secolo che è appena sfumato e alle rivoluzioni sociali che porterà il nuovo. E, certe volte, penso anche a me stesso. Penso che, in fondo, mi piacerebbe esistere realmente.